Speciale
La specificità dei GAP
Tra le varie narrazioni partigiane vorrei prendere in esame in particolare quelle sui Gap in quanto mi pare siano la massima espressione della forma che stiamo descrivendo. Si tratta in primo luogo di un teatro di guerra, la metropoli, del tutto nuovo. E forse ignota è la crudezza con cui sono definiti i luoghi e gli obiettivi: “G. A. P. Vuol dire: Gruppo Azione Patriottica, vuol dire uccidere i fascisti”. I protagonisti viareggini del romanzo di Tobino, Il clandestino,sono molto impressionati da questa realtà metropolitana e chiedono di poter studiare un’azione da importare eventualmente in provincia. Dopo aver assistito con una certa ammirazione subentrano però i dubbi: “Ma quali erano mai le doti per l’azione di gap? Per uccidere? Si doveva essere freddi, spietati, criminali? O essere invece credenti, soldati votati al bene? Avere la violenta passione, un’infuocata speranza?”. Una risposta, che unisce la vocazione idealista con la brutale concretezza, la potrebbe fornire la gappista romana Musu:
Forse, a voler essere sincera fino in fondo, una certa propensione per il rischio, questa sì per temperamento, mi sembra di averla sempre avuta. Ma è tutt’altra cosa: è una sfida, talvolta al limite dell’incoscienza, dell’irresponsabilità, ma non ha niente a che fare con l’amore o il culto per la violenza. […] Davanti alla lotta armata, perciò, la mia reazione naturale è stata, se si vuole, concreta, primitiva, elementare, certo non metafisica, né filosofica. Condividevo totalmente l’indicazione dei nostri dirigenti: non dar tregua agli occupanti. Certamente il modo più diretto ed efficace era il ricorso alla armi. Quindi lì, era il mio posto. […] Né avrei avuto mai, dopo un’azione, turbamenti angosciosi, pentimenti. So di partigiani che, dopo il primo scontro a fuoco con esiti mortali, si sono ritratti inorriditi. Rispetto la loro sensibilità, ma non è la mia. Che tra i nazisti e i fascisti ci fossero dei giovani come noi, che molti dei meno giovani avessero moglie e figli, era un dato di fatto. Ma era anche un dato di fatto che la maggior parte di loro, nonostante la giovane età o il carico di affetti familiari, militasse, rispettivamente, in un esercito occupante o in formazioni ad esso asservite, l’uno e l’altro propensi alla strage, alla tortura, al rastrellamento di civili inermi per i Lager. Era giusto colpirli e non mi ha mai messo in crisi farlo (La ragazza di via Orazio).
L’esplicita condanna delle alte sfere cattoliche verso i Gap, nonché l’astensione di tutti i partiti, tranne quello comunista, a tale genere di azione, fanno scattare, all’interno della già elitaria scelta del volontario, un ulteriore grado di eccezionalità. Giovanni Pesce si lamenta spesso che i gappisti, a Torino e a Milano dove ha operato, sono pochi e che oltretutto “non si improvvisa un gappista da un giorno all’altro, lo si deve costruire”. Pochi, generalmente tre o quattro, compongono la squadra per il raid. Eppure l’effetto mitologico sottolineato da Pratolini in La primula rossa alla tomba di Nerone (“il mistero, l’incubo della loro sterminata, silenziosa presenza”) si amplifica nella più grande cassa di risonanza della città. Così vengono impegnati un gran numero di nemici, costretti sulla difensiva, in uno stato di tensione che galvanizza la speranza, specie tra gli operai (“Noi così pochi facevamo sentire dappertutto la nostra presenza […] I fascisti e i tedeschi rafforzavano le loro difese. Dunque non sono io solo a sentirmi prigioniero. Anch’essi, tedeschi e fascisti, dietro il filo spinato, i sacchi di sabbia, le sentinelle, sono prigionieri nelle loro caserme e nei loro comandi”, Pesce).
Lo spazio in cui agire è profondamente diverso da quello del partigiano di montagna che cala a valle verso l’obiettivo e si ritira. La città è potenzialmente tutta un bersaglio, però nello stesso tempo appartiene tutta al nemico. Il Gap è un virus interno che si muove per linee orizzontali, difficile da individuare (“I loro provvedimenti sono indiscriminati e inefficaci. Proibiscono che si circoli in più di quattro persone contemporaneamente. Noi ci muoviamo quasi sempre in due. Vietano l’uso della bicicletta. Ma questo ci confonde con la folla che è costretta a circolare a piedi” ivi). Non ha nessun segno distintivo, come invece il partigiano di montagna, perché la sua forza viene dall’anonimato, dai documenti falsi, dalla copertura lavorativa, dal covo nascosto che assicuri la più assoluta invisibilità, quasi fino alla dispersione identitaria e alla schizofrenia (“Cambiare nome richiede un continuo controllo dei riflessi condizionati della vecchia personalità” ivi). Così venne subito istruito, con un prontuario tutto negativo che porti all’assenza, Roberto Battaglia nella sua breve esperienza romana (“Non presentarti a tutti con lo stesso nome. Esci ora col cappello, ora senza. Quando torni a casa passa per qualche strada poco frequentata per vedere se sei seguito. Gira con dei libri sotto il braccio per non dare nell’occhio. Non dare appuntamenti per telefono. Non farti aspettare e non aspettare”).
