Le orme delle nostre scarpe
In copertina primeggia una suola. Apparentemente sporca, consumata o forse bruciata.
Finalmente qualcuno si è accorto della svolta che ha preso lo stile della calzatura contemporanea, uno stile che forse per la prima volta mette al centro le suole.
Mi chiedevo come mai nessuno ne parlasse… o forse mi stavo perdendo una certa letteratura su questo, piccolo, frivolo aspetto del costume attuale. Così ho pensato “Ecco che finalmente qualcuno ne ha scritto e ci spiega il perché”… perché e da dove nasce questa attenzione alla suola, una suola che non si accontenta più di essere semplicemente suola, una piccola area nascosta che nessuno mostrerebbe e nemmeno ha interesse a vedere, forse oggetto di ricerche salutiste, al massimo di qualche convention ortopedica, che diventa oggi sfacciata, colorata, eccessiva, gonfia, arrogante fino ad arrampicarsi e strappare sempre più spazio alla tomaia.
Da dove viene questa ribellione, questa rivendicazione da parte di uno spazio che non si vede… sì, che non si vede, che sta letteralmente sotto i nostri piedi, dalla parte opposta del nostro pensiero, un’area che per essere messa sotto il nostro sguardo, per catturare la nostra attenzione (così fuggevole e frivola in questo mondo di stimoli infiniti) richiede di farci guardare in basso.
Forse, mi sono detta, è uno dei pochi spazi in cui era ancora possibile immaginare.
E, d’altra parte, riguarda forse anche uno dei pochi gesti che non possiamo smettere di fare, camminare, su due piedi, come solo noi sappiamo fare, in cui riconoscere e vedere concretamente le tracce di chi siamo, dar forma e sostanza alla nostra esistenza (così sospesa in una condizione astratta).
Ebbene, tornando allo scarpone di chapliniana memoria di questa copertina, il titolo recita Walking Loaves, anzi no Il pane selvaggio. Entrambi i titoli sembrano validi. Dunque prendiamoli insieme: un pane selvaggio evidentemente, fatto di pagnotte che camminano, che se ne vanno in giro, che dalle nostre tavole scappano per raggiungere le nostre suole e sostenerci in un instabile cammino.
Da cinque anni Luca Trevisani, autore di questo libro, realizza sculture di pane stabilizzato ispirandosi alle suole delle nostre scarpe, o meglio, cuoce pagnotte da mettere ai piedi, dalle forme assai eclettiche in cui coesistono vibram, polipi e alfabeti. A guardarle, tutte insieme, ricordano fossili ancora da venire, fossili anzitempo, anticipati e anticipanti uno spazio-tempo che ancora va percorso. In queste suole che ci sostengono si sono impresse forme di ciò che calpestiamo e calpesteremo andando a definire un catalogo di esperienze e relazioni che parlano del nostro essere presenti al mondo e di un mondo che ci si appiccica addosso.
Che tracce lasceranno le nostre scarpe, senza le quali non siamo quasi più in grado di camminare? di cosa abbiamo perso la sensibilità affidandoci a supporti sicuri preparati per il nostro benessere? e se tali supporti venissero messi in discussione? se le nostre scarpe diventassero trappole di un camminare non più sicuro? dove ci ha portato l’evoluzione?
Poggiamo ancora su basi sicure?
Certamente no. Tutto attorno a noi rimescola le carte del nostro presente per fare i conti col nostro futuro. E in questo processo la tecnologia non è più fantascienza, non è più esplorazione, è una delle poche certezze cui affidare la propria esistenza: lei che per noi ricorda, che per noi comunica, che per noi vede e giudica.
We are used to thinking of technology as a vehicle to the future. We think of its history and its essence as a progressive emancipation from the state of nature, a departure from matter and its dirt, a staircase that elevates us toward an immaterial, hygienic, dry and neoplatonic tomorrow. But what happen when we stop considering the human subject as a unique source of values? What do we discover by setting aside our human perspective? That technology turns out to be something more undefinable, tortuous, murky and complex, far beyond mechanisms, gears and smartphones.
