Lessico Foucault. Genere

30 Luglio 2024

«Lungo le grandi linee di sviluppo del dispositivo di sessualità a partire dal XIX secolo, assistiamo all’elaborazione dell’idea che esiste qualcos’altro che i corpi, gli organi, le localizzazioni somatiche, le funzioni, i sistemi anatomo-fisiologici, le sensazioni, i piaceri; qualcosa d’altro e di più, qualcosa che ha le sue proprietà intrinseche e le sue leggi proprie: il “sesso”. Così, nel processo d’isterizzazione della donna, il “sesso” è stato definito in tre modi: come ciò che appartiene in comune all’uomo e alla donna; o come ciò che appartiene per eccellenza all’uomo e manca dunque alla donna; o ancora come ciò che da solo costituisce il corpo della donna, subordinandolo interamente alle funzioni di riproduzione e perturbandolo incessantemente con gli effetti di questa stessa funzione».

Così scrive Foucault ne La volontà di sapere, segnalando l’intreccio che crea l’invenzione di qualcosa come il sesso e il ruolo di questa invenzione nei processi biopolitici di costruzione della sessualità finalizzata alla riproduzione. In queste righe emerge anche quanto le linee di potere e sapere che costruiscono il sesso si iscrivano sui corpi e come agiscano in maniera differente per produrre l’intreccio tra il singolo corpo e la popolazione, tra i soggetti e la società. A partire da queste premesse non stupisce che Foucault sia stato frequentemente utilizzato come punto d’appoggio per quelle teorie e quei movimenti che mirano a sovvertire la norma sessuale, ma allo stesso tempo a riconoscere la natura opaca dei soggetti. Femministe, lesbiche, omosessuali, queer, persone trans* hanno trovato in Foucault un alleato per riconoscere le proprie forme di resistenza e per leggere le linee di potere che passano dai e sui propri corpi, ma anche per reinventare eterotopie che rinunciano alla pretesa di un’innocenza a cui tornare, di una vita prima del potere.

Le teorie di Foucault sono state utili ai femminismi nella loro sfida ai paradigmi del sapere occidentale. In particolare, centrale per alcuni femminismi è stata la critica foucaultiana ai modi classici di pensare al soggetto come a un essere razionale e unificato, dotato di un nucleo o di un’essenza fissa, tanto che in Nietzsche, la genealogia e la storia troviamo l’affermazione che «nulla nell’uomo – nemmeno il suo corpo – è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi». Non esiste un corpo “naturale” o un soggetto umano pre-discorsivo ed essenziale che sia, come ci ricorda Fouacult in Sorvegliare e punire, amputato, represso, alterato dal nostro ordine sociale, «ma l'individuo vi è accuratamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi». E spesso questo commento di Foucault sul modo in cui viene prodotta la soggettività ha richiamato alla mente l’ormai celebre frase di Simone de Beauvoir: non si nasce, ma si diventa, donna. 

Nella loro introduzione all’antologia Feminism and Foucault, Irene Diamond e Lee Quinby individuano quattro convergenze tra i progetti teorici di una parte del femminismo e Foucault: identificano il corpo come sito di potere, considerano il potere come situato e orizzontale, enfatizzano la centralità del discorso, criticano il pregiudizio dell’umanesimo occidentale nei confronti del maschile e la sua pretesa di universalità. In queste convergenze diventa centrale il discorso sul sesso come fattore centrale della proliferazione dei meccanismi di disciplina e normalizzazione, al centro di un sistema di «pratiche di divisione» che separano il folle, il delinquente, l’isterica e l’omosessuale. Foucault mette in luce due processi distinti e intrecciati: si tratta dell’«anatomo-politica del corpo umano», che enfatizza un corpo disciplinato e utile (quindi, «corpi docili»), e del modello che chiama «biopolitica della popolazione», in cui l’attenzione dello Stato si rivolge alle capacità riproduttive dei corpi, alla cura, alla nascita e alla mortalità. Il corpo diventa un «campo politico», inscritto e costituito dalle relazioni di potere.

