Speciale
La sfida al labirinto
Nella nota di apertura a Una pietra sopra, Italo Calvino scrive: «La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena […] e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli». Nel 1980, Calvino, nonostante la perdita dell’ideale giovanile di una letteratura come conditio sine qua non per la costruzione di una nuova società, ribadisce la sua fiducia nei confronti delle lettere, elevandole a strumento indispensabile per uscire dal labirinto-realtà. Oggi la letteratura di Calvino può essere ancora definita una scrittura che «sfida il labirinto» oppure risulta «resa al labirinto»?[1]
Se negli anni Ottanta e Novanta l’opera calviniana ha avuto un grosso impatto sulle generazioni di scrittori soprattutto giovani (Andrea De Carlo e Alessandro Baricco); gli anni Zero hanno visto la riflessione letteraria manifestare da un lato un bisogno di realtà dall’altro un’istanza performativa che hanno portato a opporre la figura di Pier Paolo Pasolini a quella di Italo Calvino: come scrive Carla Benedetti «per l’ultimo Calvino scrivere è descrivere il mondo, per Pasolini scrivere è agire nel mondo».[2]
A trent’anni dalla morte, nel tracciare un bilancio sull’eredità e sui lasciti calviniani, il rischio maggiore può essere individuato nella banalizzazione che, come ha messo in evidenza Mario Barenghi, l’interprete di Calvino più capace di fondere filologia e critica, «è il destino dei grandi autori: la loro stessa grandezza, la loro fama (in gergo mediatico si direbbe: la loro sovraesposizione) li candida al fraintendimento».[3]
Italo Calvino è stato riconosciuto dalla critica come uno scrittore in continua mutazione: la sua produzione, convenzionalmente suddivisa in tre fasi (il Calvino neorealista, fiabesco e combinatorio) si caratterizza per una varietà tale che è impossibile non riconoscere la presenza di sottostagioni all’interno di ciascun stadio. In particolare, l’ultimo Calvino si lega al panorama culturale internazionale, da un lato i tredici anni parigini, dove frequenta Raymond Queneau, Georges Perec e gli altri oulipiani, dall’altro l’invito a tenere le prestigiose Norton Lectures all’Università di Harvard, negli Stati Uniti.
La produzione calviniana sembra così rispecchiare «l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste»[4]: il ricorso a immagini stranianti – prima tra tutte quella dei sentieri dei nidi di ragno regolati dalla stessa logica di violenza ed erotismo del mondo umano – permette di squadernare le contraddizioni della storia, senza che la lettura risulti evasiva o trasognata.
Accanto alla varietà e all’innovazione, l’altra costante di Calvino può essere individuata nella compresenza di elementi opposti che influenza fortemente sia la costruzione del discorso che la struttura sintattica.
In questo senso la rappresentazione della contemporaneità dell’ultima fase si configura come un caso esemplare: accanto all’immagine della “leggerezza” e del “labirinto”, figure di indefinitezza e amorfismo, si ritrovano quelle di “deiezione”, di “fortezza”, del “muro” e del “cumulo di macerie”, presenti non solo nelle Città invisibili (1972) – in primis nella descrizione di Leonia – , ma anche nella Poubelle agréée (1977), Il midollo del leone (1955), La sfida al labirinto (1962), nella premessa alla raccolta Una pietra sopra (1980) e nel postumo Lezioni americane (1985).
Il confronto agonistico che Calvino instaura con la realtà sempre più informe si riflette in una scrittura che è caratterizzata da una lato da una tensione non risolta tra contrasti (incanto versus ironia; fantasia versus razionalità, immaginazione versus controllo critico) dall’altro da una assunzione di punti di vista stranianti che ancora oggi restituiscono il senso di quella narrazione. Questi due aspetti, che tornano più volte nell’opera di Calvino, fanno affiorare la complessità di una riflessione letteraria solo in apparenza igienica, razionale e scientifica ma che invece, oltre al velo di Maia, si rivela magmatica e caotica: sono soprattutto le forme, dal tentativo realistico, alla favola fino alla combinatoria, a diventare spia di una convivenza di opposti che, prima ancora di manifestarsi nel mondo, abitano l’autore stesso.
In alcuni casi invece, nonostante l’abitudine all’oggettività, Calvino, come evidenzia Mengaldo in Profili di critici del Novecento, «mette sul piatto la falsa oggettività del giudizio comune o superficiale per rovesciarla nella sua verità soggettiva».[5]
Il compito portato avanti dell’intellettuale Calvino può essere individuato nel farsi modello di un ingegno sensibile, pronto ad attraversare i confini disciplinari, sondare terreni inesplorati e sperimentare nuovi mezzi di misurazione del reale, togliendo ogni elemento superfluo alle parole e ai pensieri, facendosi leggero pur rimanendo profondo.
Di fronte al labirinto calviniano, o meglio alla sfida al labirinto, la reazione del lettore odierno può essere identificata in un malessere, in un’avversione nei confronti di una scrittura in cui nessuna verità viene svelata, nessuna lezione impartita e che non presenta alcuna vis polemica – contrariamente a quanto accade per altre penne novecentesche – ma, allo stesso tempo, ne riceve una continua pressione a distinguere e a moltiplicare punti di vista, esperienze e abilità.
Federica Ditadi si è laureata in Lettere Moderne e in Filologia Moderna presso l’Università di Padova, dove attualmente svolge un dottorato di ricerca. Il suo progetto, dal titolo Hollywood di carta. L’americanismo nei reportages italiani degli anni Trenta, si propone di indagare l’immagine degli Stati Uniti nei testi di viaggio di Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Cecchi, Alberto Moravia e Mario Soldati. Altri ambiti di interesse riguardano la letteratura coloniale e postcoloniale italiana e il cinema di Pier Paolo Pasolini.
[1] I. Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 96.
[2] C. Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 139.
[3] M. Barenghi, Postfazione, in I. Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano 2002, p. 320.
[4] I. Calvino, Sulla fiaba, Mondadori, Milano 2002, p. 39.
[5] P.V. Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 86.