Il valore dell'ibridazione
Il livello macro
Una delle certezze che in questa epoca di insicurezze ci viene restituita a livello macro (cioè di sistema-Paese) è che è finita l’era della netta “separazione” tra Stato, privato for profit e privato non profit.
La funzione di pubblica utilità, in passato assegnata allo Stato, deve oggi allargarsi e includere nuovi soggetti capaci di condividere una comune visione di bene. In altri termini, bisogna assumere una nuova prospettiva di interpretazione e di azione, quella della co-produzione dei beni di pubblica utilità, ovvero di quei beni in grado di rimuovere o ridurre il disagio sociale nelle sue diverse espressioni e, di conseguenza, di aumentare il livello di benessere collettivo.
La co-produzione implica che una molteplicità di soggetti (Stato, privato for profit e non profit) superino la logica individualista e la “monocrazia” dei poteri finora imperanti. Significa, in altri termini, riuscire a generare tali beni all’interno di rapporti di interconnessione tra loro esistenti, al fine di una produzione di valore economico, istituzionale e sociale diffusa, non solamente “verticale”. Per essere compresi e analizzati devono poter interagire in modo da restituire a ciascuno il proprio “potere”.
Ad esempio, la produzione di valore economico, non è più meramente prerogativa di soggetti aventi natura for profit. Secondo il concetto di shared value, sempre più imprese for profit hanno compreso l’importanza di dare evidenza alla loro azione di costruzione di valore condiviso, concetto che sottolinea la capacità di creare valore economico unitamente al valore per la società, al fine di dare risposta ai suoi bisogni e alle sfide cui deve far fronte.
Ciò significa dare vita ad un’era della complementarietà, dell’integrazione, della collaborazione, ma soprattutto della cooperazione e dell’ibridazione, dove in particolare quest’ultimo termine indica l’attuazione di un processo in cui logiche diverse – anche apparentemente in contrasto tra loro – vengono portate avanti insieme per il raggiungimento di obiettivi comuni.
A livello macro ciò si traduce nella capacità di perseguire al contempo l’ottenimento di obiettivi di natura sociale ed economici nella costruzione di nuovo modello di welfare nonché nel ripensare al tessuto economico ed imprenditoriale del nostro Paese. In primo luogo, si tratta di riformulare un sistema di welfare basato sulla sussidiarietà circolare, ovvero quel principio che si pone come obiettivo quello di far interagire, in modo sistematico e permanente, i tre vertici dell’intera società e cioè quello della sfera politico-istituzionale, quello della sfera commerciale e quello della sfera della società civile.
In secondo luogo, si tratta di cambiare il paradigma sottostante il tessuto economico ed imprenditoriale nazionale, ossia sviluppare modelli maggiormente inclusivi ed equi, orientati alla produzione di valore economico non solo per l’impresa ma anche per la comunità di riferimento.
In altri termini, assumere la prospettiva dell’ibridazione influenza radicalmente il nostro modello di sviluppo, inteso come processo che coinvolge non solo aspetti di natura economica, ma anche sociale e politica (concetto diverso da quello di crescita, che invece si riferisce alla capacità di uno specifico tessuto economico di incrementare la disponibilità di beni e servizi per rispondere al fabbisogno della popolazione di riferimento). Ciò implica la conseguente necessità di tradurre tale processo all’interno dei soggetti delle diverse sfere che compongono la nostra società.
Infatti, se cambia la modalità di produzione del valore necessariamente dovranno cambiare anche le istituzioni (in termini di regole, di policy, ecc.), ad oggi incapaci di operare un cambiamento in grado di garantire il passaggio da capacità a capacitazione (á la Sen), permettendo così alle persone di mettere a frutto le proprie capacità e tradurle in azioni.
Inoltre, un cambiamento nella modalità di produzione del valore comporta anche un necessario cambiamento verso un modello di sviluppo fondato sul concetto del co-operare, ovvero un modello in cui si condividono non solo i mezzi (come invece accade in un modello collaborativo) ma anche i fini del proprio agire.
In tal senso, la dimensione sociale non è più relegata ad essere un output del processo di re- distribuzione messo in atto dalle istituzioni pubbliche, bensì diventa un meccanismo generativo, un input, all’interno di un modello di “sviluppo umano integrale”. Ciò avviene in virtù dell’apporto di valore specifico all’interno del processo produttivo (si pensi, ad esempio, al mutualismo) e permette di superare la logica “a due tempi” che vede una scissione e una successione temporale dei processi di produzione e redistribuzione di valore sociale.
