Jean-Luc Nancy: siamo corpi
«Quando i nostri occhi si toccano, è giorno o notte?».
Letta in un momento imprecisato su un muro di Parigi, questa iscrizione anonima raggiunge Jacques Derrida perché ne scriva e la dissemini. Un’iscrizione che viaggia dalle rive di un’altra lingua e che gli si offre perché la indirizzi all’allievo, all’amico, al sodale Jean-Luc Nancy. E se nominare è al fondo un atto d’amore, allora Derrida nomina Nancy il più grande pensatore del toccare (le toucher) di tutti i tempi, dopo Aristotele. Al cuore della sua filosofia del corpo c’è, infatti, il toccare, un gesto mai neutro né semplice perché porta con sé l’esperienza del limite, dei liminari e delle soglie: l’esperienza dell’incontro. Ovvero della inesauribile spaziatura tra intimo ed estraneo, con la sua inevitabile scia di smarrimento: È giorno? È notte?
Non c’è intimità senza estraneità. Lo insegna bene la clinica delle psicosi, specie della schizofrenia in cui, persa la linea mediana tra il dentro e il fuori, il corpo come la realtà vanno in frantumi. Per potersi dare, l’intimità ha bisogno di un elemento separatore che assicuri posti diversi. Ogni rapporto – che sia d’amore o sociale – fa leva su questo spazio interstiziale. Esiste solo grazie al margine di una distanza.
Dalle parole di Derrida giungiamo a quelle che, da rive italiane, Francesca Romana Recchia Luciani indirizza a Nancy. La splendida monografia uscita per Eredi, la collana diretta da Massimo Recalcati per Feltrinelli, ci offre un affresco inedito della filosofia di Nancy. Un affresco che ha il tocco della grazia e la forza di una sapienza nutrita dall’intenso rapporto con il filosofo. Come accade nei metodi avvezzi alla decostruzione, Recchia Luciani procede per smottamenti e dislocazioni. Tra le molte sponde che disegna, sceglierò quella che situa la filosofia di Nancy tra Hoc est enim corpus meum (Questo è infatti il mio corpo) e Noli me tangere (Non toccarmi). Queste due frasi diventano i fuochi dell’ellissi filosofica, della decostruzione operata da Nancy. Partiamo dalla fine: cosa resta?
Di Hoc est enim corpus meum resta corpus. Resta come elemento residuale, un relitto caduto da quell’enunciato suntuoso che, almeno in Occidente, fonda l’idea del corpo. Su questa tessera letterale Nancy costruisce uno dei suoi libri più importanti e imprendibili, Corpus (1992), un testo che Recchia Luciani considera «centrale per comprendere l’architettura del pensiero di Nancy». Un testo – commenta Derrida – che già dal titolo dà da toccare l’intraducibile.
Di Noli me tangere resta invece toccare. In francese, le toucher mantiene aperto l’equivoco tra sostantivo e verbo, tra diatesi attiva e riflessiva, un’oscillazione in bilico su quell’intoccabile che, secondo Derrida, è l’autentica posta in gioco del toccare. Proviamo allora a seguire l’autrice in questa traversata, nella spaziatura che apre tra quei due enunciati.
Corpus
Questo è infatti il mio corpo: ecco la dichiarazione con cui l’Occidente inventa il corpo come dato immediato, avere, appropriazione, «per esserne da quel momento letteralmente ossessionato». Ma la dichiarazione rituale con cui «il divino s’incarna» e prende corpo, porta con sé «un’aporia». Hoc, il “questo” iniziale, «apre una stridente contraddizione con enim, che significa “infatti”», perché «“questo è il mio corpo”, non è nei “fatti”. Non solo nella celebrazione essa è una affermazione in absentia, ma nella realtà stessa questo corpo non è un fatto, né può mai darsi sotto forma di solida presenza». Su questa faglia si innesca la decostruzione.
