«Cose dell’altro mondo» / Kafka nell’Italia del 1933
La prima traduzione italiana del Processo di Kafka è uscita nella collana «Biblioteca europea» della casa editrice Frassinelli nel 1933 ed è rimasta l’unica per circa quarant’anni. È la traduzione che in Italia hanno letto quasi tutti, da Landolfi a Buzzati, da Vittorini a Fortini, da Calvino a Pasolini, da Elio Petri a Federico Fellini. Fa parte a pieno titolo del nostro repertorio letterario, come le versioni pavesiane di Moby Dick e Dedalus, uscite nella stessa collana, o quella di Berlin Alexanderplatz, firmata due anni prima dallo stesso Alberto Spaini. Nel presentarla, il direttore della «Biblioteca europea» Franco Antonicelli la vantava come una «novità assoluta», e non aveva torto: l’edizione francese del Processo, che di fatto avrebbe dato avvio alla fortuna internazionale di Kafka, sarebbe apparsa solo alcune settimane più tardi. L’unico suo romanzo tradotto in una lingua straniera era The Castle (1930), pubblicato a Londra da Willa e Edwin Muir, mentre la Metamorfosi restava confinata al circuito, prestigioso ma ristretto, delle riviste letterarie, come la «Revista de Occidente» di Ortega y Gasset (1925) e la «Nouvelle Revue Française» di Jean Paulhan (1928).
Oggi può sorprendere che a dieci anni dalla morte di Kafka, autore che consideriamo un classico indiscusso, si fosse tradotta appena una manciata di testi. In realtà sarebbe stupefacente il contrario. Pubblicare uno scrittore così inconsueto, e in quel momento noto solo a pochi letterati, non era certo un affare, in Italia come altrove. Le case editrici più grandi, come Treves o Mondadori, se ne guardavano bene; quelle più piccole e disposte a rischiare potevano avere interesse a tradurlo solo a condizione che rientrasse nel loro progetto di catalogo: ma Slavia, Modernissima e Bompiani, per non citare che le principali, guardavano in altre direzioni, al racconto psicologico, alla «letteratura dell’asfalto», al «romanzo collettivo». Per decidere di tradurre un autore scarsamente vendibile come Kafka, insomma, bisognava non solo compiere un atto di fede nel suo valore letterario, ma anche condividere, almeno in una certa misura, la sua poetica (o credere di farlo). Ogni traduzione che non risponda a semplici esigenze di mercato è una scommessa, una storia di ordinaria avventura, che è interessante ricostruire.
Uno che risuscita
Nel caso del Processo tutto comincia nel gennaio del 1933, quando sulla rivista «Pègaso» di Ugo Ojetti, già direttore dell’istituzionalissimo «Corriere della Sera», esce un articolo di Enrico Rocca dal titolo Uno che risuscita: Franz Kafka. Kafka, come si accennava, era già noto agli addetti ai lavori: l’apparizione del Processo in Germania era stata segnalata nel 1927 da Lavinia Mazzucchetti sul mensile letterario della Treves «I libri del giorno» in un breve articolo intitolato Franz Kafka e il novecentismo («Mutato senso della realtà, sgomento di fronte alla realtà, misticismo senza isterismo, bontà senza tenerezza feminea, smarrimento nella morte senza negazione del trascendente: ecco un novecentismo sorto nel profondo di un’anima d’artista che ci fa rispettosi e pensosi») e l’anno successivo la rivista «Il Convegno» aveva pubblicato, forse su sollecitazione del futuro fondatore della casa editrice Adelphi Bobi Bazlen, quattro brevi racconti, nella traduzione del triestino Giuseppe Menassé e con una breve prefazione di Silvio Benco («Il più originale scrittore [tedesco] del secolo ventesimo», un «maestro dell’attenzione angosciosa»). Ma questi interventi non avevano suscitato l’attenzione delle altre riviste letterarie, né di alcun editore. Con l’articolo di Rocca, invece, si innesca una discussione che nel giro di pochi mesi coinvolge i principali circoli letterari, da Torino a Firenze e Roma.
Rocca, per parte sua, si era accostato a Kafka per motivi, possiamo dire, professionali. Goriziano, di famiglia ebraica – e cugino di Carlo Michelstaedter – dopo la guerra si era stabilito a Roma, dove dal ’26 era caporedattore culturale del «Lavoro fascista». Qui recensiva le principali novità letterarie tedesche, spesso in cronache inviate direttamente da Berlino o da Vienna. Aveva dunque tutto l’interesse a leggere sia gli autori del momento, come Thomas Mann, Joseph Roth o Stefan Zweig, con i quali spesso intratteneva una corrispondenza personale o anche più stretti rapporti di amicizia, sia quelli ancora poco accreditati, come Kafka. Occasionalmente faceva anche qualche traduzione, e non di poca importanza: Il Golem di Meyrink, Amok di Stefan Zweig, Caterina va alla guerra di Adrienne Thomas. Giunto alla soglia dei cinquant’anni aveva cominciato a rielaborare il vasto materiale raccolto per farne un volume, rimasto incompiuto e uscito postumo col titolo Storia della letteratura tedesca dal 1871 al 1933, in cui intendeva dare a Kafka un posto di rilievo, inserendolo nel capitolo «L’evasione dalla realtà». Nei primi anni ’20 Rocca aveva aderito al movimento fascista e al futurismo, distaccandosene poi a poco a poco a prezzo di un lungo travaglio spirituale, le cui tracce si possono ritrovare anche nell’articolo del ’33, già a partire dal titolo. Uno che risuscita è infatti da intendersi in senso transitivo: Kafka è, secondo Rocca, uno scrittore che ci risuscita, che ridesta lo spirito dal torpore in cui l’esistenza di ogni giorno lo affonda.
Le sue opere, in cui il mostruoso «passeggia così concreto tra le cose quotidiane», scrive alludendo alla Metamorfosi, danno voce «allo sgomento che ci assale se, astraendoci da quelle stesse diuturne faccende, consideriamo d’improvviso la nostra miseria inceppante a contrasto con l’insopprimibile impulso dello spirito alla libertà». Sulla scorta di Max Brod, Rocca è il primo a introdurre in Italia il mito di Kafka, narrandone la vita nel codice dell’agiografia, e facendone, come già Papini con Nietzsche, una sorta di martire moderno, un santo, potremmo dire con Musil, senza qualità.
Fragile giunco umano, dolce figura di principe trasognato, solo gli intimi potevan sapere, durante il suo breve soggiorno in terra, quanto la vita di Kafka somigliasse alla lotta di Giacobbe con l’Angelo per la conquista angelica o demoniaca delle ultime verità. Strapparle a Dio, cercarne il riflesso nella contraddittoria e quasi indecifrabile complicazione delle cose, realizzarle in sé con un’intelligenza sdegnosa di ogni compromesso e pari soltanto alla mitezza verso i propri simili sembrava essere l’unico cómpito pratico di questo pellegrino desideroso d’inquadrarsi nella vita di tutti, ma non prima d’essersi persuaso delle ragioni del vivere. Avviato verso il giure e sentendo parassitarie tutte le professioni, egli cerca e non trova il mestiere adatto alla sua debole fibra; assetato d’amore, rinuncia ad esser felice per non costringer altri e non sottrarre sé all’ineluttabilità dei propri imperativi.
