Juan José Saer tra gli indios

26 Gennaio 2024

Quando è uscito Il testimone (El entenado) nel 1983 Juan José Saer aveva già scritto alcuni racconti ambientati nell’epoca della conquista, in cui l’uomo bianco entra in conflitto con le popolazioni autoctone e si smarrisce in un mondo ignoto, impossibile da capire. Mi riferisco in particolar modo a Paramnesia, un racconto pubblicato nella raccolta Unidad de lugar (1967), che anticipa in qualche modo Il testimone, se non altro per via di uno dei personaggi che perde il suo mondo, la Spagna che si era lasciata alle spalle, e vive l’impossibilità di capire la nuova realtà che trova nelle Indie.

Intorno all’anno 1575, un anonimo spagnolo settantenne e prossimo alla morte scrive la sua storia presso gli indios, nel Nuovo Mondo, per recuperare il passato e per fare i conti con quegli anni trascorsi in un luogo lontano, senza storia e senza tempo. Fin dall’incipit di Il testimone, Saer ci porta in un tempo remoto in cui il protagonista inizia a svelare la sua vita:

Di quelle coste vuote mi restò soprattutto l’abbondanza del cielo. Più di una volta mi sono sentito minuscolo sotto quell’azzurro dilatato: sulla spiaggia gialla eravamo come formiche al centro di un deserto. E se ora che sono vecchio trascorro i miei giorni nelle città è perché in esse la vita è orizzontale, perché le città nascondono il cielo. Laggiù, invece, di notte dormivamo alle intemperie, quasi schiacciati dalle stelle.

La scrittura di quella memoria fa sì che Il testimone, più che una narrazione storica, possa considerarsi una riflessione sulla realtà e la finzione, il tempo e il ricordo: un romanzo filosofico che si è rivelato fin dagli inizi come uno dei testi più significativi della letteratura sudamericana. Uscito in italiano per la prima volta con il titolo L’arcano nel 1993 per Giunti, poi ristampato dall’editore La nuova frontiera nel 2015 e ora riproposto con il nuovo titolo, Il testimone, nell’ottima traduzione dallo spagnolo argentino di Luisa Pranzetti, con una postfazione di Paolo Pecere ed edito sempre da La nuova frontiera, che ha pubblicato la maggior parte dei romanzi importanti di Saer.

Dunque, Il testimone racconta la storia di un quindicenne catturato dagli indios antropofagi, unico sopravvissuto: i suoi compagni sono stati uccisi, cotti su una graticola e mangiati. Solo a lui risparmiano la vita, senza che ne capisca bene il motivo. Dopo pochi giorni di permanenza inizia a smarrire i suoi riferimenti, come se entrasse in una nuova dimensione. Il suo passato sembra fatto di resti sconnessi: “L’intero mondo conosciuto poggiava sui nostri ricordi. Noi eravamo i suoi unici garanti in quel contesto liscio e uniforme, di colore azzurro”. Questa esperienza lo porta a mettere in dubbio la sua vita precedente. Inizia così la sua relazione con i mangiatori di uomini. Non parla la loro lingua, anzi, trascorre i giorni in un continuo tentativo di decifrare ciò che dicono e, ovviamente, di trovare la risposta a una domanda ricorrente: quando lo mangeranno? O, perché non l’hanno già fatto?

La sua convivenza si protrarrà fino a quando riuscirà a raggiungere, dieci anni dopo, una nave europea che sta perlustrando la zona. Ma il romanzo è molto più della sua trama perché, oltre ad essere una storia di formazione, è un’accattivante disquisizione sulla nostra condizione esistenziale, sull’alterità, sulla lingua e sul potere delle parole, sulla memoria e la scrittura: “Quella povertà orale era per me la prova che non mentivano [gli indios], perché in generale la menzogna si forgia nella lingua e, per svilupparsi, ha bisogno di abbondanza di parole”. La narrazione si basa su un testo storiografico non esplicitato nel racconto che funziona da ipotesto; nella finzione però i fatti non sono gli elementi centrali dell’interesse dell’autore.