Nancy smette di pensare il corpo a partire da una trascendenza. Lo scrive invece come contingenza della vita e della morte, del desiderio e dell’amore, dell’eros e della malattia. Un corpo vivo, fatto di carne. In tal senso tra i motori della decostruzione c’è L’intruso (2000) che racconta il trapianto di cuore a cui Nancy si è sottoposto. Come scrive Derrida, quel «dentro assoluto» si era rovesciato in un foro interno. Un collasso tra intimo ed estraneo che destabilizza il concetto stesso di intimità (qui gli estranei sono il suo cuore e il suo corpo). Corpo «è la certezza sconvolta, messa in frantumi», è il corpo proprio «che mostra, che fa toccare, che fa mangiare hoc est enim». A Nancy – commenta l’autrice – diventa necessario che il corpo nomini lo Straniero. Che dica fino a che punto la verità del soggetto è la sua esposizione infinita: «L’intruso mi espone eccessivamente. Mi estrude, mi esporta, mi espropria». Il cuore della giovane donna lo ha salvato, ma ha scardinato un ordine – le terapie immunodepressive sfociano in un cancro. Una volta giunta, l’intrusione si moltiplica, «la sua venuta non cessa. Continua a venire… Rimane cioè senza diritto: un fastidio e un disordine nell’intimità». In questo rovesciamento tra dentro e fuori, tra intimo ed estraneo, il corpo è solo angoscia messa a nudo. È «un’atopia».
A partire da questo evento-trauma, Nancy riscrive il corpo come assemblaggio di elementi eterocliti: «non c’è una totalità del corpo. Ci sono parti, zone, frammenti». “Corpo” fa perciò posto a corpus, la parola della deflagrazione, una «collezione di pezzi, parti, membra, zone, una collezione di collezioni, corpus corporum». Corpus è la parola dell’unità ormai rotta e violata. La parola dell’avversione a un pensiero che identifica e forgia blocchi identitari. La parola del congedo.
Persa la sua unità, il corpo si riscrive come materia vulnerabile e fratta, ma anche come frontiera tra dentro e fuori: una superficie fatta di zone di con-tatto e di tangenza con altri corpi. Così, al concetto di unità, si sostituisce quello di singolarità: benché privo di un’integrità propria, il corpo si singolarizza grazie al contatto con altri corpi: «Questo corpo, questo tratto, questa zona, questo corpo mi tocca (tocca “il mio” corpo)» e, toccandolo, lo fa esistere. Qui il corpo è «quel che accade al corpo», perché, se è vero che non possiamo più dire cosa sia un corpo, possiamo però dire attraverso quali eventi si dia, eventi quali: «godere, soffrire, pensare, nascere, morire, fare l’amore, ridere, starnutire, tremare, piangere, dimenticare». Ciò significa che «quel che esso è, il suo senso, ha a che fare sempre con un’esperienza comune, condivisa». Detto altrimenti: il singolare si definisce e si forma solo nel plurale: la parola rapporto è l’architrave di questa filosofia.
Sono due le conseguenze essenziali di questa riscrittura: da un lato, il corpo diviene lo scriba di una messa in crisi concettuale; dall’altro, si fa pietra angolare di una filosofia del cum.
Per prima cosa, attraverso il trauma che il corpo determina o attraverso l’idea del corpo come trauma, Nancy smonta concetti secolari quali “identità” e “riconoscimento”, e poi travolge la teoria del soggetto «protagonista della metafisica occidentale». Scrive: «Non ci si riconosce più: ma riconoscere non ha più senso. Riferirsi a se stessi è diventato un problema, una difficoltà o un’opacità. Si sperimenta l’identità vuota di un io». Infatti Corpus sottopone alla sua inesausta opera di esfoliazione anche l’ego. Lo decentra, provocando la rumorosa caduta di Ego sum, l’altro enunciato fondante della nostra cultura. Cosa resta di Ego sum? Resta Ego cum, spiega l’autrice. Resta che siamo corpi, non nel senso di sostanze o di averi, ma nel senso di luoghi aperti su un fuori, su un’esperienza di cui non siamo padroni. Corpi che ritrovano un loro possibile punto di articolazione, una loro sponda, solo grazie al margine, al confine, al bordo, al limite tracciato da un altro corpo.