Questo cambiamento del potere rende evidente come uno dei campi privilegiati di azione della biopolitica sia il momento della nascita, inteso come momento di produzione di nuovi individui, di nuove parti della popolazione. Senza la pretesa di affrontare tutte le implicazioni contenute in questa trasformazione, è però interessante notare il silenzio di Foucault sulla specificità dei corpi femminili e dei corpi capaci di portare avanti una gestazione, come sottolinea Angela Putino che, i\n I corpi di mezzo, sottolinea come i corpi delle donne divengano «il punto di applicazione di tecniche che, sospendendo la sessualità e il desiderio a questa legato, utilizzano il sesso femminile nell’ordine della generazione, quale fornitore di materia sia dal punto di vista biologico che da quello giuridico». Una delle caratteristiche principali della biopolitica, infatti, è quella di sovrapporre biologia e legge, di ancorare le norme e la normazione a fondamenti biologici e, in quanto tali, apparentemente incontrovertibili. Il campo nel quale questa sovrapposizione trova il suo compimento più palese è quello della sessualità, che viene assimilata soprattutto come fenomeno riproduttivo e in quanto tale interpretata. La nascita degli individui è letta in chiave biologica come il risultato di un rapporto sessuale tra due persone ed è in questa «connessione sessualità-procreazione, che comportamenti considerati effetto di turbe dell’istinto sessuale diventano fattori di malattia per le generazioni future, e, parimenti, malformazioni organiche e patologie non possono che affiorare in comportamenti devianti» che verranno giudicati non più solo su una base giuridica e morale, ma anche condannati da un punto di vista biologico per il loro mettere in pericolo la società presente e quella futura. La sessualità diviene il banco di prova della biopolitica e viene normata secondo un sistema di riferimento che, ci ricorda ancora Putino, «non è più quello delle discipline dei corpi e quindi dei ruoli sessuali, ma della sessualità come fattore interno alla normazione del vivente come tale, in una nuova prospettiva di salute e di futuro da assicurare alla specie umana».

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La biopolitica assume così il doppio compito di occuparsi dei processi che costituiscono una popolazione e una specie gettando lo sguardo, nello stesso tempo, su ogni singolo vivente, in un continuo rimando dall’universale al particolare e viceversa. La sessualità assume una posizione di privilegio proprio perché è il luogo della connessione tra sapere scientifico e identità personale, tra tecnologia e psiche. E la gravidanza è il momento privilegiato della sessualità biopolitica in quanto momento della creazione di un nuovo individuo, garanzia della continuazione della specie, ma anche di una nuova soggettivazione, che si attua nella trasformazione della donna in madre. Questa trasformazione è il momento della produzione di nuove forme di assoggettamento, con nuove norme e nuovi soggetti, incarnati dalla donna destinata biologicamente a essere madre.

Questa centralità del biologico e dei suoi imperativi fa affiorare fin nelle sue più terribili conseguenze il dispositivo di inclusione ed esclusione che sottende la politica: il vantaggio biologico diventa il criterio per escludere chi non corrisponde alle norme, nascondendo la scelta sotto l’inevitabilità della natura e delle sue leggi implacabili: proprio Angela Putino svela come questa centralità spinga «gli individui a sottostare a un fascino quasi antropologico dell’autenticità». Il discorso sulla maternità è costantemente permeato da questo fascino: da un lato il sapere-potere medico si presenta come il diretto rappresentante della biologia, dall’altro chi cerca di sottrarvisi lo fa proprio in nome di un’autenticità naturale, finendo per schiacciare le donne e i loro corpi tra esami e misurazioni da un lato e istinti e sentimenti spontanei dall’altro, entrambi frutto dello stesso paradigma biopolitico che unisce corpi e menti. La medicina finisce per diventare fondamentale per appagare una domanda di senso, una ricerca di felicità e una gestione dei desideri che diventano parte di questo destino biologico, in cui anche i corpi non sono l’emergere di una dimensione imprevista e inaspettata, ma un dato già avvenuto, inserito in uno schema di funzioni e progetti. 

