Speciale

Insegnare: un mestiere creativo e artigianale

Anticipiamo un estratto del libro di Marco Rossi-Doria con Giulia Tosoni, Insegnare. Intervista sulla scuola che ci meritiamo (Edizioni Gruppo Abele, Torino 2015), frutto di un intervista svolta nel 2014.

 

Tu sei considerato un esperto di temi educativi e, in particolare, di educazione nei contesti difficili, quelli di massima esclusione sociale. Inoltre sei stato formatore, consulente su queste tematiche per diverse istituzioni e sei anche stato impegnato in politica e in incarichi istituzionali, in particolare come Sottosegretario all’Istruzione nei Governi Monti e Letta [ndr. Sottosegretario all’Istruzione nel Governo Monti dal novembre 2011 al marzo 2013 e nel Governo Letta dal maggio 2013 al febbraio 2014]. Però definisci te stesso soprattutto come maestro, come insegnante. È stato questo il tuo mestiere sin da quando eri molto giovane. Credo, allora, che sia importante in questa conversazione, che attraversa tutte le fasi della tua esperienza professionale, insistere sul mestiere di insegnare. E su come hai scelto di svolgerlo, pensando e attuando, insieme ad altri, forme di educazione non convenzionale, attive, innovative, anche mirate verso chi aveva abbandonato la scuola. Secondo te, esperienze come quella dei maestri di strada possono insegnare qualcosa alla scuola normale, convenzionale? Sono riuscite a farsi metodo e non solo sporadica esperienza innovativa?

Come tanti e tante maestri e maestre che ci tengono a fare bene scuola, ho ricercato vie nuove per aiutare ad apprendere, a esplorare il mondo, a consolidare presto e bene le conoscenze senza le quali si fa fatica a vivere. Ma non ho mai ritenuto di praticare un’educazione “non convenzionale” o, al contrario, “convenzionale”. La scuola “normale” – che non ha un assetto prototipale, sperimentale, fondato sull’innovazione e che preferisco chiamare “la scuola che tutti meritiamo” – è sempre, per sua natura, un cantiere sia convenzionale che non convenzionale. Insieme. Vale per i maestri di strada come per qualsiasi altra forma di scuola. Provo a spiegare con parole non “specialistiche” questa scuola che meritiamo tutti, imperfetta ma molto buona. Quando uno fa l’insegnante, in particolare se fa il maestro elementare – o di scuola primaria, come si dice adesso –, l’aspetto prevalente del mestiere riguarda la quotidianità della relazione educativa e dell’apprendimento dei bambini: come stanno, a quali azioni e rituali partecipano, quali operazioni mentali, fisiche e emotive svolgono con gli altri e da soli, che cosa e come imparano. Questi elementi forniscono il senso concreto al mestiere, ma ne rappresentano anche il significato generale. Occupano l’attenzione di chi fa il maestro: ti svegli la mattina, vai a scuola, stai con i ragazzini in una classe, non una tantum o per un periodo, ma ogni giorno e per anni; e fai, osservi, ascolti, proponi, porti avanti, come adulto esperto di apprendimento che guida bambini a imparare. Nel fare questo – è inevitabile e anche molto bello – continui a imparare a tua volta e devi lasciare che ciò avvenga, accoglierlo. Osservi loro e te stesso. Sorvegli la tua relazione con loro: sei adulto e assumi una responsabilità, sei in una posizione asimmetrica, il che richiede una disciplina interna e un pensiero evoluto sul significato di tempi, contenuti, routine, riti, proposte, gesti, parole che usi nell’aiutare ad apprendere e accompagnare a crescere. Sei in un campo “naturale”: l’educazione è una funzione umana naturale perché universale. Ma hai anche una missione socialmente fondata. Lì si imparano certe cose e tu sei un esperto, un professionista dei processi di apprendimento, che sono complessi. Dunque, sei ogni volta un teorico in azione e un pratico che si chiede se va bene o no, che aggiusta il tiro, corregge, aggiunge, toglie. Non sei in un contesto “convenzionale” o “non convenzionale”, sei immerso in un artigianato emotivo e cognitivo insieme, pensato e manutenuto per favorire apprendimento. Il che richiede scienza ma anche arte, per dirla un po’ all’antica. E, così, ti imbatti in una serie di questioni che riguardano i bambini e anche te stesso. Certo, ogni lavoro interroga se stessi, ma qui si tratta di una relazione umana intensa, ripetuta ogni giorno, per anni, con persone che stanno crescendo e sono giovani alla vita: c’è un “di più”.

 

Entre les murs (The Class, France 2008)

 

E, nel fare questo, cosa sarebbe auspicato incontrare, in concreto?

