Speciale

Durante il Ventennio / La montagna etica

25 Aprile 2018

“Conoscere l'intimo della realtà si dice”, scrive Elémire Zolla in La montagna a proposito dei culti dei neri trascinati dall'Africa a Cuba, “entrare nella montagna, con sommo rispetto e consapevolezza, offrendo un sacrificio devoto, salutando i venti che ruotano attorno alla vetta”; e per tutto il saggio trova consonanze, attorno alla montagna sacra, nelle religione monoteiste come tra gli sciamani del nord America, nel buddhismo himalayano trapiantato in Cina e Giappone o nell'Induismo e nello Zoroastrismo. La montagna letterariamente nasce viceversa con il Romanticismo. Ciò lungo la prospettiva del sublime, ovvero della fascinazione per una natura dominante e pericolosa, e della conservazione del simbolico (altitudine, purezza, divino). Nel secondo Ottocento anche l'alpinismo si sviluppa professionalmente come competizione e conquista, il turismo d'élite si appropria delle vette, mentre è della Grande Guerra l'esperienza collettiva della fatica e del sacrificio estremo. A noi interessa un altro aspetto ancora della montagna, quello etico, databile per l'Italia tra i due conflitti mondiali, durante il Ventennio. 

 

Di queste differenti dimensioni si nutre buona parte della produzione poetica di Antonia Pozzi. Figlia della ricca borghesia milanese passa le estati in località montane: secondo Alessandra Cenni, sua attenta studiosa, Pasturo, in Valsassina, “diventa il luogo privilegiato delle sue esperienze personali. Se la montagna è un'avventura dello spirito, l'ascesa al suo Monte Ventoso, la Grigna, è l'allegoria della sua identità conquistata.” Sul retro di una fotografia che la ritrae alla capanna del Cervino ha scritto: “È l'immagine più cara che ho di me, dove sembro più un ragazzetto che una donna e ho addosso e intorno tutte le cose che più amo: i miei scarponi, il cappellaccio a fungo, la bella neve bianca, le pietre, il legno; qui è l'essenza, il midollo, la fibra viva e contrattile della mia vita.” Proprio a Pasturo si trova la woolfiana stanza tutta per sé – “Da qualche giorno fa un freddo cane: ma il mio studietto, qui in alto, è ben riparato e, mentre gode del silenzio e della solitudine di una cella, ha pure tutta l'apparenza ed il tepore di un nido” – dove appunto leggere, scrivere, scoprire sé stessa. 

 

Ecco alcuni accenni poetici all'elemento mistico della montagna: Cervino, “Tu stai contro alla notte / come un asceta assorto in preghiera”. “La montagna – davanti a loro / nella quieta sera – / sembra un grand'angelo / con chiuse le ali / e il viso nascosto in preghiera –” (La grangia). E ancora del legame tra corpo provato dalle salite, conquista e richiamo dell'abisso tipicamente romantici: “[...] Sì, bello morire, / quando la nostra giovinezza arranca / su per la roccia, a conquistare l'alto. / Bello cadere, quando nervi e carne, / pazzi di forza, voglion farsi anima” (Alpe). Pozzi fu anche romantica per una serie di amori vagheggiati e infelici fino alla tragedia, specie verso i suoi coetanei intellettuali che gravitavano attorno alla figura magistrale di Antonio Banfi, docente di filosofia vicino ad Esistenzialismo e Marxismo. Da un sogno di condivisione amorosa tra le vette – “Afferrami alla vita, / uomo. La cengia è stretta. / E l'abisso è un risucchio spaventoso / che ci vuole assorbire.” (Vertigine) – a un cameratismo da alpinisti: “di questa nostra fratellanza umana / senza parole, tra le immense rocce / dei monti.” (Rifugio). Va cercato sottotraccia l'elemento etico, scavando tra il velame romantico, ma non bisogna dimenticare cosa doveva essere nel Ventennio la frequentazione di quei compagni antifascisti unita all'indipendenza reale e simbolica delle ascensioni in montagna.

 

Ph Harry Gruyaert.