Pagine come questa danno avvio a quella nutrita schiera di interpretazioni in chiave biografica e religiosa che domineranno la ricezione di Kafka per decenni. Ma qui importa soprattutto osservare come per Rocca le radici della ricerca spirituale di Kafka stiano nel suo non sapersi «inquadrare nella vita di tutti» perché non è «persuaso» delle sue ragioni, perché «non trova il mestiere adatto», perché la sua intelligenza è «sdegnosa di ogni compromesso» e i suoi imperativi sono «ineluttabili». È questa radicalità a fare di Kafka un «veggente temerario» che parte dall’astrazione del sogno per «dare corpo a una sua spirituale realtà»: un «grande poeta religioso» e uno «strenuo campione dello spirito» che può essere di conforto e di esempio in tempi difficili. Si comprende come, negli anni turbolenti a cavallo fra l’ascesa del fascismo, il crollo delle borse del ’29 e l’ascesa di Hitler, un’interpretazione come questa dovesse incontrare l’interesse dei lettori più sensibili.
Ma allora siete matti, direte voi
Possiamo essere certi che tra questi ci fosse anche Antonicelli, perché sullo stesso fascicolo di «Pègaso» su cui esce l’articolo di Rocca era apparsa anche una recensione all’ultimo volume della «Biblioteca europea»: il Moby Dick di Melville. A firmarla è il venticinquenne Elio Vittorini: «Moby Dick è un capolavoro», scrive, «che tutti devono sentirsi in obbligo di conoscere. E la traduzione di Cesare Pavese non poteva essere migliore». Un prezioso riconoscimento per la collana, avviata appena l’anno prima.
All’editoria Antonicelli era arrivato un po’ per caso, in un momento in cui non sapeva che indirizzo dare alla sua attività e alla sua vita. Giovane intellettuale dalle maniere aristocratiche, troppo bohémien per conformarsi a una regolare esistenza borghese e troppo snob per darsi alla militanza letteraria o politica, si era laureato in lettere nel 1924 con una tesi sul «poeta ribaldo» François Villon, rimanendo poi indeciso tra la carriera di insegnante e quella diplomatica, per cui si era iscritto anche a giurisprudenza. Frequentando il gruppo del «Baretti» nei caffè di Torino, aveva conosciuto Massimo Mila, Norberto Bobbio, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, tutti di sei o sette anni più giovani: «Mi è piaciuta molto la tua intelligente cultura», scrive a Ginzburg subito dopo, «e assai più la tua affezione al meditare e quella ricerca di una vita morale, che è rara e sorprendente in un giovane». Pur tenendosi a distanza dall’attivismo gobettiano, nel 1929 aveva firmato una lettera di solidarietà a Benedetto Croce, attaccato in parlamento da Mussolini per essersi opposto al concordato fra Stato e Chiesa. Per Antonicelli, come per molti giovani intellettuali non apertamente ostili al fascismo, fu un momento di rottura: i Patti lateranensi davano infatti un taglio netto alla tradizione di laicità del liberalismo ottocentesco e assicuravano al regime, con l’appoggio del papato, il definitivo consenso delle masse. La firma della lettera gli era costata un mese di carcere, e, ormai bollato come antifascista, anche ogni prospettiva di carriera nelle istituzioni pubbliche. Così, quando l’amico Carlo Frassinelli, «tipografo d’eccezione» con trascorsi futuristi, gli aveva chiesto di assumere la direzione della sua nuova casa editrice, l’incertezza sul che fare si era risolta, e Antonicelli, alla soglia dei trent’anni, era diventato editore.
Con gli amici Ginzburg e Pavese, rispettivamente di ventidue e ventitré anni, aveva messo insieme una redazione che poco dopo avrebbe costituito il primo nucleo della casa editrice Einaudi. Una foto, che si può vedere in copertina a La cultura a Torino tra le due guerre di Angelo D’Orsi, li ritrae insieme con l’editore. Nel giro di un anno avevano pubblicato quattro volumi, tutti a basso costo, perché il capitale era minimo: Pavese aveva tradotto personalmente Riso nero di Sherwood Anderson e Moby Dick, Ginzburg aveva contattato l’amico Renato Poggioli per farsi mandare la traduzione dell’Armata a cavallo di Isaak Babel’, che nessun editore voleva stampargli, mentre la traduzione di La luna dei Caraibi e altri drammi marini di Eugene O’Neill era stata affidata alla giovane vedova di Gobetti, Ada Prospero. In un articolo pubblicato il 13 maggio 1933 sul «Lavoro fascista» Antonicelli stesso cerca di spiegare l’orientamento letterario della collana e di tracciarne un primo bilancio. Un punto qualificante è proprio l’adesione a un modello di editoria di cultura, elaborato da Croce e dai vociani e incarnato da Gobetti, che mira piuttosto al successo di prestigio che a quello di mercato. È una professione di fede nella letteratura:
Quanto alla scelta degli autori, non ho che un criterio dominante: scelgo libri di poesia. Criterio duro, ma incrollabile. Ho rifiutato manoscritti che ho visto poi stampati presso altre case e hanno avuto successo, ma nella Biblioteca [europea] non potevano entrare con tutti gli onori. Le novità, il milione di copie fuori d’Italia, il gusto o pseudo-gusto corrente non mi interessano.
Certo, la scarsità di risorse è un serio limite, perché un piccolo editore può, per forza di cose, permettersi di fare solo quei libri che i grandi editori scelgono di non fare: «Per ragioni di denaro – oh, potenza dell’oro! – mi son visto portar via, p. es., Mrs Dalloway della Woolf», lamenta Antonicelli. Ma, entro questi limiti, il suo criterio fondamentale resta quello di fare opere «degne di rappresentare indirizzi letterari nobilmente importanti e di assicurarsi in Italia una vita non effimera».
Volete ancora un esempio? Potevo offrire una mirabile traduzione dell’Ulysses di Joyce: forse lo farò più tardi, ma ora, per essere fedele a me stesso, ho pubblicato il Dedalus, che, se per certi riguardi è come un vestibolo dell’Ulysses, è di per sé opera assai più equilibrata e sostenuta e opera d’arte che meno deve al programmatico e all’artificioso.