[Siamo abituati a pensare alla tecnologia come a un veicolo che conduce verso il futuro. Pensiamo alla sua storia e alla sua essenza come a una progressiva emancipazione da uno stato di natura, a un allontanamento dalla materia e dalla sua sporcizia, a una scala che ci eleva verso un domani immateriale, igienico, asciutto e neoplatonico. Ma cosa succede se smettiamo di considerare il soggetto umano quale unica fonte di valori? Cosa scopriamo mettendo da parte la nostra prospettiva umana? Che la tecnologia si rivela qualcosa di più indefinibile, tortuoso, torbido e complesso, ben oltre i meccanismi, gli ingranaggi e gli smartphone. - Trad. dell’autrice]
Luca Trevisani appoggia letteralmente queste parole sul frontespizio di Il pane selvaggio (prima edizione Il Mulino, 1980), un testo che Piero Camporesi dedica alla sottocultura alimentare che nei secoli ha stordito le masse affamate con erbe e miscugli al limite della tossicità, mostrandoci condizioni di vita materiale certamente distanti dalla percezione di natura nostalgica di una tradizione “popolare” quale ci siamo abituati a immaginare e forse più vicini a un immaginario esoterico e salvifico cui oggi il “selvatico” rimanda.
Così come la pagnotta scende a terra per mettersi in relazione al mondo, nuove parole calano sulle pagine di Camporesi in un meta testo. Compare un secondo autore, l’artista Luca Trevisani, che integra, sovrappone, copre e svela operando come un glossatore che con cura aggiorna un testo che necessita di avanzare. E l’operazione più sbalorditiva è la sua pubblicazione e distribuzione (per la casa editrice Nero, Roma, 2023). La cosa stupefacente è che Il Saggiatore, la casa editrice che detiene i diritti dell’opera di Camporesi, accetta e conferisce al secondo autore il supporto su cui operare le sue “revisioni”. Perché in fondo quello di Trevisani è un omaggio che dedica all’autore, così come al testo, non solo a quello di Camporesi ma al testo in sé, alla materia “testo”. L’azione che fa è quella di liberarlo, così come libera il pane dal suo posto a tavola, mostrando di entrambi quell’innata saggezza che risiede nella loro possibilità di evoluzione e ripensamento.
È dunque lecito? possiamo pensare di violare il passato? di disturbare i testi? di calpestare il pane? Il suo a me pare proprio un invito a farlo, a rivolgersi al già detto, al già scritto, al già noto e masticato come a qualcosa che può e forse deve essere continuamente ridiscusso e fatto proprio. Occorre ricalibrare pesi e ingredienti delle teorie assodate per renderle digeribili. Questo è ciò che l’essere umano fa continuamente nel suo percorso “evolutivo”: fare e disfare, adottare e abbandonare.
Mostrare che non si inventa niente, che si lavora a partire dai resti, da fatiche altrui: per Trevisani questo oltraggio è un gesto politico necessario e potente, che esegue con chirurgica gentilezza nella sua capacità di infiltrarsi nell’intermezzo, di disturbare, ma non troppo, di adoperarsi per poetici innesti, un metodo per costruire pratiche intimamente disobbedienti.
È questo forse un modo di guardare al futuro? appoggiarsi al passato per disobbedirvi? guardare alle tracce che il passato ha lasciato per noi per disegnare quelle che noi lasceremo al futuro?
Le orme delle nostre scarpe – ormai non più quelle dei nostri piedi – sono indizi preziosi, sedimenti del suolo che non vengono assorbiti, potenziali fossili futuri che non si accontentano e non si concedono di scomparire e basta, ma restano presenza indigerita del nostro passaggio. Quelle suole che abbiamo inventato per andare ovunque, per esplorare tutto l’esplorabile o quasi… e se non fossero che instabili pagnotte? un abbaglio di tecnologia e progresso? e il progresso fosse solo un grande equivoco? un lascito mal digerito delle religioni del libro? se assumessimo invece la tecnologia come coesistenza di possibilità, tempi, materia?
Pensiamo agli alberi e ai funghi che vivono in simbiosi in quel computer che chiamiamo bosco… (L.T.)