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La fonte storica di Il testimone, anche se Saer non la nomina, riguarda in parte la vita di Francisco del Puerto, uno dei membri dell’equipaggio della spedizione di Juan Diaz de Solís attraverso il Río de la Plata (da lui chiamato Mare dolce e poi conosciuto come Il fiume di Solís). Nel 1516 l’ammiraglio si era addentrato in quelle acque e le aveva risalite fino alla confluenza dell’Uruguay con il Paraná. A un certo punto del viaggio, sulla costa orientale, Solís vede un gruppo di indios e, insieme ad altri componenti della ciurma, tra cui il mozzo Francisco del Puerto, cala con una scialuppa per andargli incontro. Ma, subito dopo aver messo piede a terra, Solís e i marinai scesi con lui vengono attaccati, uccisi, squartati e mangiati davanti agli occhi terrorizzati del resto della flotta, rimasta sulla nave ammiraglia.

Solo a uno risparmiano la vita, al quindicenne Francisco del Puerto, il testimone nel libro di Saer, l’unico sopravvissuto, che in seguito trascorrerà dieci anni con gli indios. Tre o quattro anni dopo la morte di Solís, mentre la spedizione di Magellano attraversava le foci del Río de la Plata, il suo cronista di bordo, Antonio Pigafetta, racconta: Altre volte in questo fiume fu mangiato da questi Canibali, per troppo fidarse, uno capitano spagnolo, che se chiamava Iohan de Solís e sessanta uomini, che andavano a discoprire terra come noi. Questa categorizzazione degli abitanti della zona aveva indotto sicuramente i conquistatori a prendere grandi precauzioni nei futuri rapporti con le popolazioni locali. Nel 1526 Francisco del Puerto riesce a imbarcarsi sulla nave di Sebastiano Caboto che naviga quelle acque e che si accinge a risalire prima il fiume Paraná e poi il Paraguay, dopodiché si perdono le notizie su Francisco del Puerto e non sappiamo se muore nelle Indie o se riesce a raggiungere la Spagna. Un’altra fonte che ha sicuramente ispirato Saer, oltre alla storia di Francisco del Puerto, è quella di Hans Staden, un marinaio tedesco che aveva effettuato diverse incursioni nelle Indie e che, in uno dei viaggi, era stato catturato dagli indios tupi, che abitavano nel sud del Brasile.

Dopo l’uccisione dei suoi compagni, trascorre un periodo con gli indios in cui cerca di barcamenarsi per non finire anche lui sopra una graticola. In seguito, dopo il suo ritorno, scrive una testimonianza della sua prigionia (Warhaftige Historia und beschreibung eyner Landtschafft der Wilden Nacketen, Grimmigen Menschfresser-Leuthen in der Newenwelt America gelegen – Vera storia e descrizione di uno Stato di persone selvagge, nude, sinistre, cannibali nel Nuovo Mondo, America, pubblicata nel 1557).

Con una prosa impeccabile, che ci cattura fin dalle prime righe, Saer ci pone di fronte a diverse questioni che prova a decifrare e che riguardano un mondo completamente estraneo. È un testo senza capitoli che si legge come un libro di avventura. A differenza delle cronache delle Indie del XVI secolo, che servivano a informare e a descrivere la nuova realtà, Il testimone di Saer è un’indagine filosofica sulla condizione dell’uomo sradicato. Dunque, non si tratta di una parafrasi degli antichi cronisti o un ritorno agli storici delle Indie. È un testo attualissimo, dal punto di vista formale e stilistico. Inoltre, c’è un aspetto metaletterario che riflette sulla propria genesi testuale. Non è un caso che il protagonista, il testimone, dopo il suo ritorno in Spagna, scriva un’opera teatrale sulla sua stessa vita presso gli indios, trasformandosi in attore e regista di sé stesso.

La critica argentina Beatriz Sarlo, che ha dedicato diversi saggi all’opera di Juan José Saer, sostiene che l’autore argentino – uno dei migliori scrittori in qualsiasi lingua, lo ha definito Ricardo Piglia – ha scritto tre romanzi la cui ambientazione è il passato (Il testimone, L’occasione e Le nuvole), ma nessuno dei tre risponde a quello che oggi chiamiamo comunemente “romanzo storico”: Il testimone, sostiene Beatriz Sarlo, è una favola filosofica, L’occasione, un romanzo sull’incertezza della genitorialità e Le nuvole, una storia esilarante sul trasferimento di un gruppo di pazzi, attraverso la pianura, da Santa Fe a Buenos Aires. Inoltre, Beatriz Sarlo, aveva individuato in Saer, in un libro dal titolo Zona Saer, pubblicato dall’editore cileno Diego Portales, lo scrittore più rilevante della letteratura argentina dopo Borges perché, lungi dallo scrivere come Borges, Saer rompe con una certa tradizione e dimostra che esiste una letteratura argentina, dopo Borges e libera dal borgesismo.

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