Happy few di cerchie internazionali fu in quegli anni Fosco Maraini, che prima delle spedizioni in Tibet e del soggiorno come studioso in Giappone, dove con altri italiani si rifiutò all'adesione alla Rsi preferendo le durezze del campo di prigionia, aveva affrontato le ascensioni di casa nostra. Racconta in Case, amori, universi di aver abbandonato ancora diciassettenne la natia Toscana in estate per “avventure un po' più maschie sulle Alpi”. A Misurina, attorno alla guida esperta di Emilio Comici, si forma e ritrova di anno in anno un gruppo di amici, un Kuriltai: “I nomadi delle steppe chiamavano infatti così certi loro raduni annuali durante i quali si decidevano gli affari generali delle comunità, si ricordavano i morti, si festeggiavano matrimoni, nascite e amori, tra mangiate, bevute e gare di bravura a cavallo.” Siamo soprattutto nel vitalismo che sperimenta panicamente sé stesso, nello spunto per il brano romantico come nel caso della parete Nord-Est della torre Winkler: “In alto, proprio sopra il capo, centinaia di metri più su, s'indovinava una sorta di prua di sasso, chiara, luminosa nel sole (dolomite salda, compatta, osso sopravvissuto a ere geologiche d'erosione), più sulla destra si notavano due smisurate colonne di rocce rossastre (dolomite marcia, sbavata da minerali in colori che andavano dal giallo all'arancione). Le due colonne rossastre rinserravano tra di loro una sorta di grotta umida, verdognola e repellente. Dai lati opposti s'aprivano vuoti paurosi, centinaia di metri di nulla, giù giù fino ai ghiaioni aridi e candidi, rigati verticalmente dal verde dei pini mughi e orizzontalmente dai sentieri dei camosci. Non era un mondo giusto, umano, presentabile. Era una follia. Una vertigine di tuffi mortali, di rimbalzi inattesi, di prospettive impazzite. Eppure, come nella Pozzi, seppure in modo ben più estroverso, il senso d'un esercizio di libertà e di coscienza prende forma. Con il Primo Levi de Il sistema periodico magistralmente si codifica.

 

In particolare è il racconto di formazione Ferro, risalente agli anni università, a delineare con chiarezza definitiva il valore etico della montagna. Cominciamo con il definire il contesto storico: “Fuori delle mura dell'Istituto Chimico era notte, la notte dell'Europa: Chamberlain era ritornato giocato da Monaco, Hitler era entrato a Praga senza sparare un colpo, Franco aveva piegato Barcellona e sedeva a Madrid. L'Italia fascista, pirata minore, aveva occupato l'Albania, e la premonizione della catastrofe imminente si condensava come una rugiada viscida per le case e nelle strade, nei discorsi cauti e nelle coscienze assopite.” In tale morsa che silenziosamente si chiudeva, attorniata da tutte le macabre e risibili pompe del Regime, Levi aveva elaborato un'idea di resistenza tramite la chiarezza della scienza, in particolare della chimica, con le sue scelte coscienti rispetto alla manipolazione di sostanze pericolose; “lui aveva un'altra materia a cui condurmi, un'altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l'autentica Urstoff senza tempo, la pietra ed il ghiaccio delle montagne vicine.

 

Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia.” Lui era Sandro Dalmastro, poi partigiano della prima ora, caduto nell'aprile 1944 mentre tentava di fuggire dalla detenzione alla Casa Littoria di Cuneo.

Dopo che i due ragazzi, diversi per provenienza sociale e per interessi, uguali per solitudine e insofferenza, si sono annusati e presi, comincia l'educazione montana: “D'estate, di rifugio in rifugio, ad ubriacarci di sole, di fatica e di vento, ed a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d'uomo: ma non sulle cime famose, né alla ricerca dell'impresa memorabile; di questo non gli importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino.” Qui la chiave di una montagna vissuta non come esperienza estetica o sportiva, ma etica e pedagogica, ad assaggiare per la prima volta “la carne dell'orso”, ovvero “il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.” 

