La patria come luogo qualsiasi
Primo Levi ha bisogno di concretizzare l’idea di “patria”, di localizzarla. Lo fa partendo dall’analisi del termine, per arrivare fino quasi a cancellarne la natura retorica e deterrente. La abrade con accuratezza, passo passo, frase dopo frase. Vi passa sopra la carta ruvida della propria esperienza di “ebreo indigeno” in Italia, che è come dire “ebreo errante”, oppure “uomo senza patria”. Il risultato è qualcosa che quasi non si vede più, lisciato e levigato, chiaro, ma senza alcunché di rassicurante. “Se morrò, morrò in patria, e sarà il mio modo di morire per la patria”. Significa: morendo qui dove vivo, magari senza neanche capire bene come e perché ci sono finito, sarò un eroe che muore per la patria. Basterà che io sia qui, ossia nel luogo qualsiasi in cui mi è capitato di vivere in seguito a evenienze e contingenze, o a “difficoltà psicologiche”, perché io possa morire da eroe. Trascorrere la vita in un luogo qualsiasi, e ancora di più, morire in un luogo qualsiasi, è un’azione patriottica, estrema e completa. I monumenti, ma soprattutto i cimiteri; i libri di storia, ma soprattutto certi libri di finzione; le cineteche e gli archivi, ma soprattutto gli album di famiglia e gli aneddoti che ogni giorno si diffondono dalle bocche degli uomini: raccontano tutti, indistintamente, storie di gente morta “per la patria” semplicemente perché morta “in patria”.
Per illustrare quest’idea, Primo Levi suggerisce che gli ebrei – quelli “indigeni” (in Italia, in Francia, in Germania) in particolare – non sono un’eccezione, sono la regola del genere umano, dell’essere umani. E siffatti eroi, che muoiono per una patria corrispondente ai luoghi più sperduti e misconosciuti, più brutti e devastasti o più meravigliosi, più piccoli o più mastodontici, non fanno altro che morire “in patria”. Senza bisogno di armarsi e di partire, senza idee avventuriere per la testa, senza smanie di grandezza e di conquista, l’Eroe del Luogo Qualsiasi vive e muore nel qui dove vive, con senso altissimo del sacrificio. Egli, qui dove vive, si immola pagando le tasse, parlando una lingua che non è la sua, adottando costumi che non gli appartengono; e al culmine del suo cammino patriottico, gli può accadere, come accade a Levi, di incrociare la consapevolezza del suo ruolo di eroe, dimenticando per la prima volta le “difficoltà organizzative e psicologiche” di una vita passata in “eterna trasferta”. La saggezza eroica conquistata con la consapevolezza di morire “per la patria” semplicemente morendo “in patria”, è la saggezza che fiorisce nell’ordinario, nel nulla luminoso che si vede e si sente nei posti in cui viviamo, nel caleidoscopio scassato che è, ad esempio, questa nostra patria Italia. Levi arriva a questa consapevolezza in quanto “ebreo indigeno”. Noi in che modo ci arriveremo?
L’eterna trasferta della vita ha inizio e termine nel luogo in cui si vive, e del quale, senza volerlo e senza saperlo, diventeremo un giorno eroi celebrati con inni sacri, parate civili e qualche lumino. Siamo tutti morituri espatriati da chissà dove e chissà quando, in fondo siamo tutti “ebrei indigeni”. Pensate a come è morto Levi, ma pensate innanzitutto ai vostri morti: forse non tutti avevano ben capito il motivo dell’esser proprio lì, in quel luogo, ma tutti sono morti come gli eroi e i cavalieri dell’illusione di tutti i tempi, sono morti per una patria, una qualsiasi, per qualcosa la cui sostanza (tasse, lingua, costumi) sta qui dove si vive, ma la cui essenza non si trova sulla terra, bensì sulla Luna di Ariosto, e sotto chissà quale forma. Perciò la festa della patria non dovrebbe essere il 17 marzo, ma il 2 novembre.