Il livello micro
Come detto, il processo di ibridazione deriva dall’esistenza di due processi convergenti che propendono a contendersi uno spazio decisivo e strategico: da un lato, la necessità di aggiungere al tradizionale operato (di natura sostanzialmente commerciale) dei soggetti for profit una dimensione sociale (relazionale) che vada di pari passo. Dall’altro lato, il bisogno dei soggetti non profit di fare propri modelli organizzativi che permettano un più ampio respiro in termini di superamento dei vincoli legati alla governance e di accesso a risorse finanziarie differenziate.
Alla luce di queste necessità, oggi si vedono nascere sempre più soggetti ibridi, ovvero realtà che si collocano su entrambi i lati della linea di demarcazione for profit/non profit, ovvero riducono questo confine assumendo mission sociali e producendo al contempo un reddito da attività commerciale per poter perseguire la loro missione.
Comune denominatore dell’azione di tali soggetti è il perseguimento della sostenibilità, intesa non come riduzione dell’impatto negativo in termini sociali (o ambientali) delle attività intraprese, bensì come tentativo di creare miglioramenti sistemici a livello sociale (ed ambientale) attraverso la loro azione (erogazione di servizi o commercializzazione di prodotti). In tal modo, le organizzazioni ibride sperimentano nuove combinazioni di attività imprenditoriali caratterizzate da elementi di innovazione volti ad ottenere un forte e positivo impatto sociale.
Il processo di ibridazione a livello micro – cioè all’interno di singoli soggetti – si sviluppa, in particolare, rispetto a specifiche aree: l’ideazione del modello di business (o business model), la configurazione della governance, la struttura organizzativa e lo stile di leadership, nonché la combinazione di risorse economico-finanziarie a disposizione.
I primi elementi di ibridazione possono essere riscontrati nel modello di business di un soggetto, evidenziando ad esempio un’apertura verso un network di partner di diversa natura, piuttosto che dando una definizione di valore offerto che tenga conto sia di una dimensione economica che sociale.
Ciò si ripercuote, ovviamente, sulla governance dell’organizzazione in questione, solitamente formata da una pluralità di soggetti caratterizzati da differenti background di esperienza, di funzioni, di forme giuridiche, ecc.; così come pure sulla necessità di un’apertura in termini di leadership e di una complessità – in senso positivo – di competenze richieste a livello di struttura organizzativa.
Il processo di ibridazione, inoltre, permette di internalizzare investimenti e “capitali pazienti” per scopi di natura sociale al fine di consentire il finanziamento delle proprie attività attraverso un mix di strumenti finanziari che permettono di diversificare rischi ed opportunità. Attraverso la sua flessibilità, il concetto di ibridazione permette dunque di massimizzare la capacità delle organizzazioni di adattarsi ad uno scenario, sociale ed economico, estremamente complesso e differenziato, cui istituzioni tradizionali – all’interno di un’azione individualista – oggi non sono più in grado di fornire risposte consone.
Tale processo comporta l’emersione di due modelli di imprenditorialità, caratterizzato da due diverse modalità di produzione del valore:
1. da un lato un modello che dà origine a istituzioni estrattive, in cui il valore estratto dal sistema è redistribuito in maniera esclusiva a specifici gruppi di soggetti. La presenza esclusiva di tale modello è certamente in grado di garantire la crescita del sistema ma non
altrettanto lo sviluppo e l’equità;
2. dall’altro lato, invece, un modello generatore di istituzioni inclusive, dove il processo di produzione del valore viene “socializzato” e condiviso tra tutti i soggetti che ne prendono parte, indipendentemente dalle loro connotazioni e specificità.
Bisogna però essere chiari su un punto: non si tratta dell’esaltazione di un discorso ideologicamente egualitarista, non si afferma che la “socializzazione” del valore deve essere obbligatoria e uguale per tutti. Si afferma piuttosto che la comprensione delle mutate condizioni del sistema, e il riconoscimento dell’elemento sociale (relazionale) come input, conferiscono al modello di istituzione inclusiva un valore aggiunto per il sistema.
Solo la presenza di entrambi i modelli (il pluralismo delle forme di impresa) può garantire una reale democrazia economica.