Leggere Il barone rampante
Prendo le mosse da un passo che Luigi Meneghello dedica al Barone rampante in Bau-sète! (1984), libro in cui racconta l’effervescenza dei mesi successivi alla fine della guerra, i progetti politici e culturali, la volontà di rifare un po’ il nostro paese:
Ci sembrava ovvio che una nostra letteratura moderna nazionale non c’era. Questa impressione durò vari anni. I pochi libri seri, quello di Carlo Levi sulla Lucania, le lettere di Gramsci prigioniero, pareva che appartenessero in fondo al nostro recente passato […]. Il primo libro di pregio che parve veramente nuovo venne, una dozzina di anni dopo la guerra, era una favola briosa, culta, pungente, un nobiluomo arrampicato sugli alberi. Franco era un po’ seccato. «Ti domando io» mi disse «se è il momento di occuparsi di queste raffinatezze». Ma naturalmente sapeva anche lui che il libro era bello, e serio. (corsivi miei)
La definizione del libro come «favola» mette in primo piano la dimensione fantastica, gli “indicatori aggettivali” ne sottolineano le qualità. Il giudizio di Franco (alias Licisco Magagnato, importante storico dell’arte, amico e coscienza etico-civile di Meneghello), a cui sembra un gioco troppo elegante e ricercato (ma Meneghello sa che anche Franco riconosce dietro la leggerezza della favola serietà e verità) esprime una perplessità avanzata da alcuni lettori alla comparsa del libro (da Cecchi a Asor Rosa).
Il Barone è innanzi tutto il più corposo e romanzesco dei testi calviniani, steso con grande rapidità, fra il 10 dicembre 1956 e il 26 febbraio del 1957, alla cui origine, come per ogni storia che l’autore scrive, c’è un’immagine: «Anche qui avevo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale e cosa gli succede?» (Nota 1960 alla trilogia I nostri antenati). Ed è anche un romanzo di straordinaria fortuna editoriale non solo in Italia (anche grazie all’edizione scolastica del 1965) ma nel mondo (tradotto in 40 lingue, pubblicato in 46 paesi, per un totale di 165 edizioni), così come di altrettanta fortuna critica. A suggerirci una spiegazione di questo successo è lo stesso Calvino: «Perché un libro passi le frontiere bisogna che vi siano delle ragioni di originalità e delle ragioni di universalità». E il Barone è sicuramente un libro «originale», che può essere letto come una parabola universale: un’interrogazione dell’uomo sulla propria esistenza, sui propri limiti, sul tener fede alle convinzioni, sul rapporto con la natura, con gli altri, con l’amore, con la politica, con la Storia. E in più, come ha ricordato Francesca Rubini, lo sfondo storico (illuminismo, rivoluzione francese, guerre napoleoniche, restaurazione) fa riferimento a vicende non solo italiane ma europee, così come appartengono a un canone della letteratura occidentale i generi ai quali Calvino attinge per costruire il suo testo (romanzo d’avventura, romanzo di formazione, romanzo storico, conte philosophique) le letture di Cosimo o i riferimenti espliciti a grandi romanzi europei (Orlando furioso, Robinson Crusoe, Guerra e pace…).
Calvino inizia la composizione a 33 anni nel 1956, completando e pubblicando il libro a 34 anni. Se si fa un confronto d’età con il protagonista Cosimo (nel libro non viene specificato il suo anno di nascita, ma l’incipit recita «Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi» e poco oltre si dirà che ha 12 anni) si può notare che quest’ultimo compie 34 anni il 1789, proprio nell’anno della Rivoluzione francese. «Una coincidenza casuale?» si chiede Mario Barenghi, essendo il 1956 l’anno del rapporto Kruscev, dell’invasione dell’Ungheria, e il 1957 quello in cui Calvino decide di non rinnovare l’iscrizione al PCI? I fatti del 1956 «rendevano ormai pressante il bisogno di un ripensamento che investisse i concetti medesimi di rivolta, associazione, rivoluzione, restaurazione» (Milanini), ripensamento che Calvino tradurrà nella sua favola arborea.