Antonicelli sa di rivolgersi agli happy few, e con il primo consuntivo si rende conto di quanto siano pochi: «I risultati dell’impresa? Non abbiamo mai stampato più di 1.500-2.000 copie per volume, [e] non abbiamo venduto più di 500 copie per ciascuno. [...] Dunque insuccesso: ma allora siete matti, direte voi. San Francesco di puri di cuore come Fra Ginepro ne avrebbe voluti una selva: e io una selva di questi matti». Come tutti i piccoli editori di cultura, più che seguire il gusto dei lettori si adopera per formarlo: «Guardo in faccia il pubblico: che cosa vuole, che cosa chiede, che cosa legge? Ho rinunciato a capirlo [...]. Ma visto che ho 500 lettori lavorerò per i 500 lettori. E gli altri, vengano. Maometto non va alla montagna. [...] E che siamo uomini di fede per niente? Vadano le montagne a Maometto». Evocare San Francesco e Maometto è un modo per esprimere la credenza nel valore letterario, la fede in un avvenire in cui ciò che ora leggono in pochi verrà riconosciuto da molti. L’edizione Frassinelli del Processo arriverà alla quindicesima ristampa nel 1969.
Ma per quale motivo Antonicelli, che non ha letto nulla di Kafka salvo i brevi racconti apparsi sul «Convegno», si persuade che sia un autore adatto al programma della «Biblioteca europea»? Che cosa ci trova? Possiamo desumerlo dal pieghevole James Joyce e Franz Kafka, che egli stesso prepara nell’estate del ’33 per pubblicizzare l’uscita di Dedalus e del Processo. Molte delle frasi da lui usate – tutte quelle tra virgolette, eccetto l’ultima – sono tratte alla lettera dall’articolo di Rocca:
Scrittore ebreo Franz Kafka, ma «solo nel senso più universale, nell’ansia che l’accomuna a questo popolo di cercatori di Dio». «Egli è uno dei pochi per cui le vere cose pratiche sono le cose supreme». Così giustamente rivendica il Rocca l’ampiezza e la nobiltà di quell’arte, e anche per questo abbiamo voluto nella nostra «Biblioteca» e per il nostro miglior pubblico un saggio dell’opera di Kafka, che, si vuole sperare, non rimarrà solitario. Giacché noi dobbiamo qualcosa all’uomo che ci ha affidato queste parole così fortificanti: «Il fatto che esista solo un mondo dello spirito ci toglie la speranza e ci lascia la certezza».
Anche per Antonicelli, dunque, è la tensione morale che caratterizzerebbe l’opera di Kafka a costituire il principale motivo di interesse. La sua arte, inoltre, è «ampia», ovvero non limitata alle problematiche spicciole e alle forme stereotipe dei romanzi allora in voga, e soprattutto «nobile», una parola ricorrente in Antonicelli, che tradisce il tratto elitista della sua visione della cultura.
Senza indugi, il 10 gennaio 1933 Antonicelli scrive a Praga, a Max Brod, chiedendogli una copia del romanzo e informazioni sui diritti per la traduzione. Brod gli risponde il 16 gennaio: del romanzo ha solo una copia, che non può dare in prestito, ma segnala una libreria praghese che potrebbe procurarglielo; quanto ai diritti, scrive, «mi voglia comunicare quale cifra può pagare», e assicura che discuterà la proposta con gli eredi di Kafka. Poi aggiunge: «La postfazione che figura nel volume, che è mia, sarebbe forse utile per chiarificare subito anche al pubblico italiano la posizione di Kafka nella letteratura tedesca. Se vuole tradurre e pubblicare questa postfazione, da parte mia non chiedo nessun onorario». Segnala infine la recente uscita del volume Beim Bau der chinesischen Mauer (La costruzione della muraglia cinese), e suggerisce che «sarebbe opportuno ponderare se Kafka non debba essere introdotto in Italia anche con un volume di questi piccoli schizzi, che formano una pagina a sé del suo talento». Antonicelli lascia cadere la prima proposta – affiderà la prefazione italiana a Spaini – ma accoglierà la seconda, e il volume indicato andrà a formare, insieme alla Metamorfosi e a gran parte dei racconti già pubblicati in vita da Kafka, la raccolta Il messaggio dell’imperatore.
Rimproveri della coscienza
Ora bisogna trovare un traduttore per il Processo. È molto probabilmente Enrico Rocca a suggerire ad Antonicelli il nome dell’amico Alberto Spaini. Grossomodo suo coetaneo, triestino ma anche lui trapiantato a Roma, dove lavora nella sede locale del «Resto del Carlino», anche Spaini vive di giornalismo, e si è accreditato come esperto di letteratura tedesca contemporanea da quando, alla vigilia della guerra, ha cominciato a scriverne sulla «Voce». Le sue rassegne e recensioni erano apparse sulle principali riviste letterarie degli anni ’20, dallo «Spettatore italiano» di Bottai alla «Fiera letteraria» di Fracchia, e Treves stava per pubblicare un suo ampio studio sul Teatro tedesco. Ma, ciò che più conta, Spaini aveva legato il suo nome ad alcune traduzioni pionieristiche, spesso realizzate insieme alla moglie Rosina Pisaneschi, che avevano fatto epoca: il monumentale romanzo di formazione di Goethe Le esperienze di Wilhelm Meister (1913), le prime raccolte di racconti di Frank Wedekind (1920) e di Thomas Mann (1926), le Opere complete di Georg Büchner (1928) e recentemente l’Opera da tre soldi di Brecht (1930, a quattro mani con Corrado Alvaro) e Berlin Alexanderplatz di Döblin (1931). Spaini ha, inoltre, una sua personale e moderna idea della letteratura, formatasi nelle discussioni fiorentine con Prezzolini e Slataper, irrobustita all’università di Roma alle lezioni di Borgese, con cui si era laureato presentando una tesi su Hölderlin, e ulteriormente raffinata negli anni ’20 attraverso l’assidua frequentazione delle avanguardie romane: la «Ronda» di Cecchi, «900» di Bontempelli, il Teatro degli Indipendenti di Bragaglia. Lui stesso è scrittore, e, come molti scrittori-giornalisti di quegli anni, coltiva forme prossime alla prosa d’arte, per esempio nelle novelle sospese tra il reale e il fantastico di Malintesi (1930) o nell’esile romanzo La moglie del vescovo (1931), ambientato in Svizzera durante la guerra.
Qui, in un’atmosfera rarefatta che ricorda alla lontana La montagna incantata di Mann, lascia trasparire il proprio travaglio personale rappresentando, attraverso la vicenda di un individuo abulico e inetto alla vita, «figlio e vittima di una generazione decadente», quella che ritiene la condizione spirituale dell’individuo moderno:
Io sono stato educato, e per natura sono portato, nello scetticismo, nell’ironia, nell’accettazione rassegnata della più appariscente materialità; ma, poiché la derido, in breve il mio spirito, unico e sparuto avanzo d’una radicale distruzione morale del mondo, spazia solo, sterile, diabolicamente devastato, in un cielo bituminoso, sopra un universo di sabbia e acque morte, da cui a quando a quando spuntano i ruderi che ho lasciato sul mio passaggio. [Ma] la ironia e lo scetticismo sono per me solo un modo di difendere dai rimproveri della coscienza la mia intima incapacità di ben fare; e la mia neutralità nel mondo, dagli attacchi dei possibili critici. Il giorno in cui fossi, mio malgrado, indotto ad ammettere la possibilità di un’utile azione umana in favore del Bene, non potrei più esimermi dal parteciparvi o dal promuoverla. E là si vedrebbe tutta la mia miseria.