In qualsiasi scuola si arrivi per fare questo mestiere, ci si imbatte in questioni che richiedono lavoro e soluzioni ogni volta. Che possono essere trattate più o meno bene. La prima questione è che ci vuole un ambiente, un contesto entro il quale imparare. Bene, questo contesto, se buono, è curato perché si impari con piacere, con rispetto reciproco, con la voglia di scoprire, di sorprendere e sorprendersi, di inventare e provare, ma anche di fare bene cose noiose. Perché un po’ le cose vanno ripetute e “allenate” – non è che si impara in un batter d’occhio – e bisogna ogni volta poter consolidare quel che si è appreso attraverso l’esercizio. Ecco, sarebbe auspicato poter incontrare a scuola un luogo di scoperta, di avventura, di dialogo che via via dia un senso di maestria, per potersi dire, anche da molto piccoli: «Questo ora lo so fare». Insomma, una “buona scuola” è un contesto, che – attenzione! – molto spesso già c’è, viene praticato, esiste, nel quale i bambini e poi i ragazzi possono vivere “meraviglie e lavoro”. Un posto permette di crescere quando è come la vita, ma senza ancora essere la vita. Quando mette in difficoltà e crea lo spaesamento indispensabile, ogni volta, per apprendere ed è però anche un luogo protetto, che mette insieme le persone diverse in un clima di autenticità.

 

Insomma, a scuola bisogna conoscere momenti di esplorazione, di scoperta, di estro e di divertimento, ma anche vivere frustrazioni ben graduate, un po’ di fatiche?

Sì, in modo equilibrato, per poterle elaborare, superare, assaporando soddisfazioni. Creare, migliorare, custodire e manutenere questo contesto, che vede l’azione dei docenti, ma soprattutto l’incursione quotidiana di ogni bambino e dei bambini tutti insieme. È la prima cosa che va manutenuta, stimolata e promossa in ogni scuola della Repubblica.

 

Vi sono altre questioni alle quali attribuisci altrettanta importanza?

Sì, la seconda questione – sto semplificando, ovviamente – è che ogni essere umano e bambino impara a modo suo e questo suo modo va osservato, registrato, accolto, capito. Può essere un modo che ti è congeniale e noto, oppure no. È comunque un modo da tenere in grande conto. Però – attenzione – le cose si complicano. La scuola è un luogo sociale, di costruzione sociale e di apprendimento svolto insieme. Dunque va aggiunto che, sì, ognuno impara in un modo, ma che molti modi si assomigliano. Infine, si impara tanto insieme, tra diversi. E questo, per potere avvenire, richiede un certo grado di limitazione, anche molto variabile, che ognuno deve imparare ad accettare, il che crea anche qualche frustrazione. È una questione di equilibrio da trovare ogni volta. Il proprio modo di imparare, per ciascun bambino e bambina, deve esistere, deve esprimersi ed essere riconosciuto; ma, al contempo, non può regnare in modo assoluto o prevalere, deve essere contenuto dall’altro da sé perché vi sia un processo sociale di apprendimento e un’organizzazione della quotidianità a scuola, uno spazio comune. Così, la scuola è il luogo dove ci si abitua al confronto costante tra coetanei non consanguinei e tra questi coetanei e un adulto che è lì per condurre processi di effettivo e ricco apprendimento.

 

L’elemento dell’altro da sé come limite e opportunità è complicato. Ne hai parlato a lungo con Clotilde Pontecorvo e c’è un libretto che raccoglie questi ragionamenti.

Sì: non siamo soli al mondo e dobbiamo imparare presto che è così. La scuola serve moltissimo a questo. Ed è anche un grande piacere imparare in modi diversi, ma insieme. Poterlo riconoscere, attraverso l’esperienza quotidiana a scuola, da bambini, e capire che funziona, serve ed è pure piacevole. Si pone qui la terza questione che si lega alla seconda: i bambini imparano insieme, imparano moltissimo uno dall’altro. Allora devi prevedere e guidare queste due cose e non lo puoi fare partendo da te ma, appunto, dal contesto, dallo spazio comune. Devi creare un ambiente di apprendimento ricco, molteplice, osservato. Devi organizzare i tempi, le azioni, le parole, le complesse relazioni e gli oggetti dell’apprendere in modo che ci sia spazio per seguire Antonietta e Carlo, che hanno una specifica voglia di imparare qualcosa, o non capiscono qualcos’altro, nei medesimi tempi o modi, ma che, intanto, sono dentro un processo singolare e plurale insieme. Un processo che va avanti, che apre porte, ma che con-tiene persone diverse. C’è un quadro di riferimento per tutti, certo. Le “indicazioni nazionali". Ma queste vanno seguite progettando con ambizione e fantasia, intorno ad alcuni indirizzi che hanno da sempre caratterizzato la scuola attiva rispetto a quella trasmissiva: indagare le cause dei fenomeni, interrogarsi sul tempo, capire le relazioni spaziali, confrontare e misurare, imparare a dialogare e poi formalizzare quel che si è detto insieme, fare esperienze emozionanti e parlarne e scriverne, stare fuori insieme e fare dell’ambiente la scuola, cooperare in ogni lavoro. Potrei continuare…