 

Sappiamo che la vicenda partigiana di Levi, raccontata nel successivo racconto Oro, fu breve e sfortunata, e che la preparazione fisica non era sufficiente senza un'organizzazione più attenta. E tuttavia alpinisti poi partigiani di più lungo corso furono molti, se è vero, come sostiene Marco Armiero in Le montagne della patria che “la Repubblica del secondo dopoguerra nasceva montanara e la nuova democrazia venne più dai villaggi alpini che dalle moderne città di pianura”. Citiamo qui soltanto Ettore Castiglioni e Dante Livio Bianco per le particolari vicende biografiche e le testimonianze scritte lasciate. Il primo è stato uno dei grandi alpinisti degli anni Trenta, animato a lungo da velleità superomistiche: “Sono salito sempre d'autorità: ma con quell'autorità che la vera volontà di conquista, che è la condizione prima di tutte le vittorie” (così nel maggio 1931 nel diario Il giorno delle Mésules). Poi, a seguito di un infortunio, la profonda pausa riflessiva proprio sulle Mésule nel 1936, con la contrapposizione montagna-città che va sempre più intridendosi di umori antifascisti. Nell'ottobre del 1935, indispettito che l'esercito gli abbia sottratto il compagno di scalata per la Marmolada, definisce la guerra d'Africa “folle sogno di montatura politica, per un puntiglio di vanagloria personale, mostruosamente delittuoso”; e cinque giorni dopo lo sbandamento dell'8 settembre scrive: “ci sentiamo decisi a tutto, e pensiamo già seriamente all'organizzazione di bande partigiane, ieri ero ancora un ufficiale. Oggi sono ladro e non esiterei a fare il bandito.” Morirà solo, assiderato, un anno dopo, mentre fuggiva senza equipaggiamento da una prigione sul confine svizzero, dove aveva sfruttato le sue capacità di guida alpina per tenere i collegamenti tra i resistenti e far passare da una parte all'altra chi ne aveva bisogno.

Dante Livio Bianco nasce il 19 maggio 1909 a Cannes; il padre, che morì quando lui aveva nove anni, era emigrato da Valdieri in Valle Gesso e aveva fatto una discreta fortuna lasciando in eredità la casa in quel paese al centro delle Alpi Marittime. “Un mondo alpino singolare, selvaggio e un po' arido, straordinariamente arruffato nell'ordinamento delle valli e delle catene”, come scrisse Massimo Mila nel suo contributo al ricordo di Livio alpinista, uscito nel luglio 1954 su «Il Ponte». Cominciò ad arrampicare fin dall'adolescenza nelle montagne attorno, militando da liceale in una sottosezione giovanile del CAI, e mettendo a segno, tra il 1928 e il 1932, diverse prime ascensioni nel gruppo dell'Argentera. Per quelle montagne ebbe, scrive Giovanni De Luna, “una passione divorante, totale” (Giorgio Agosti e Livio Bianco, Un'amicizia partigiana. Lettere 1943-1945). “Un professore di filosofia, Alfredo Poggi, gli spiegò allora che quella sua passione era il kantiano imperativo categorico. E Livio capì perché tutte le mattine, con il cugino Aldo Quaranta, si alzava alla cinque per percorrere nelle gelate strade di una Cuneo deserta la sua quotidiana razione di cinque chilometri di allenamento.

 

Era una scelta che non c'entrava niente con l'agonismo, con la competizione, con l'ossessione del record. Semplicemente era un modo di crescere.” Fu uno dei fondatori, con Duccio Galimberti, del primo raggruppamento GL di Cuneo, subentrandogli alla guida dopo la cattura ed esecuzione, e della sua esperienza scrisse con secchezza e precisione in Guerra partigiana, da cui possiamo prendere questo riferimento alla montagna etica, valido per sé e per altri arrampicatori poi partigiani: “nel beato riposo che segue alla bella arrampicata, e nella purezza dell'altezza, avevan dato corso alle umane fantasie, e più forti e vivi avevan sentito vibrare nel cuore gli ideali di giustizia e libertà”. Tornato dopo la Liberazione al suo mestiere di avvocato morì nel luglio 1953 proprio sulla montagna tanto amata in un ideale ricongiungimento con i compagni caduti: “[...] Dalla montagna nera / dopo dieci anni dal primo convegno / s'affacciano le ombre in vedetta / l'hanno riconosciuto / sventolano i verdi fazzoletti / ricantan le vecchie canzoni”. Così scrive, in una delle sue epigrafi, Piero Calamandrei, maestro di etica pubblica nel dopoguerra, cogliendo e incidendo la dinamica contrapposizione tra l'alto, rappresentato dalla montagna, che è puro sdegnoso e resistente, e il basso della pianura ancora in mano ai nazifascisti: “Asciughiamo il pianto / guardiamo su in alto / in cerca di te / come ti videro i tedeschi fuggenti / fermo sulla rupe”. Fermezza anche morale insegnata dal confronto con la montagna. 

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