Questo conflitto tra mortale scetticismo e vitale tensione a superarlo, che nel romanzo si traduce nella maldestra oscillazione fra abissalità dostoevskiana ed evasioni fantastiche alla Hoffmann, è uno dei motivi ricorrenti negli scritti di Spaini in questi anni e, come vedremo, è determinante sia per la nascita del suo interesse per Kafka sia per il suo modo di leggerlo.
In febbraio Antonicelli spedisce a Spaini l’edizione tedesca del Processo, che nel frattempo si è procurato, offrendogli un compenso di 1.500 lire, grossomodo l’equivalente, oggi di 1.700 euro (per Moby Dick Pavese, più giovane e meno accreditato, ne aveva prese 1.000). Gli chiede però per prima cosa di scrivere un parere di lettura per Carlo Frassinelli, che evidentemente è un po’ scettico: e ha ragione, perché almeno nei primi anni Kafka venderà ancor meno degli altri autori della collana, tanto che nel ’35 l’editore si opporrà strenuamente alla stampa del secondo, per lui catastrofico volume, Il messaggio dell’imperatore. Il parere, che nell’evidente intento di rendere il romanzo più appetibile lo fa quasi sembrare un giallo, arriva il 23 marzo:
Il Processo di Franz Kafka è costruito su un presupposto filosofico e religioso (l’autocoscienza della colpa ed il bisogno dell’espiazione) il quale però rimane nascosto sotto l’intreccio che è pieno di mistero e d’angoscia. L’«accusa» che è stata lanciata contro il protagonista ossessiona questi ed il lettore fino all’ultima pagina ed alla catastrofe; solo alla vigilia dell’istante supremo si fa la luce e si scioglie l’enigma. La vita quotidiana continua a svolgersi nel modo più piatto e banale, al di sopra di avvenimenti tragici e paurosi; sicché i fatti più comuni assumono d’un tratto aspetto di incubo. E quest’incubo perdura anche al di là del romanzo; nel lettore grava il senso di essere sotto la minaccia della medesima accusa che ha portato il signor K. alla pena capitale. Un’ottima fascetta potrebbe dire all’incirca così: «Lettore, anche contro di te può essere pronunciata una condanna a morte, e tu non lo sai». L’alto valore simbolico e poetico del libro si unisce ad un intreccio avventuroso e ricco di sorprese.
Il lavoro di traduzione, intanto, ha inizio. Il 26 aprile Spaini scrive:
Caro Antonicelli, il ms. di Kafka è di 200 fitte pagine scritte a macchina. Se vuole posso mandarle subito 2/3 del lavoro: da foglio 64 alla fine. Il resto sarà pronto per il 5-6 di maggio. Mi dispiace di non avere finito per la data promessa, ma ho dovuto assentarmi frequentemente da Roma; e lo stile estremamente semplice e piano di K. ha presentato alla traduzione più difficoltà di quante credessi.
Che le pagine già pronte corrispondano alla seconda parte del libro lascia supporre che, come in altri casi, Spaini si sia avvalso dell’aiuto della moglie, Rosina Pisaneschi. All’inizio di maggio la traduzione è completa, e viene spedita a Torino. Antonicelli, finalmente, legge il romanzo: è l’inizio di un confronto che lo porterà a diventare un buon conoscitore dell’opera di Kafka. Ora, avvalendosi dei dati bio-bibliografici forniti dal ventitreenne Heinz Politzer, che sta curando insieme a Max Brod la prima edizione delle opere complete di Kafka, si limita a confezionare la breve Nota informativa da inserire nel volume e il già citato pieghevole pubblicitario James Joyce e Franz Kafka. Qui, sotto il marchio dell’editore, campeggia la frase: «Ogni libro recante questa marca ricrea lo spirito e adorna la casa». Se quest’ultima è una preoccupazione tutta del «tipografo d’eccezione» Frassinelli – i cui libri sono, va detto, oggetti bellissimi – «ricreare lo spirito» esprime bene il programma di Antonicelli, a cui si attiene anche Spaini nel redigere la prefazione al Processo, tra maggio e luglio.
Cose dell’altro mondo
A differenza di Rocca, e a dispetto della sua capillare conoscenza della letteratura tedesca contemporanea, Spaini non doveva avere grande familiarità con Kafka: non solo non gli aveva mai dedicato una riga, ma con tutta probabilità non aveva letto Il processo prima che gli venisse inviato da Antonicelli, e le sole altre opere che cita nella sua prefazione sono La metamorfosi e Il castello. D’altra parte non gli mancherebbe certo la capacità di inquadrare Kafka nel panorama letterario germanico del tempo, né l’esperienza per scendere nelle questioni più tecniche, come aveva dimostrato ancora recentemente nella prefazione a Berlin Alexanderplatz. Insomma, fresco del corpo a corpo traduttivo col Processo avrebbe tutte le carte in regola per scrivere un saggio che, tenendo conto delle interpretazioni tedesche di Kafka, lo legga a partire da una prospettiva italiana. Ed è probabile che si preparasse a fare proprio questo. Ma nell’aprile del 1933 la «Nouvelle Revue Française» pubblica À propos de Kafka di Bernhard Groethuysen. Di saggi su Kafka, come si è visto, non ne erano apparsi molti fuori dalla Germania. E la NRF è la NRF, e un lettore italiano bene informato, quale è Spaini, non può ignorarla. Groethuysen è un allievo di Wilhelm Dilthey e un cultore dell’antropologia filosofica, una disciplina che studia le espressioni con cui l’uomo cerca di significare la propria vita, rintracciandole fenomenologicamente in lettere, diari, frammenti di conversazione, massime sapienziali, autobiografie e anche in opere letterarie. Pur soggiornando per lo più a Parigi, dove frequenta André Gide, Jean Paulhan e il gruppo della NRF, ha cattedra a Berlino, dove Max Brod sta pubblicando e diffondendo le opere postume di Kafka. Ma proprio nel 1933, per protesta contro il nazionalsocialismo, decide di stabilirsi definitivamente in Francia: una delle prime cose che fa, nelle tensioni di questi mesi, è scrivere il suo saggio su Kafka, che avrà un’enorme influenza, perché di lì a qualche mese verrà ripubblicato come prefazione all’edizione francese del Processo, nella prestigiosa «Collection Blanche» Gallimard.
À propos de Kafka, che Spaini prende molto sul serio e che nella sua introduzione cita come «l’ultima parola su Kafka», è un testo stranissimo, che di Kafka non parla quasi per nulla: più che un saggio critico, infatti, è una sorta di riscrittura trascendentale dell’opera kafkiana, in cui il contenuto del Processo, ma anche di testi come Il messaggio dell’imperatore o La tana (la cui traduzione francese segue immediatamente sullo stesso numero della NRF), viene trasposto nella dimensione della coscienza, attraverso una prosa suggestiva, tutta paratassi e frasi interrogative.
