Speciale
Tavoli | Ettore Spalletti
È quasi severo il tavolo di Ettore Spalletti, nella sua pulizia, nella sua essenzialità. (Chi è più abituato all'essenzialità oggi?) Poi scopri che l'essenziale è invece ricchissimo: fogli bianchi, di diverse dimensioni, evidentemente di una certa qualità, due matite, candide, bianche, come pochi hanno avuto modo di usare, un barattolo con forbici e pennelli e, forse, colore, infine la numerazione, quella di un quadro probabilmente, che potrebbe essere proprio quello che l'artista sta per comporre.
Questo tavolo è lo specchio della sua arte, della sua vita, della severità o, meglio, del rigore che ha adottato quando ha scelto di rimanere nel suo paese in Abruzzo ad occuparsi di ciò di cui sentiva urgente occuparsi: la possibilità di raccontare quel luogo, o, meglio, di raccontarsi in quel luogo, di dare spazio al suo sguardo tramite il suo lavoro, di raccontare i colori del suo cielo e la forma delle sue montagne.
Spalletti sembra aver bisogno di così poco per fare così tanto. Poi però scopri qualcosa che destabilizza tanta certezza: tre sedie, due uguali, una diversa. Che sia un invito? La necessità di condividere? Il desiderio di trasmettere? Di certo è un segno d'accoglienza, uno spazio offerto, lo spazio di quel foglio bianco, ma è anche un invito a sedersi e a praticare, un invito all'esercizio, alla traduzione dello sguardo quotidiano sulle cose, al varcare la superficie. Che sia un invito ad addolcire la durezza di questo tavolo di lavoro?
Mi vengono in mente le sue parole di un'intervista recente: L'intimità è l'unica cosa che ti libera e ti rende forte..