E poi, su questa stessa base, Nancy riscrive anche l’idea di comunità. Eleva cioè una personale contingenza vitale a paradigma filosofico. La venuta dello straniero non resta confinata alla sua singola esistenza, ma può estendersi all’esperienza di Dio, «l’estraneo in senso assoluto», o ai grandi fenomeni culturali e sociali della nostra epoca. Basti pensare alle masse umane di migranti che attraversano l’Europa e i suoi mari. Come pellegrini in cerca di ospitalità e salvezza in queste nostre terre sconsacrate: «La questione immunitaria», suggerisce Recchia Luciani, si rovescia in «questione identitaria».
Nasce da qui una riflessione che muove dal singolare al plurale, «dall’io verso la comunità». Una comunità che ha bisogno di ripensare i suoi confini, i margini che separano l’intimo e l’estraneo, senza occultarne l’impatto intrusivo né il valore salvifico.
Allora “singolare-plurale”, “essere-in-comune”, “essere con”, diventano per Nancy «il nome stesso della comunità» perché «l’esistenza è, solo se condivisa, spartita». Il tema del con diviene così «la cifra propria della sua filosofia».
Entrando in risonanza con la sensibilità poetica di Nancy, Recchia Luciani fa emergere la filigrana segreta di una scrittura imbastita su particelle quali con, ma anche tra, in, e, ex, per arrivare al fuori, all’aperto e, da qui, al toccare.
L’ontologia del con si declina come un’ontologia del tra. Il tra valica l’opposizione ego/altro e si ricongiunge al “fuori”, vero epicentro concettuale di questa filosofia. Innanzitutto, un corpo accede a se stesso solo da fuori: «È attraverso la mia pelle che io mi tocco. E mi tocco dal di fuori, non dal di dentro». Pelle è quindi un altro nome del fuori. Perciò il corpo «è sempre nel fuori» e si scrive a partire da un fuori che lo tocca.
Il fuori è la dimora del toccare: è lo spazio degli incontri, quello in cui i corpi toccano, si toccano e sono toccati. In tal senso, è un’esperienza della soglia e dei liminari. Perciò il corpo – in quanto corpus di tracce, marche pulsionali, tatuaggi, segni, iscrizioni che registrano il diagramma degli incontri – custodisce la nostra singolare esperienza del fuori.
Il fuori è anche lo spazio in cui il corpo si scrive. La scrittura-sismografo rileva tutte le vibrazioni del toccare: si mette sulle tracce, ricerca i segni e gli indizi a cui si riduce l’esperienza del corpo. Non si tratta infatti di scrivere del corpo, di afferrarne il senso, ma di scrivere il corpo stesso. Una scrittura della traccia, una “escrizione” o “ex-scrizione” (éxcription).
La particella sintattica ex annuncia la rivoluzione semantica di questa filosofia del corpo perché estirpa l’“in” dal “proprio” e «lo sposta, lo spazia verso il fuori, verso l’“altro”, e, dunque, lo es-pone». Perché non solo un corpo è esposto, ma consiste nell’esporsi.
In queste interlinea, Nancy inventa «una parola magnifica e necessaria: l’ex-peau-sition», un neologismo che inietta la parola “pelle” (peau in francese) in “esposizione”. Infatti, un pensiero del toccare «deve passare attraverso una teoria della pelle». La pelle, confine estremo tra il dentro e il fuori, è anche la superficie sulla quale la vita si ex-scrive, incide le sue tracce più pulsionali, sintomatiche e psicosomatiche. La pelle è forse l’organo del toccare? In realtà, tutto il corpo partecipa del toccare: il tatto, le mani, gli occhi, la bocca. Il tatto è il senso dei sensi.
Toccare
Toccare è il precipitato di secoli di pensiero. Ed è il verbo che Nancy ripensa attraverso il sintagma evangelico con cui Gesù mette a distanza Maria Maddalena: Noli me tangere – Non mi toccare o, forse, Non mi trattenere. Nancy intesse il suo discorso su un frammento della storia culturale che ha ispirato artisti di ogni epoca, tra i quali Giotto, Dürer, Pontormo e Tiziano. Il suo saggio ha quindi per oggetto quel filone dell’iconografia sacra che, del “toccare”, coglie «la complessità, la polisemia, l’aporeticità». Nell’originale greco Me mou hâptou, il verbo háptein si traduce “non toccarmi”, ma anche “non fermarmi”, “non trattenermi”, come a significare che Cristo non è più nella presenza ma nella partenza. Perché risorgere, in fondo, è non cessare di partire.