To be or not to be. Il difficile è essere. Quando non si è ancora nati, tutto è semplice, così come quando si è morti. Nessuno allora ti chiede: cosa ci fai qui? Ma vivere è fare, è commettere qualcosa, è compromettersi. Naturalmente, se qualcuno te lo chiede, puoi sempre rispondere: io non ho fatto niente. Ma è per discolparti che lo dici. Perché inevitabilmente hai fatto qualcosa. Bisogna dunque che tu dica cosa. Sei responsabile di ciò che hai fatto. Bisogna che tu mi risponda. Non ci si sottrae al proprio interrogatorio.
E così via, per pagine e pagine. Con questo singolare esercizio di antropologia filosofica – e a colpi di frasi come: «Sei nato. Esisti. Ed esistere è essere giudicati» – Kafka viene reinterpretato alla luce del nascente pensiero esistenzialista francese e presentato come uno che «non è ancora nato», non si è ancora compromesso con l’esistenza, e per questo può farsi testimone di un mondo «altro» e al contempo rappresentare la realtà del nostro con la «strana chiaroveggenza» di chi non vi appartiene.
Quando, dunque, Spaini inizia a scrivere la sua prefazione, il fascino dell’interpretazione trascendentale ed esistenzialista di Groethuysen si innesta sulla persuasione, mutuata da Rocca e Antonicelli, che Kafka sia da leggere, e ammirare, in quanto «strenuo campione dello spirito». Il risultato è un testo complesso, a tratti oscuro e contraddittorio, ma ingegnoso, il cui punto di partenza è che l’oggetto della rappresentazione, nel Processo, è la vita morale di ciascuno di noi. Scrive Spaini:
Kafka ci piace per la sua maniera ultrarealistica di raccontare cose che un buon borghese chiamerebbe, levandoci le parole di bocca: «Cose dell’altro mondo». Cose dell’altro mondo che avvengono in questo, con tutti gli schemi, le cause e gli effetti di questo mondo.
L’«altro mondo» è, appunto, la vita morale. E dunque il realismo di Kafka non riguarderebbe le cose del mondo, bensì quelle dello spirito: sarebbe una sorta di realismo trascendentale. Pur escludendo ogni lettura allegorica, che pretenda di interpretare l’opera di Kafka «passo per passo e parola per parola», Spaini imposta infatti tutta la sua riflessione sull’«eco simbolica» che sarebbe connessa alla lettera del testo: la parola di Kafka, scrive, «evoca ed incanta nel centro della nostra vita avvenimenti, dei quali un istinto od una illuminazione ci dicono che possono solo essere l’eco di mondi superiori». O, in altre parole, interiori. Alla genesi del mondo morale Spaini dedica infatti subito dopo un lungo, significativo passaggio:
Nella memoria di tutti noi v’è un incubo infantile il quale fa quasi supporre che anche le idee di responsabilità e giustizia siano in noi innate. Qual è quel bambino di sette anni che non si è destato una notte urlando di spavento, perché aveva veduto la cosa più orribile che mai finora aveva incontrato od era riuscito a concepire, e che ora, consolato e cullato, non riesce più a spiegare? Frequentemente poi questo incubo ritorna, finché un giorno si riesce a comprenderlo: il piccolo sognatore aveva fatto una promessa, una promessa smisurata, che oltrepassava tutte le sue forze e che mai e poi mai avrebbe potuto mantenere; ma egli aveva dato la sua parola e non v’era nessun modo di ritornare indietro. Non si sa che catastrofe seguiva a questa mancanza di parola, ma era una catastrofe inevitabile, e l’avevamo provocata noi, con atto spontaneo della nostra volontà. Avremmo potuto non compierlo questo atto, questa promessa; ma ora avevamo creato dal nulla un mondo (che era poi il mondo del nostro dovere morale) e ne eravamo prigionieri.
Insomma: tutto ciò che è rappresentato nel Processo avverrebbe non nella realtà ma, come suggerisce Groethuysen, nella coscienza, in una sorta di romanzo trascendentale. Due sono le principali conseguenze che Spaini trae da questa singolare impostazione. La prima: che il protagonista del romanzo «non combatte contro il destino, combatte contro se stesso». La seconda: che l’oggetto principale della rappresentazione non è la sorte di Josef K. «ma il contegno morale che egli assume di fronte a questa sorte».
Ora, secondo Spaini, il contegno di Josef K. non è affatto adeguato a ciò che gli accade:
La vita dell’uomo si deve svolgere esclusivamente in quel mondo sul quale l’uomo ha potere: il proprio spirito. Qualunque colpo ci venga dall’esterno (l’arresto di K.) ci deve trovare inattaccabili dentro la nostra spiritualità. «Il fatto che esista solo un mondo dello spirito, ci toglie la speranza e ci lascia la certezza»: sono parole di Kafka, nelle quali si mescola l’estrema rinuncia all’estrema vittoria.
Invece Josef K., che evidentemente non confida abbastanza nel proprio spirito, recalcitra, contesta l’accusa, e così facendo riconosce l’esistenza di un mondo esteriore (sebbene, come abbiamo visto, nella prospettiva trascendentale adottata da Spaini egli stesso ne sia il creatore), anzi, finisce per soggiacere alle sue leggi: «Non ha saputo rinunciare fino in fondo alla speranza, e non ha conseguito la certezza», sentenzia il traduttore, rovesciando la frase di Kafka.
Una disperata flemma
Così Joseph K. è giudicato. Ma Kafka? Perché Kafka, osserva Spaini, non è Josef K. Questa distinzione tra autore e personaggio, che prima dello strutturalismo non era affatto scontata (e che molta critica kafkiana continua a ignorare), gli consente di fare un passo decisivo nell’interpretazione: a differenza del protagonista del suo romanzo, Kafka, nello spirito, ci crede. Proprio la frase «Il fatto che esista solo un mondo dello spirito, ci toglie la speranza e ci lascia la certezza», citata da Rocca, ripresa da Antonicelli e più avanti da molti altri – segno che doveva far molto effetto – ne costituirebbe la prova.
Questa frase, sia detto per inciso, non sta nel Processo: è uno dei cosiddetti Aforismi di Zürau, che Kafka aveva iniziato a scrivere nel 1917, dopo che gli era stata diagnosticata la tubercolosi, e aveva lasciato incompiuti. Trattandosi dell’unico testo in cui affronta la religione, benché nel senso moderno e aconfessionale del termine, Max Brod li aveva pubblicati nella Costruzione della muraglia cinese – un libro a cui, come si è visto, teneva molto – col titolo Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, e ne aveva fatto il perno della sua interpretazione dell’opera dell’amico: la professione di fede e di speranza che farebbe da contraltare all’apparente nichilismo delle sue disperate narrazioni.