Il Gap ha di mira uomini e strutture di collegamento che sono, per così dire, i luoghi al quadrato del nemico, ma sta già, come detto, in territorio nemico; di qui deriva un’enorme pressione psicologica dovuta alla solitudine ed al sentirsi costantemente minacciato: “[…] il gap lottava solo e braccato contro forze schiaccianti e implacabili. Non è il rischio, è l’isolamento a logorare il gap” (Pesce). A tal proposito va ricordato il primo romanzo partigiano metropolitano - Uomini e no di Vittorini - in cui il protagonista, nel momento seguente all’azione, vede “nella città il deserto. Ossa di case erano nel deserto, e spettri di case; coi portoni chiusi, le finestre chiuse, i negozi chiusi”; tale squallore senza protezione umana non cessa nemmeno allorché ritorna al proprio rifugio: “Un uomo entra. Ed entra nel deserto.”
Ed infatti Pesce si rinfranca quando, dopo i primi massicci scioperi del 1944, può considerarsi avanguardia del proletariato, coordinando con gli operai Fiat le sue azioni; oppure, allorché si rifugia provvisoriamente tra i compagni di montagna, s’abbandona alla “calda presenza degli altri combattenti dell’esercito al quale appartengo”, ben più camerateschi e presenti, fin dal pranzo e dal sonno, dei fantasmi con cui collabora in città. In effetti “le cellule” sono del tutto solitarie: si sfiorano, comunicano al volo, coagulandosi solo al momento dell’azione per disperdersi subito dopo (“Bisogna tessere una vera e propria rete nella clandestinità più assoluta. Cominciare a predisporre l’organizzazione delle cellule. I singoli militanti avranno tra di loro soltanto i rapporti strettamente indispensabili e nella maggior parte dei casi si conosceranno soltanto col nome di battaglia. Ciò ostacolerà l’azione dei fascisti e dei tedeschi nel caso che qualcuno venga catturato e, inoltre, proteggerà le famiglie dalle rappresaglie”).
Anche il raid in sé trova un’enfatizzazione nella pratica dei Gap. In primo luogo c’è un’enorme accelerazione dell’andata e del ritorno, tipica della modernità metropolitana: “Preparo due saponette di tritolo […] Ho due minuti per collocare la seconda carica su un altro scambio a una decina di metri; tre per allontanarmi prima dell’esplosione […]”. Inoltre, proprio a causa dell’esiguità delle forze disponibili, i Gap diventano dei forzati dell’azione, che va continuamente rilanciata per tenere sempre il nemico nel mirino: “Qui, anche se l’azione ha successo, non ci può essere tregua; bisogna predisporre insieme attacco e ritirata, mettersi in salvo per essere vivi domani, per ricominciare”. A questo iperdinamismo corrisponde una frenetica mobilità dentro la metropoli: “La nostra è una vera e propria febbre d’azione. Moltiplichiamo gli attentati, i sabotaggi di giorno e di notte, senza mai offrire al nemico un bersaglio fermo. Noi non stiamo mai fermi. Le nostre azioni ci impongono spostamenti continui. Cambiamo base anche due volte al giorno, rendendo difficile al nemico il compito di individuarci”. Quali allora le qualità del raider cittadino? La preparazione molto accurata perché i bersagli vengono protetti ferocemente; così percorsi, abitudini, degli esponenti nazifascisti e delle loro scorte, insieme alle vie di fuga devono essere vagliati per scoprire “la maglia sfilata nella rete” delle precauzioni. Insieme alla strategia nasce però la scintilla dell’invenzione, imprevedibile per la maniacale organizzazione tedesca: “Avevamo a nostro vantaggio la sorpresa. Il nemico non si aspettava che lo avremmo attaccato proprio dove il suo schieramento era più potente e numeroso. Nella tattica militare l’attacco tende a individuare e a colpire l’avversario nel punto più debole, nella guerra partigiana, all’opposto, si tende a colpire il nemico dove è più forte, dove può ricevere i colpi più duri”. Sono numerosi gli stratagemmi raccontati da Pesce: bombe inserite nelle fisarmoniche, scatole di dolci innescate in pochi minuti ed esplose in locali affollati dai nemici. L’astuzia del travestimento o il colpo quasi disperato, un incredibile coraggio e altrettanto autocontrollo si sommano; Pesce ci offre una sintesi icastica tra il massimo grado della flessibilità e prontezza nell’assecondare i giochi del caso, e quello del controllo della situazione e di sé: “Sopravvive chi ha fortuna e chi conserva la testa a posto”.
Piero Calamandrei, in Uomini e città della Resistenza, descrive l’azione contro il ponte sulla Dora ad Ivrea, per opera di partigiani locali che offrono agli Alleati di farlo saltare in modo da evitare un pesante bombardamento sulla propria città; l’obiettivo stava a due passi dal comando tedesco e andava minato appendendovisi sotto. Il risultato conferma con definitiva chiarezza l’equilibrio bipolare dell’antropologia del raider nell’azione pericolosa che porta al danneggiamento e alla salvezza di sé: “Questa operazione è un esempio unico di coraggio ragionato e di chiaroveggente preparazione tecnica: è un eroismo di ingegneria partigiana […] è riconoscibile la collaborazione del calcolo paziente con l’immaginazione geniale che lo riscalda […]”.