La vicenda è con “rapidità” sunteggiata così dallo stesso autore nella quarta della prima edizione:
È questa la storia del Barone di Rondò che, ragazzo, s’arrampica per una bizza sugli alberi e decide di non scendere più a terra e d’albero in albero caccia, combatte, studia, amoreggia e viene infine rapito da una mongolfiera. L’azione ha per sfondo il tardo Settecento pieno di fermenti storici e culturali, e culmina con la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e la Restaurazione. V’intervengono briganti, pirati barbareschi, gesuiti, framassoni, dame galanti, sanculotti, cosacchi, e, in ultimo, Napoleone stesso.
L’azione si svolge a Ombrosa, un immaginario paese ligure al confine con la Francia, ed è narrata dal fratello minore del protagonista, Biagio, rappresentato in chiave antitetica rispetto al protagonista: così al ribelle, intraprendente, ostinato, anticonformista, innovatore, curioso Cosimo, viene affiancato un pacato, moderato, duttile, ragionevole Biagio.
Il gioco dei contrasti fra qualità opposte si proporrà anche per altri personaggi: ad esempio la passione e la rudezza militare della madre di Cosimo e Biagio, la Generalessa (così battezzata perché figlia di un generale austriaco), si incarnano in una figura esile e determinata, tenera e apprensiva, dedita al cucito e ai ricami; il brigante Gian dei Brughi aspira a una vita tranquilla e casalinga; l’abate Fauchelafleur, l’istitutore dei due giovinetti, ha un nome ben sconveniente per un pedagogo che dovrebbe coltivare, non stroncare i giovani virgulti.
Il libro è suddiviso in 30 capitoli che possono essere raggruppati in tre sezioni di uguale lunghezza. La prima parte è quella più contrassegnata dal tono da «favola, briosa e pungente» (il filone che Vittorini definirà «stevensioniano»). Assistiamo all’iniziazione di Cosimo a una vita indipendente; dopo essere salito sull’elce, fondamentale è l’incontro con Viola, marchesina d’Ondariva. I dialoghi fra i due, le loro reciproche ripicche sono fra le parti più fresche e “leggere” del libro (Viola si libra in aria sull’altalena e sfreccia velocissima sul suo cavallino bianco). Nel capitolo V, dopo la concitazione di una corsa a cavallo, e di una rincorsa di ramo in ramo, Viola e Cosimo arrivano al mare. Il passo è un esempio efficace della scrittura visiva (e uditiva) di Calvino:
Là c'era il mare. Si sentiva rotolare nei sassi. Era scuro. Un rotolio più sferragliante: era il cavallino che correva sprizzando scintille contro i ciottoli. Da un basso pino contorto, mio fratello guardava l'ombra chiara della bambina bionda attraversare la spiaggia. Un'onda appena crestata si levò dal mare nero, s'innalzò rimboccandosi, ecco veniva avanti tutta bianca, si rompeva e l'ombra del cavallo con la ragazzina l'aveva sfiorata a gran carriera e sul pino a Cosimo uno spruzzo bianco d'acqua salata bagnò il viso (corsivi miei).
Il ritmo cambia, diventa più pausato, le frasi si fanno più brevi, la sintassi diventa piana, quasi rarefatta e Calvino crea un gioco cromatico con alternanza di note luminose e di ombre, di bianco e di nero. La figura di Viola è assimilabile alla realtà dell'onda (non a caso fra l’altro il cognome del personaggio è D’Ondariva), entrambe mutevoli; e l’onda che si gonfia, biancheggia e poi si rompe e scompare sembra prefigurare quello che sarà l’andamento dell’amore fra lei e Cosimo.
Cosimo entra poi in contatto con ragazzi, uomini e donne di altre classi sociali (ladri di frutta, carbonai bergamaschi, contadini): persone con le quali non aveva mai avuto prima relazioni: il fratello Biagio, proprio in virtù di questa disponibilità e apertura verso gli altri, lo definirà «solitario che non sfuggiva la gente. Anzi, si sarebbe detto che solo la gente gli stesse a cuore».