Spaini non condivide certo il fervore teologico di Brod: come gran parte degli intellettuali cresciuti nell’atmosfera post-nietzscheana della «Voce», si concepisce come un uomo moderno, orfano di un credo positivo e alla costante e inquieta ricerca di criteri validi per orientarsi in un mondo in costante mutamento. Comprendere l’ubi consistam etico di Kafka, però, può essere il punto di partenza per spiegare ciò che, da professionista della letteratura, più gli interessa: lo stile dello scrittore. La fede in qualcosa di umano che trascende gli ordinamenti della società è, per Spaini, il fondamento di quello «slancio di vitalità» che dà forza «a quelle sue maniere così estremamente piane, lisce, ostinatamente flemmatiche». È vero che Kafka, nota Spaini, non rappresenta mai la vita dello spirito, bensì soltanto il mondo che lo incalza, e che per questo Il processo può essere definito, con Groethuysen, «il poema del non-io». Ma, se Josef K. si lascia sopraffare dal «non-io», lo scrittore lo tiene a distanza per forza di stile, adoperando la scrittura per «conoscere i limiti che separano la nostra personalità dal mondo» così da «vietare al mondo di varcarli». La sua, conclude Spaini, «è la disperata flemma dell’uomo che sa di esser perduto se perde solo un momento la calma».
Il Kafka che emerge da questa lettura è una sorta di stoico, che, di fronte al dilagare di una modernità alienante, impiega tutte le sue energie nel fortificare la cittadella del proprio spirito attraverso la scrittura. Questo stoicismo, che, possiamo dirlo, è più di Spaini che di Kafka, è caratteristico della cultura degli anni ’30: lo ritroviamo nei personaggi di Hemingway o di Malraux, uomini integerrimi e disperati che pur condividendo il pessimismo della ragione non si sottraggono all’ottimismo della volontà e vanno impavidi – a differenza di Joseph K. – incontro al loro destino; ma fa parte integrante anche di quella cultura del ritorno all’ordine propugnata, dopo la guerra, da riviste come la «Nouvelle Revue Française» o «La Ronda», che nella perfezione dello stile e nell’ossessivo controllo della forma individuavano un modo di dominare il caos della realtà.
Mitologia di Franz Kafka
Nell’estate del 1933 Il processo comincia a circolare, con la prefazione di Spaini, la Nota informativa di Antonicelli e una scintillante copertina modernista color rosso fuoco, disegnata dal pittore Gigi Chessa.
Tra i primi lettori c’è Carlo Bo, che in agosto scrive all’amico Leone Traverso: «Letto il Processo di Kafka. Sono rimasto come di fronte a Dostoevskij e a Proust. Senza dubbio una conquista – son di quei libri che ti calmano per dei mesi». L’interesse del caposcuola dell’ermetismo dà avvio a una serie di letture in chiave allegorica e religiosa, a cui contribuiscono, oltre allo stesso Bo, anche Oreste Macrì e don Giuseppe De Luca. A intervenire per primo è un altro amico di Bo, fresco di laurea in letteratura tedesca, il ventottenne Rodolfo Paoli, che a Kafka dedica più interventi sul «Frontespizio», rivista del cattolicesimo letterario nata sotto l’egida di Giovanni Papini – il Papini della Storia di Cristo, animoso avversario di Croce nel sostenere i Patti lateranensi – e a poco a poco egemonizzata dagli ermetici. Già nel settembre del ’33, recensendo Il processo, Paoli dà un primo inquadramento complessivo dell’opera dell’autore sotto il titolo Spavento dell’infinito; nel marzo del ’34 presenta una selezione delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via a conferma «che un tormento non solo estetico ma anzi spiccatamente religioso è alle radici della sua arte»; e qualche settimana dopo pubblica per Vallecchi, l’editore di «Frontespizio» e degli ermetici, la prima traduzione italiana della Metamorfosi. Nella prefazione a questa edizione – sulla cui copertina campeggia non uno scarafaggio ma un verme, che richiama il Salmo XX, 7 («Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente») – Paoli sostiene che i racconti e i romanzi «metafisici» di Kafka hanno l’originalità di «aver còlto, nella vita quotidiana, negli avvenimenti più comuni, nella materia più bruta le tracce di un’arcana profezia, lo svolgimento d’una continua trasfigurazione». Letti nel loro insieme
segnano chiaramente una interpretazione completa dell’esistenza: l’uomo è in mano a una potenza misteriosa, di cui non può conoscere le leggi che infrangendole e subendone le pene; ma quando egli arriva a intuirle è già troppo tardi per salvarsi dalla condanna più dura: la morte.
Kafka, afferma Paoli, ha una «missione profetica»:
Egli vuole affermare la Divinità e perciò nega, offende e deforma [...] l’umanità. [...] Siamo nell’Inferno, e non se n’esce; ma non si può credere così profondamente a un inferno senza pensare a un paradiso. Perciò appunto il senso dell’infinito, di qualche cosa che trascende e supera l’umanità, è continuo, acutissimo in ogni pagina.
Questa lettura «metafisica», ermetica e cattolica dominerà per anni soprattutto negli ambienti letterari fiorentini, e ancora dopo la guerra scrittori che si erano allontanati da Firenze e dall’ermetismo, come Elio Vittorini e Franco Fortini, avranno il problema di prenderne le distanze discutendo sul «Politecnico» il «problema» Kafka.
A metà strada fra questa lettura etico-religiosa e quella etico-laica di Spaini si posiziona «Solaria», rivista anch’essa fiorentina ma legata all’avanguardia torinese. Sul numero del marzo 1934, in un articolo intitolato Mitologia di Franz Kafka, il ventisettenne Renato Poggioli, forte della sua conoscenza di prima mano tanto della letteratura tedesca quanto di quella russa, suggerisce che Kafka si può comprendere solo attraverso Dostoevskij: «Kafka ha trapiantato il dramma dostojevskiano della coscienza dal terriccio barbarico e mistico della Russia ortodossa nel grazioso vaso da fiori che adorna il davanzale di tanti appartamenti piccolo-borghesi della nostra moderna e vecchissima Europa». Il problema che mette in scena nelle sue opere principali, Il processo e La metamorfosi, scrive Poggioli, è dato fin dall’incipit, dove, in entrambi i casi, si assiste, una mattina, a un risveglio, «il più tragico e il più sorprendente dei risvegli, quello della coscienza»:
Gregor Samsa è trasformato in verme solo perché il senso dell’eternità e del peccato, il risveglio della coscienza, rivela all’uomo la sua bestialità [...]. Joseph K. vien sottoposto a un procedimento giudiziario e vien messo in stato d’arresto perché l’uomo che comincia a guardarsi vivere diventa immediatamente un accusato.