La creazione di comunità biologiche per Angela Putino è uno dei grandi rischi del femminismo, ma anche «di quelle comuni credenze femminili relative alla affermazione di una propria irriducibile identità di donna». Questa articolazione, questa descrizione di un’autenticità femminile non fa che riprodurre e rinsaldare il potere biopolitico, assistendolo nella costruzione di soggetti che trovano nella biologia la loro realizzazione. Alcune forme di esaltazione del femminile e del materno, quindi, non fanno altro che inserirsi nella scia di sapere-potere dal quale vorrebbero smarcarsi, senza riuscire a uscire dalla gabbia del biologico. Altre sono, invece, le posizioni che «scoprono nel destino del sesso femminile la scelta non voluta, l’incastro temibile e pure da combattere in dispositivi di sapere-potere».

Putino recupera in chiave femminista la nozione di parrhesia; ed è interessante notare come, accanto ai cinici, molto spesso citati, la figura che Foucault identifica come spunto per la definizione della parrhesia sia quella di Creusa nello Ione di Euripide: una donna in una società che esclude sistematicamente le donne e che trova nella sua storia la forza per prendere la parola pubblicamente. 

Creusa, moglie del re di Atene Xuto, era stata da giovane violentata da Apollo, dal quale aveva avuto un figlio che aveva poi, per la vergogna, abbandonato e creduto morto. Apollo, però, in segreto, ha salvato il bambino portandolo a Delfi. Anni dopo, Creusa e Xuto si recano proprio a Delfi per sapere come mai non riescono ad avere figli. Qui Creusa e Ione si incontrano e parlano, ma non si riconoscono. L'oracolo predice a Xuto che la prima persona che incontrerà uscendo dal tempio sarà un suo figlio. All’uscita, Xuto si imbatte in Ione e, credendolo il frutto di una sua avventura passata, lo convince a seguirlo ad Atene per diventare erede al trono. Creusa non solo non accetta la decisione del marito – cercherà di uccidere Ione e solo l’intervento della Pizia spiegherà la vicenda – ma affronta direttamente Apollo, in un discorso che per Foucault diventa un modello di parrhesia. Creusa accusa il dio di aver mantenuto il segreto e di aver abbandonato il figlio e lo fa sapendo di non aver più nulla da perdere. Creusa è una donna e in quanto tale esclusa dalla società e che può trovare un ruolo solo nell’essere madre di un erede per Xuto; quando questa possibilità le sembra sfumata si espone pubblicamente, a partire dalla sua storia e dal suo corpo incapace di generare altri figli, per contestare direttamente la divinità. La forza della parrhesia, perciò, come osserva Putino, sta nella capacità di partire dalla propria storia, dalle cicatrici del proprio corpo e dalla propria vita per mettere in discussione l’esclusione e svelare forme di potere invisibili, ma iscritte nei corpi.

Se il biopotere prende in carico la vita e la sua definizione, la resistenza non può che partire dalla vita stessa e dall’esporsi in prima persona. Putino, infatti, sottolinea che «dal momento che la posta di questa biopolitica è quella condizione che riguarda il vivente nel suo essere spoglio, privo di forma, quasi una pura datità biologica, non è credibile che possano essere morali, diritti e generali forme di civiltà i reali punti di resistenza»: la possibilità di non essere governati in questo modo e a questo prezzo – per dirla con Foucault – passa dalla capacità di ridefinire un’azione politica che sappia partire dai corpi, in quanto terreno di dominio ma anche di sovversione. Putino sottolinea con forza la dimensione plurale dell’azione politica e parla «dei corpi, appunto, e non del corpo che è troppo invaghito di senso e costruito sull’orlo di un’incarnazione che lo trascende» e che, quindi, rischia di riprodurre forme di esclusione.

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Questo recupero critico di Foucault segnala la necessità di portare al centro i corpi sessuati con le loro specificità e, quindi, il concetto di genere. Non è un caso, infatti, che Foucault sia stato spesso accusato di “sorvolare” sulle configurazioni di genere del potere, come se, come sottolinea Judith Butler in Fare e disfare il genere, fosse possibile sostenere che «il potere opera sul genere in modo non dissimile dal modo in cui opera su altre norme sociali e culturali. In un certo senso, il genere è solo uno tra i tanti esempi di operazione regolatrice di potere». Al contrario, per Butler, «l’apparato regolatore che governa il genere è, esso stesso, specificamente “di genere”»: questo non vuol dire che il potere sia costitutivamente di genere, ma che il genere stabilizzi un proprio peculiare regime regolatore e disciplinare.