 

Da sinistra: Ferdinando Scianna, Villa Palagonia, Bagheria; Ferdinando Scianna, Mani che sorridono, Benares 1997

 

Tutto questo è auspicato e bello da ascoltare. Ma spesso si scontra con le parole degli insegnanti, secondo i quali «bisogna seguire il programma». Allora, quale parte deve avere il convenzionale (nel senso di ciò che è convenuto e, poi, codificato nel programma o nelle “indicazioni per il curricolo”) nella conduzione della vita scolastica e quale il non convenzionale?

 

Intanto anche le cose che stiamo dicendo sono ormai “convenute”. E questo va rimarcato. Perché le indicazioni nazionali non nascono sulla luna. Provengono da decenni di esperienze vive di centinaia di brave maestre e maestri, da studio, dibattito internazionale e sono nel solco della scuola attiva e cooperativa e non in quello della scuola trasmissiva. Dunque, nel nostro tempo è anche convenzione codificata il fatto che gli insegnanti, nel loro lavoro, siano chiamati a costituire un laboratorium, nel quale la tensione allo scoprire arrivi a un corpo stabilito di conoscenze convenute, ma attraverso un ricco processo non trasmissivo. La stessa espressione “indicazioni per il curricolo” dice questo. Poi, sai, ogni insegnamento segue per forza convenzioni, è convenzionale. E interroga contenuti, la sostanza delle materie, attraverso il metodo induttivo e deduttivo. Ma poiché bambini e ragazzi imparano scoprendo, facendo, sperimentando, il fatto che sia escluso il procedere induttivo è ancora molto preoccupante. Il processo di apprendimento – che alterna costruzioni logiche, invenzione, estro, incontro con evidenze parziali e non ancora regolate – avviene per scatti, prove, errori, ritorni eccetera. E così consente la più larga capacità di comprendere a fondo il senso del sapere. Abbiamo, anche qui, due spinte insieme. Entrambe vanno riconosciute entro il contesto-scuola. Siamo – come esseri umani che vivono insieme – immersi in convenzioni. E i linguaggi vivono a loro volta perché hanno sintassi e convenzioni che ne costituiscono le ossature e che possono essere trasformate e anche smentite, ma che comunque vanno comprese nei loro sensi. Tutto questo fa moltissimo parte della scuola. Noi insegnanti maneggiamo convenzioni e ne dobbiamo interrogare i sensi, insieme ai bambini, se facciamo buona scuola. E poi ci sono le vie misteriose della domanda, del dubbio, della scoperta e della creatività, che cercano e trovano l’incontro con le convenzioni ma che sono, al contempo, cose molto libere, rischiose, anche sregolate. Non subito e sempre riconducibili a strutture convenzionali. Quindi anche l’insegnante più “preoccupato del programma” quasi si imbatte nella necessità di tenere insieme le convenzioni che vanno ritrovate, passaggio dopo passaggio, per i loro molteplici sensi e le tante attività di espressione e ricerca che popolano i processi di apprendimento umano. Per quanto questo docente si senta pressato dal programma (è, forse, una preoccupazione che sta in ognuno ed è anche giusta), non può ridurre tutto a mera trasmissione di sapere già dato o all’uso del solo metodo deduttivo. Per quanto abbia paura o provi fatica, ogni insegnante deve pur arrivare a una qualche forma di laboratorio. Deve rendere effettivi – se sta in relazione con i bambini e i ragazzi – l’opportunità e anche il rischio dell’apprendere attivo e aperto. Deve pur ammettere, se solo guarda i bambini fare le cose, parlare, interrogarsi, imparare, che esplorazione e uso dell’energia e dell’intelligenza dei bambini sono il terreno più promettente per l’acquisizione proprio delle convenzioni costruite dall’umanità nei secoli.

 

Hai accennato alle opportunità e ai rischi insiti nei percorsi di apprendimento. Puoi approfondirne la natura? E puoi descrivere, in concreto, come funziona il laboratorium?