Nelle maglie della macchina burocratica
Un’alternativa a queste letture che, in versione religiosa o laica, insistono sulla coscienza del soggetto (l’io) lasciando sullo sfondo la realtà dell’oggetto (il mondo sociale), comincia a delinearsi un anno dopo, quando Franco Antonicelli rientra in scena e si accinge a pubblicare, come n. 8 della «Biblioteca europea», Il messaggio dell’imperatore, raccolta di tutti i racconti di Kafka allora conosciuti. La traduzione questa volta è affidata alla ventottenne Anita Rho, che pur essendo alla sua prima prova ha credenziali di tutto rispetto: oltre a essere nipote della traduttrice Barbara Allason, con la quale condivide un appartamento sul lungopò torinese, fa parte del movimento antifascista di Giustizia e Libertà, come lo stesso Antonicelli, Ginzburg e Pavese. Proprio per la sua appartenenza a Giustizia e Libertà e al gruppo della rivista einaudiana «La Cultura» Antonicelli viene arrestato per la seconda volta. E da Roma, mentre è in viaggio ad Agropoli, dove rimarrà al confino per un anno, le scrive il 10 giugno 1935 per chiederle di redigere, in sua vece, la prefazione al volume.
Cara e gentile Anita,
non so se l’editore Le abbia comunicato il mio progetto e cioè che facesse magari Lei la prefazione in luogo mio. Avendo tradotto, può dire cose concrete e importanti sullo stile del testo. Quanto ai modi della fantasia del Kafka, Lei poteva dire cose sagge, anche sui limiti di essa fantasia. Io avrei tentato questo esame: fino a che punto i temi di Kafka sono, nella loro scelta, bizzarri, e che senso ha questo insistere nella bizzarria.
Esistono simboli? Sì, anche se non sempre chiari. Ma premono sul racconto? Direi che ne sono soltanto una sottolineatura, o velatura: non ne costituiscono il saldo, né la ragion d’essere, né forse il punto di partenza. Permangono, sempre vivi e intensi, i valori narrativi.
I significati sparsi qua e là sono: idea della costruzione: «una volta che uno è un ponte, etc.»; la fedeltà al dovere, all’ideale (l’ufficiale della «colonia»). Ma poca cosa. Invece vivido il racconto. Che significato c’è in Metamorfosi? Nessuno. La ricerca dell’esoterismo in K. è dannosa. Le interpretazioni metafisiche, tipo Groethuysen, sono insignificanti e non valide. Resta, ripeto, il valore del racconto. Una volta trasposto il campo della narrazione in un mondo che non è il nostro comune, una volta compiuto questo passo, l’autore ci fa accettare tutto come realtà e la narrazione procede per l’appunto con i modi del reale. Per questo Metamorfosi, specialmente, e La colonia penale e brevi racconti, come Un medico condotto (un motivo fiabesco evocato, direi, intorno al suono del campanello notturno), Primo dolore, Il cavaliere del secchio, Un digiunatore e Relazione accademica sono capolavori: di chiarezza e umanità.
Per carità, niente raffronti con Poe e Hoffmann, troppo facili e inutili. Piuttosto senza quella foga messianica, e nemmeno quella voluttà del dolore, un ricordo del Dostoevskij più sobrio. Invece altri racconti, come La muraglia cinese che ha dei passi mirabili, oltre a quello famoso del messaggio imperiale, sconfinano in un eccessivo monologizzare logico, che non è abbastanza perspicuo, né coerente, né poetico. Ecco i limiti. Una fantasia nuova e potente (superiore a quella dei romanzi), da petit mâitre, senza peraltro giungere a quella complessità di creazione dei grandissimi. Ma certo, quante quante altre cose da dire!
Antonicelli, che ormai ha letto quasi tutto Kafka, suggerisce di lasciare sullo sfondo i simboli, l’esoterismo e la metafisica per concentrare l’attenzione sullo stile: «Resta, ripeto, il valore del racconto». Propone di studiare come funziona la scrittura di Kafka, di esplorare il suo metodo: «Fino a che punto i temi di Kafka sono, nella loro scelta, bizzarri, e che senso ha questo insistere nella bizzarria»? Proprio da questa domanda prende le mosse Anita Rho nel redigere la prefazione al Messaggio dell’imperatore. Ma, innestando le sue riflessioni personali sugli argomenti di Antonicelli, da lei spesso riportati alla lettera, fa un passo in avanti, e ragionando sulla forma propone una nuova lettura del contenuto. Perché, si chiede la traduttrice, lo scrittore ricorre a «tante improvvise sovrapposizioni di un mondo fantastico al mondo della realtà, sì da farci quasi perdere il senso della realtà stessa?». E risponde:
Ecco, a me pare – e questa impressione mi si è fatta sempre più urgente nella fatica del tradurre – che questo ricco elemento fantastico e favoloso agisca nel racconto come una lente d’ingrandimento, o, ancor meglio, come un prisma che frangendo e rifrangendo le immagini ne permette l’analisi.
Certo esso non deve abbagliarci se, al di là di quella lente e di quelle rifrazioni, i motivi restano tanto profondamente umani: se gli elementi che costituiscono il racconto, le parole e i gesti dei personaggi, gli ambienti, le abitudini, sono esclusivamente quelli della vita umana. Coleottero o uomo, che importa, se è così triste e pietoso il dramma del povero impiegato, che è pure il dramma dei tanti cui la malattia coglie all’età del lavoro, tra i familiari che diversamente reagiscono, colle tenerezze che lo rendono più patetico, coglie egoismi che lo fanno più desolato...
Se Kafka usa il «prisma» del fantastico per analizzare meglio il reale, allora l’oggetto delle sue rappresentazioni non è tanto la coscienza morale (Spaini) o il rapporto dell’uomo con il divino (Paoli) quanto la semplice realtà quotidiana, nei diversi aspetti che essa assume nella modernità: dal «perpetuo dissidio tra padri e figli» (La condanna) al «sistema punitivo fondato sulla tortura e sul supplizio» (Nella colonia penale) al «moderno processo di lavoro specializzato e atomistico, senza meta quanto senza vista d’assieme» (La costruzione della muraglia cinese), definizione, quest’ultima, che lascerebbe supporre una Rho lettrice di Marx. La storia, la società, la politica irrompono così, con tutto l’understatement di una giovane antifascista torinese, nella vicenda delle interpretazioni italiane di Kafka.