Nel corso del libro numerose sono le “formule” utilizzate per riferirsi al protagonista, a dimostrazione di quanto l’identità di Cosimo (e di ognuno) sia il frutto delle percezioni che gli altri hanno di noi. In chiave scherzosa e sbeffeggiante i ladri di frutta lo chiamano «saltimpalo con le ghette», «mangiagelati»; oppure viene percepito come una creatura inquietante o quasi magica («È uomo o animale selvatico? O è il diavolo in persona?»; è uno «spirito folletto» per le donne dei carbonai; «uomo rampicante» per l’amante Zobieda; «una specie d’indiano» per la fidanzata di Biagio). C’è chi ne sottolinea la saggezza, chi la pazzia: per Voltaire è un famoso filosofo che vive sugli alberi come una scimmia, fenomeno vivente creato dalla Ragione; dopo l’episodio della cacciata dei lupi «Nessuno parlava più del barone di Rondò come d’un matto ma tutti come d’uno dei più grandi ingegni e fenomeni del secolo».
Questa prima parte si conclude con il ritrovamento di bassotto, che Cosimo battezzerà Ottimo Massimo. E gli abitanti d’Ombrosa, vedendoli sempre insieme, si riferiranno alla strana coppia definendoli «il ragazzo che vola e il cane che striscia».
Nel secondo blocco di capitoli le vicende raccontate abbracciano un periodo che va dal 1768 al 1780. L’andamento si fa più avventuroso e il passaggio dall’adolescenza alla piena giovinezza è scandito da confronti con personaggi anziani e solitari: lo zio, l’abate, il brigante. La loro frequentazione sarà per Cosimo da «avvertimento di un modo come può diventare l’uomo che separa la sua sorte da quella degli altri, e riuscì a non somigliargli mai». L’incontro con il brigante, al quale procura libri, gli offre anche un modello di lettore (Gian dei Brughi è totalmente assorbito dalle storie, trascura la realtà che lo circonda, non se ne serve per capire il presente e il futuro) da non imitare: quella di Cosimo sarà sempre una lettura reattiva e critica, da cui trarre insegnamenti per poter agire con più consapevolezza e responsabilità.
Cosimo promuove un’associazione di Ombrosotti contro gli incendi, mettendosi a capo della difesa del bosco. Occasione questa di una serie di considerazioni che possono essere lette alla luce della partecipazione di Calvino alla Resistenza, e poi alla vita del PCI:
Capì questo: che le associazioni rendono l’uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone e dànno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto […] Più tardi, Cosimo dovrà capire che quando quel problema comune non c’è più, le associazioni non sono più buone come prima, e val meglio essere un uomo solo e non un capo.
Escono di scena lo zio, il padre, la madre. È, quella della morte della madre, una delle sequenze più delicate e tenere, che si conclude con una bellissima immagine: dopo l’elenco delle distrazioni che Cosimo le procura, pensate con fantasia e grazia, il trapasso della madre è accompagnato dall’impalpabile e iridescente consistenza di una bolla di sapone che si spegne sulle sue labbra. La Generalessa era stata la prima a capire che Cosimo non sarebbe più sceso dagli alberi, a farsene una ragione, partecipando alla sua vita osservandolo da lontano col cannocchiale: immagine di quei genitori che non interferiscono nelle scelte dei figli, sapendosi tenere a distanza. Il barone rampante è infatti un libro che ci parla anche dei rapporti fra le generazioni.
La terza sezione del libro abbraccia 40 anni: i fatti raccontati vanno dal 1780 al 1820: il tono si fa più saggistico, più ricco di riferimenti storici. Alcune vicende risultano piuttosto paradossali e grottesche (sono le parti meno apprezzate dai primi lettori di fiducia di Calvino, Citati ad esempio). Per attenuare quest’effetto l’autore trova come escamotage quello di far raccontare gli episodi più inverosimili dallo stesso Cosimo, a cui Biagio cede la parola.