L’Italia è piena di migliaia di docenti che fanno laboratorium come prassi ordinaria. E abbiamo una lunga storia da cui imparare. Penso, per esempio, alla matematica di Emma Castelnuovo. Mi chiedi cosa significhi questo in concreto. Pensa a mettere le forme geometriche a disposizione dei ragazzi, che lavorano insieme per dare loro un senso, anziché imporre lo studio delle formule prima ancora di scoprire il senso delle forme. Apparentemente, se insegni che per calcolare l’area di un triangolo si fa «base per altezza diviso due» fai prima e dai più certezze. Ma riduci la geometria a negazione di se stessa. Ascolta cosa scriveva Emma Castelnuovo, settanta anni fa, in merito alla possibilità, operante a scuola, di una geometria intuitiva:

 

Obiettivo principale del corso di Geometria intuitiva è suscitare, attraverso l’osservazione dei fatti riguardanti la tecnica, l’arte e la natura, l’interesse dell’alunno per le proprietà fondamentali delle figure geometriche e, con esso, il gusto e l’entusiasmo per la ricerca. Questo gusto non può nascere, credo, se non facendo partecipare l’alunno nel lavoro creativo. È necessario animare la naturale e istintiva curiosità che hanno i ragazzi dagli 11 ai 14 anni accompagnandoli nella scoperta delle verità matematiche, trasmettendo l’idea di averlo fatto per se stessi e, dall’altra parte, far sentire progressivamente la necessità di un ragionamento logico (E. Castelnuovo, Geometria intuitiva per le scuole medie inferiori)

 

Migliaia di docenti italiani hanno usato questo approccio. Ma altre migliaia – ecco il punto – no. Ed è stata una perdita per tutti. Oppure pensa a un docente di scuola primaria che insegna inglese – l’ho fatto personalmente – e che costruisce un plastico con i suoi alunni, parlando in inglese mentre conduce il lavoro del gruppo di bambini, mentre dà nome, in altra lingua, a cose rappresentate nel plastico e ad azioni condotte davvero: colori, gesti, attrezzi, quantità eccetera. O pensa all’ascolto, in una primaria, di una fiaba. Il silenzio. E poi il disegno. E poi il ritrovare le parole… Mi sovviene un recente incontro con alcune docenti di scuola dell’infanzia. Queste hanno lavorato sulle quantità in molti modi diversi, non forzando il calcolo. Ebbene, poi, parlando con i bambini su tutto ciò e su cosa è un numero, una bimba ha detto: «Il numero è il disegno che ci dice quante cose ci sono». Mi vengono in mente gli insegnanti di inglese o di scienze degli istituti professionali alberghieri, che in cucina, mentre si è in azione, immettono elementi di conoscenza, nozioni che dal contesto ricavano una potenza straordinaria e aprono successive vie di apprendimento. Ricordo anche la docente di greco che mette insieme su un grande tavolo, fatto con i banchi uniti, le diverse versioni pubblicate in Italiano di un canto dell’Odissea e le grammatiche e i vocabolari e avvia un “cantiere del commento” alle traduzioni, che diventa una miniera di passioni e di apprendimento. O alla funzione straordinaria degli stage e dei periodi all’estero… Potrei continuare a lungo. Per ogni obiettivo in termini di conoscenze e competenze non si tratta di creare gabbie con unità di apprendimento chiuse, bensì di riconoscere o aprire cantieri dove vi sia un lavoro di ricerca e uno di riordino, poi di nuovo ricerca e così via, in modo trasversale anche alle materie. E in modo cooperativo tra bambini. E poi tra ragazzi. L’Italia è già ricchissima di queste cose. Vanno rese più visibili, mostrate, raccolte, indicate come vie. Devono poter prevalere. È questa la sfida dei prossimi anni.

 

Ma fare queste cose in un continuo laboratorium e mettere ordine nei percorsi di apprendimento richiede agli insegnanti competenza e lavoro complesso.

Certo che sì. Quella dell’insegnante è una professione che per funzionare deve tenere insieme competenze relazionali, studio del metodo di insegnamento legato a come si apprende e un sapere sulle materie (in modo da non dire sciocchezze per voler semplificare cose che semplici non sono, rischiando così un’opera di banalizzazione del sapere). Conoscere bene – ma bene davvero! – i contenuti delle materie è un prerequisito fondamentale per potere insegnare. Non è tutto metodo. Il metodo conta. Però bisogna sapere la sostanza per favorire processi di apprendimento. E, anzi, più si fa scuola come laboratorium e più il docente e il gruppo dei docenti devono avere una competenza di merito. Perché se ci si organizza per fare riscoprire le cose, navigando insieme ai ragazzi in un’avventura conoscitiva, le bussole riguardanti lo stato della conoscenza umana, aggiornata su quel che i bambini e i ragazzi stanno per incontrare e conoscere, è importante. È un lavoro, sì, molto complesso. E va aggiunto: molto creativo.

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