Noli me tangere è una frase-soglia perché avviene sulla soglia di un sepolcro vuoto in cui la vita tocca la morte, il divino l’umano, la presenza l’assenza. Il sepolcro vuoto ricorda la beanza di una bocca che si apre e che, «nell’estensione di un volto, forma il vuoto di un non-luogo». È il vuoto delle soglie estreme. Dei paradossi che mettono in crisi la ragione; o dell’aporia che destina il toccare all’intoccabile, che ne inscrive l’indecidibile (esitiamo: Cristo lascia la Maddalena o le dischiude il mistero dell’amore? È abbandono o grazia?).
Sulla soglia del sepolcro, scrive Nancy, «Maria Maddalena è pura nella sua chioma impura, è santa nel suo peccato. Non è altro che l’esposizione del peccato alla grazia». Quale grazia? Nancy le dice: «Tu tocchi l’intoccabile che sfugge alla presa delle tue mani, così come colui che tu vedi di fronte a te già lascia il luogo dell’incontro». La donna sperimenta, con tutti i suoi sensi, l’intoccabile. E allora, quasi fosse una preghiera, Nancy dice alla donna: «Tu non tieni niente, tu non puoi tenere né trattenere niente, ecco ciò che devi amare e sapere. Ecco che cosa ne è di un sapere d’amore. Ama ciò che ti sfugge, ama colui che se ne va. Ama che se ne vada».
Si tratta di una versione fobica del rapporto? Tutt’altro. È quando pensiamo di “avere in pugno” qualcuno che lo perdiamo. Incarcerarlo è come distruggerlo. Toccare l’altro è ritrovarlo sempre accanto a quanto possiamo dirne o afferrarne, sempre un passo oltre. Persino la stretta non si esaurisce nella presa. L’amore, come il desiderio e il godimento, si rilanciano in un movimento inesauribile. Qui, scrive Nancy, lo scopo non viene fissato, l’importante non è giungere alla meta: «la vera categoria non è la prossimità, ma l’approssimarsi. Non uno stato, ma un movimento».
Il movimento della vita non si chiude mai su un oggetto – in tal senso, Nancy rompe il circuito pulsionale disegnato da Freud. Ricerca invece l’irraggiungibile punto di tangenza, «un limite vicino al quale ci si tiene sull’orlo dell’abbandono». L’amore, dice Recchia Luciani, non smette di venire da fuori, è sempre sulla soglia di un non ancora. Anche il toccare si nutre del non ancora perché «il corpo è l’esperienza del toccare indefinitamente l’intoccabile». L’intoccabile si converte allora in un movimento infinito. È forse questa la grazia?
La scena del sepolcro ha posto la pittura dinanzi ai limiti dell’irrappresentabile (come rendere visibile l’invisibile? Toccabile l’intoccabile?). E pone gli esseri umani dinanzi al mistero di un amore che non è appropriazione. In questo orizzonte l’intimità non è afferrare, ma toccare l’altro dove più ci sfugge, senza trattenerlo. L’ossatura del toccare sta proprio in questa cerniera tra il prendere e il lasciare. Nancy affida questo segreto alle mani: le mani non possono tenere ed espropriare al tempo spesso. Il toccare cerca una resistenza spaziale che assicuri un intervallo tra i corpi. Per questo ha luogo nei margini e nelle spaziature. Non si darebbe mai nella proprietà o nella fusione che immobilizza, ma solo nella distanza che restituisce l’altro alla sua alterità. Ecco cosa diventa Noli me tangere se riportato alla vita di ai rapporti.
Toccare è un’esperienza «ove la soglia, il bordo liminare sembrano slittare sempre più in là, in una mise en abyme che sposta i confini e distanzia le rive». Sono queste spaziature i luoghi di esistenza dei corpi, dell’amore, del desiderio, del sesso. Eventi votati all’indecidibile (tenerezza o violenza? Abisso o superficie luminosa?), sempre alla frontiera tra dentro e fuori, eventi della soglia. Risuonano, quasi ad epigrafe di questa bellissima monografia, i versi di Yves Bonnefoy:
«Urta,
Urta per sempre.
Nell’insidia della soglia».