La ragazza tatuata

25 Febbraio 2014

Prendo posto di fronte a una ragazza. Nonostante il freddo di fine gennaio sembra accaldata. Pochi istanti dopo mi accorgo che il riscaldamento del vagone è al massimo.
 La ragazza guarda fuori dal finestrino. Ha una pelle fine e liscia che sembra porcellana, associazione banale, ma è la materia a cui ho pensato quando l’ho vista. Porta un taglio cortissimo fatto da mani inesperte, come quelle che hanno eseguito i tatuaggi che, con uno sguardo a volo d’uccello, vedo sui suoi avambracci esposti. Noto che la densità dei pasticci si concentra su quello sinistro, il che fa supporre che buona parte se la sia fatta da sola. Una farfallina sghemba e asimmetrica, qualche stella a cinque punte, una rosa dei venti, un serpente che sembra passato sotto le ruote di un camion, cinque nomi, due dei quali cancellati, e altri simboli che non riesco a decifrare.

 

Freno l’invadenza e mi metto a leggere. Ma resisto a malapena tre minuti, poi il mio sguardo si posa su qualcosa di bello. Dalla scollatura della ragazza spunta una porzione di disegno che potrebbe far parte di un drago, fatto con la tecnica sfumata che so essere dei tatuaggi giapponesi che non ho mai visto dal vivo. É un disegno che promette di essere spettacolare, perché quella che sembra una coda eseguita con gli stessi colori e il medesimo stile raffinato finisce vicino all’orecchio sinistro. Tutto fa supporre che quest’ultima appartenga alla stessa creatura che decora buona parte del corpo della ragazza. Il colore delle squame sfuma dal verde lichene al rosa antico, le ombreggiature passano dal bruno al violetto. Non assomiglia a nulla di ciò che si può vedere su siti di tattoo, è più simile alle foto colorate a mano di Felice Beato e alle stampe Shunga che a un tatuaggio. Mi vergogno del mio indagare perché mi rendo conto che sto osservando una persona come fosse un’incisione antica. Per fortuna lei pare non essersi accorta di nulla.

 

Continua a guardare fuori dal finestrino, assorta. Approfitto della sua immobilità e del vagone mezzo vuoto per tracciare qualche linea sul notes. La posizione del collo, i volumi e qualche particolare. Improvvisamente la ragazza ha uno scatto. Si alza in piedi brontolando e sbuffa sonoramente. Mi viene un colpo. Temo abbia scoperto il mio disegno e in velocità occulto il notes sotto la sciarpa. Invece la scena plateale serve solo a togliere la maglietta e dichiarare pubblicamente che le ferrovie fanno schifo, senza nemmeno cercare la complicità dei presenti. 


 

Mentre il mio battito cardiaco rientra quasi nella normalità, il mio sguardo la ritrova lì, nella stessa posizione di prima, addosso solo una canotta nera. La situazione mi fa sorridere, perché non capisco se sia incosciente della mia indagine o complice, con il desiderio di farsi ammirare. Riprendo il notes e il disegno che stavo facendo, quando sulla spalla della ragazza lo vedo. È grande ed è un lavoro recente, perché la pelle ai bordi è ancora arrossata.
 Mi sforzo di sopportarne la visione ricordandomi che in origine era un simbolo primitivo e religioso.
 Il suo nome deriva dal sanscrito, la sua forma appartiene a culture come Buddhismo, Induismo e Giainismo. Ma ciò che vedo su quella spalla non ricorda la propizia forma primitiva, neppure quella greca. Quel simbolo, così com’è, non è altro che ciò che vuole rappresentare.


 

Provo un malessere difficile da descrivere. Rivedo fotografie di altri vagoni e di altri tatuaggi, quelli fatti con serie di sei sette cifre. Non posso fare altro che chiudere il notes, raccogliere lentamente le mie cose e cercare un altro posto dove sedermi.

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