Inoltre, la scelta di non leggere il genere in maniera differente da altri regimi di potere conduce notoriamente Foucault, come esito estremo ma paradigmatico, a ritenere che lo stupro sia una forma di violenza priva di caratteristiche peculiari. L’opinione di Foucault, espressa durante una tavola rotonda nel 1977, è che «quando si punisce lo stupro, è esclusivamente la violenza fisica che deve essere punita» e che si dovrebbe considerare lo stupro «nient'altro che un’aggressione». Foucault conclude che trattare lo stupro come un reato sessuale significa rafforzare l’apparato di repressione, infondendo al sesso un potere repressivo; quindi, commenta che la sessualità non dovrebbe «in nessun caso essere oggetto di punizione». La risposta di Monique Plaza, e di molte altre femministe è che Foucault stia creando una falsa dicotomia tra violenza e sesso, come se si potesse isolare la dimensione sessuale dalla violenza, lasciando solo la forza come meritevole di sanzione: una distinzione assurda per chi, come Plaza e altre, legge lo stupro come un intreccio di sessualità e potere che trova il suo significato proprio nell’inscindibilità delle due dimensioni. 

Nonostante – o forse proprio per – questo “sorvolo”, Foucault può ancora servire per una diffrazione del e sul genere, offrendo ancora sguardi critici sul rapporto tra identità e azione, tra soggettività e politica. Per Foucault ogni azione politica che metta al centro l’identità – sessuale – costituisce una strategia discutibile, se non illogica, in quanto proietta un’immagine delle identità come essenze piuttosto che come socialmente costruite. L’ipotesi preferita da Foucault è, invece, quella di «desessualizzare» le lotte e di esplorare nuove forme di piacere e di discorso che non si riallaccino al «vincolo» con il proprio sesso. In questo modo si ignora la possibilità, illustrata dalle comunità femministe, queer, lesbiche e gay negli ultimi decenni, che questi due metodi politici possano essere strumenti complementari di impoteramento e attivismo politico, perseguiti contemporaneamente. In particolare, l’idea dell’essenzialismo strategico – riappropriarsi e sovvertire un’identità mantenendo una comprensione della sua continuità storica – è trascurata da Foucault e spesso da parte del dibattito.

Pur riconoscendo l’importanza di forme di essenzialismo strategico e di modi di praticare le identità che illuminano forme di oppressione e resistenza, il pensiero di Foucault può essere utile per ripensare queste teorie e queste pratiche politiche. In particolare uno sguardo foucaultiano può permetterci di ripensare l’intersezionalità – come hanno fatto diverse pensatrici nere a partire da Angela Davis – fuori dal paradigma giuridico nel quale sembra rimanere incastrata. E di criticare gli usi di questa forma di lotta che reificano le identità invece che metterne in discussione le forma di produzione, un processo che rischia di trasformare un paradigma di liberazione in un meccanismo di normalizzazione. Al contrario, pensare l’intersezionalità come un processo di formazione di conoscenza permette di riconoscere come abbia più di una semplice funzione di verità, come spiegazione empirica o interpretativa del modo in cui soggettività complesse siano vissute nel mondo attraverso processi di esclusione e marginalizzazione. L’intersezionalità articola anche una promessa politica per sradicare la possibilità di future esclusioni e produce quindi nuove forme di soggettivazione.

Proprio là dove Foucault ci sembra più lontano dal femminismo, quindi, forse si possono riconoscere degli utili strumenti per ripensare le pratiche politiche a partire da teorie conflittuali, in cui proprio il momento di frizione, di fraintendimento, di distanza permette di creare lo spazio per guardare a se stesse e alle proprie forme di resistenza. Come ci ricorda ancora Putino «occorre forse proporre con pazienza, con lavoro, e con gioia una molteplicità di sensi che sappiano muovere dal nostro essere qui, dalla nostra libertà materiale, dai corpi sessuati», dentro e contro il pensiero foucaultiano.

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TAGGED: Michel Foucalt