Questa parte si apre con il ritorno di Viola, da poco vedova, a Ombrosa e con l’appassionata e contrastata storia d’amore che si conclude con la partenza di Viola e una crisi di follia di Cosimo, novello Orlando furioso. Sul versante della vita sociale e politica Cosimo prenderà parte all’attività cospirativa contro il regime assolutistico organizzando una ribellione a Ombrosa, collaborando con l’armata repubblicana; avrà un insoddisfacente colloquio con Napoleone e uno pensoso con il malinconico principe russo Andrej. Deluso e disincantato Cosimo non si arrende al pessimismo, non rinuncia alla sua regola di vita. Ormai vecchio e malato si trasferisce sull’albero al centro del paese e si librerà nell’aria afferrandosi all’ancora di una mongolfiera. L’epigrafe in suo ricordo reciterà «Cosimo Piovasco di Rondò – Visse sugli alberi – Amò sempre la terra – Salì in cielo». Nel finale aperto Biagio prende atto della fine della vita di Cosimo, di Ombrosa, i cui alberi sono caduti a causa della «furia della scure» (una sorta di prefigurazione della speculazione edilizia), dell’esaurirsi della scrittura.
Il saggio Il midollo del leone (1955) raccolto in Una pietra sopra (1980) si chiude con questa frase: «È sempre con curiosità e speranza e meraviglia che il giovane, l’operaio, il contadino che ha preso gusto a leggere aprono un libro nuovo. Sempre così vorremmo che venissero aperti anche i nostri». Il barone rampante è libro da leggersi con «curiosità e speranza e meraviglia».
Perché è un libro estroso, scoppiettante, pieno di trovate, messe in atto da Cosimo, novello Robinson, nella sua isola in cima agli alberi.
Perché è un libro che ci racconta una travolgente storia d’amore e ci ritrae una figura di bambina prima, di giovane donna poi, anticonformista, indipendente (prepotente e capricciosa anche), piena di fascino, “sorella minore” della Pisana, strepitosa protagonista femminile delle Confessioni d’un Italiano di Ippolito Nievo. Perché celebra la potenza del sentimento anche come strumento conoscitivo non solo dell’altro ma anche di sé stessi. Perché affronta il contrasto fra “ragione e sentimento”: Cosimo sarà incline a sottomettere la forza dell’amore alla ragionevolezza, mentre Viola aspira a una passione sbrigliata e senza limiti. Ostinati e orgogliosi entrambi, nessuno dei due arretrerà dalle proprie posizioni. I duetti fra Cosimo e Viola, intervallati dai divertiti o pensosi commenti del narratore, sono squisite pantomime che si concluderanno con la separazione dei due amanti. E dopo la rottura le posizioni si ribalteranno: a essere preda dello sconforto più folle sarà infatti Cosimo.
Perché è un libro che ci immerge nella natura, denuncia ante litteram i pericoli che l’ambiente corre.
Perché ha uno slancio utopico: con una prospettiva non antropocentrica Cosimo stila un «Progetto di Costituzione per Città Repubblicana con dichiarazione dei Diritti degli Uomini e delle Donne, dei Bambini, degli Animali Domestici e Selvatici, compresi Uccelli Pesci e Insetti, e delle Piante sia d’Alto Fusto sia Ortaggi e Erbe».
Perché è un libro che fa pensare, anche grazie al sorriso e all’ironia, quale distanza tenere dalle cose e dagli altri per poterli capire e agire con consapevolezza e partecipazione nella vita sociale e politica.
Testi citati
Mario Barenghi, Cosimo, or ‘Tis 250 Years Since, in «E io non scenderò più». Il barone rampante di Italo Calvino, 1767-2017, a cura di Mario Barenghi, Claudia Della Casa, Laura Di Nicola, Bruno Falcetto, Giacomo Raccis, «Bollettino di italianistica», n.s., a. XVI, n. 1, 2019, pp. 13-22.
Italo Calvino, Il barone rampante e Nota 1960 alla trilogia I nostri antenati, in Romanzi e racconti, vol. I, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori 1994; Il midollo del leone, in Una pietra sopra e Tradurre è il vero modo di leggere un testo, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori 1995.
Luigi Meneghello, Bau-sète!, Rizzoli 1988 (ora anche BUR 2021, a cura di Ernestina Pellegrini)
Claudio Milanini, Genesi e struttura de I nostri antenati, in Italo Calvino narratore, Atti della giornata di studi (19 novembre 2004), a cura di Paolo Grossi, Quaderni dell’Hôtel Galliffet, Istituto Italiano di Cultura, Parigi 2005, pp. 33-57.
Francesca Rubini, Italo Calvino nel mondo. Opere, lingue, paesi (1955-2020), Carocci 2023