Se Kafka è un realista, allora anche il Processo può essere letto realisticamente, vale a dire come una gigantesca satira della burocrazia austroungarica, del mondo degli impiegati e degli avvocati, del servilismo strisciante, dei meccanismi di potere intrinseci a ogni gerarchia. Così farà Hannah Arendt nel 1944:
Fin dalla prima edizione del romanzo era apparso chiaro che Il processo conteneva una critica implicita dello stato in cui versava a ridosso della Prima guerra mondiale il regime burocratico austro-ungarico, le cui numerose e contrastanti nazionalità erano rette da un’omogenea gerarchia di funzionari. Kafka, impiegato in una compagnia di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori e amico leale di molti ebrei dell’Europa orientale ai quali aveva dovuto procurare i permessi per rimanere nel paese, aveva una conoscenza profonda delle condizioni politiche del suo paese. Egli sapeva bene che un individuo, quando finisce nelle maglie della macchina burocratica, è già condannato, e che nessuno può attendersi giustizia da procedure giudiziarie in cui l’interpretazione della legge si accoppia all’amministrazione dell’illegalità, e in cui l’inazione cronica degli interpreti è compensata dalla macchina burocratica il cui insensato automatismo ha sempre il privilegio dell’ultima parola. Ma negli anni Venti la burocrazia non appariva agli occhi della gente un male sufficientemente grande da spiegare l’orrore e il terrore espresso nel romanzo. Le persone erano spaventate più dal racconto che dalla realtà di riferimento e perciò andarono in cerca di altre, apparentemente più profonde, spiegazioni e le trovarono, seguendo la moda del tempo, in un misterioso ritratto della realtà religiosa, nell’espressione di una terribile teologia.
In realtà anche in Italia qualcuno intuisce che Il processo si può leggere in questo modo. Nell’estate del 1935 il capofila dei prosisti d’arte italiani, Emilio Cecchi, impressionato dal Processo al punto da ritenerlo un «capolavoro», lo spedisce all’amico Mario Praz. Questi, che dopo aver vissuto dieci anni in Inghilterra si è da poco insediato all’Università di Roma – l’attuale Sapienza – per tenervi la cattedra di letteratura inglese, gli risponde il 13 luglio:
Caro Cecchi,
dovrei arrossire dell’elogio che mi fai [...] di conoscitore di «tutte le letterature del globo», dal momento che non conoscevo questo volume del Kafka, che ti rendiamo con molti ringraziamenti – capolavoro, certo, con quel tipico carattere esasperante che sembra proprio di tanti ebrei (il nostro amico Moravia è un altro caso a cui penso): ma forse ho torto a parlare di ebrei, ché il modello più perfetto di quello stato di cose che – a parte ogni interpretazione simbolica – si trova così insistentemente ed esasperatamente illustrato nel libro del Kafka – è forse molto vicino a noi: e basta andare all’Anagrafe o alla Questura o a un Ministero romano per sincerarsene. È un peccato che nessuno scrittore italiano abbia preso a modello gli uffici anzidetti per un romanzo metafisico del genere kafkiano. Ma forse, allora, invece di Kafka avremmo avuto Campanile. Voglio dire insomma che il cosiddetto romanzo di K. è un romanzo coi coglioni, mentre da noi romanzi coi coglioni non se ne scrivono.
Rideva talmente che non era capace di continuare
A fare un primo bilancio della ricezione italiana – e non solo – di Kafka è lo stesso Spaini, nella prefazione scritta nel luglio del 1936 per America, che aveva appena finito di tradurre su incarico di Antonicelli per la «Biblioteca europea». Questa prefazione resta inedita perché la fine della collaborazione fra Antonicelli e Frassinelli prima, e la censura fascista delle leggi razziali poi, ritardano l’uscita del romanzo fino al 1945, quando viene pubblicato da Einaudi nella collana «Narratori stranieri tradotti», ideata da Ginzburg e Pavese, con una prefazione ancora di Spaini ma interamente riscritta. Nel ’36, dunque, il traduttore osserva:
Il fascino esercitato dal mondo misterioso e patetico di Franz Kafka ha portato ormai la sua opera in vaste cerchie di lettori: a circa un anno di distanza, le traduzioni francesi del Processo e delle novelle hanno seguito quelle italiane; gli inglesi, che sono stati i primi a far conoscere le novelle di Franz Kafka fuori di Germania [The Great Wall of China and other pieces esce nel 1933], al Castello hanno aggiunto anche la traduzione del Processo – solamente America è stata un po’ trascurata; crediamo che la nostra sia la prima traduzione completa che appare. La ragione di questo disinteresse è abbastanza evidente: Kafka ha attirato i lettori soprattutto perché ognuno dei suoi racconti e dei suoi romanzi offriva il pretesto ad un’acuta indagine sui motivi e sui significati; come per ogni altra opera simbolica, l’allegoria attirava più della poesia; e siccome in America c’è così poco da interpretare [...]; siccome America è quello che è, mostra uno solo, che è il vero viso, gli esegeti scornati se ne sono tenuti lontani.
Qui, anche Spaini arriva a un passo dal suggerire una lettura realistica di Kafka: per descrivere lo stile di America spende perfino l’aggettivo «veristico», pur restando convinto che «anche in questo romanzo l’ansia spirituale, gli inguaribili dubbi filosofici e religiosi, il terrore mistico dell’autore sono il tessuto e la sostanza».
In quello stesso 1936, però, a Varsavia, nell’introdurre la prima traduzione polacca del Processo, lo scrittore galiziano Bruno Schulz propone un modo completamente diverso, potremmo dire opposto, di leggere Kafka. Il suo supposto misticismo, scrive, non va affatto preso sul serio: «Kafka stigmatizza e ridicolizza indefessamente la problematicità e la disperazione delle azioni umane in relazione all’ordine divino». Kafka è sì uno scrittore realista – come avevano colto Rho e Praz – ma il codice attraverso il quale rappresenta la sua realtà di tribunali, castelli, colonie penali o grette famiglie borghesi non è (solo) quello della tragedia, bensì (anche) quello della commedia. Ancora Schulz:
Il suo rapporto con la realtà è del tutto ironico, perfido, animato da cattiva volontà: il rapporto del prestigiatore con la propria attrezzatura. Egli simula soltanto l’esattezza, la serietà, la sforzata precisione di quella realtà allo scopo di screditarla ancor più radicalmente.
Questo modo di leggere Kafka, all’insegna non tanto del misticismo di Dostoevskij o di Martin Buber quanto dell’umorismo nero di scrittori cechi come Hašek e Hrabal, è da sempre dominante nell’Europa dell’est, come testimonia Milan Kundera nei Testamenti traditi. È un umorismo particolare, in cui il comico convive col tragico senza contrapporvisi, e che a noi occidentali può risultare difficile perfino da percepire: lo stesso David Foster Wallace, pur provando a spiegarlo nel saggio Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka che forse dovevano essere tagliate ulteriormente, alla fine getta la spugna. Forse può apparirci meno estraneo se pensiamo a certi film di Chaplin, di Woody Allen o al nostro Fantozzi. Certo è che anche il serissimo Max Brod, nella sua biografia dell’amico, ce ne ha lasciato una testimonianza esplicita:
Quando Kafka leggeva i suoi scritti agli amici, quell’umorismo diventava particolarmente manifesto. Ridemmo, per esempio, senza freno quando ci fece sentire il primo capitolo del Processo. Egli stesso rideva talmente che per qualche momento non era capace di continuare la lettura.
Postfazione a Franz Kafka, Il processo, trad. it. Alberto Spaini, Quodlibet-Compagnia Extra 2019 (ristampa della prima traduzione italiana del libro).