Speciale

L'età performativa

22 Dicembre 2015

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Christoph Wulf (1944) insegna Antropologia e Pedagogia presso la Freie Universität di Berlino, dove è anche membro del Centro Interdisciplinare per l’Antropologia Storica, dell’area di ricerca “Kulturen des Performativen” (Culture del performativo), del centro di eccellenza “Languages of Emotions” e del programma di studi “InterArt/Interart Studies”. Wulf ha studiato storia, pedagogia e filosofia alla Freie Universiät di Berlino e ha conseguito il dottorato a Marburgo nel 1973, dove ha anche ottenuto (nel 1975) l’abilitazione accademica. Nello stesso anno fu chiamato alla cattedra di Pedagogia dell’Università di Siegen, prima di rientrare a Berlino nel 1980.

 

Wulf è tra i fondatori e i principali esponenti della scuola berlinese di antropologia storico-culturale, che combina metodologie e temi di ricerca provenienti da diverse aree disciplinari in una prospettiva trans-culturale, ed è uno dei pedagogisti tedeschi più apprezzati e conosciuti nel mondo. I suoi lavori sull’antropologia e la pedagogia antropologica sono noti nella comunità scientifica internazionale come pietre miliari per la ricerca in questi ambiti. In particolare, la sua teoria della “mimesi” e del performativo rappresenta un riferimento imprescindibile negli studi pedagogici e antropologici.

 

Grazie all’importanza dei suoi lavori, ha collaborato con varie commissioni di ricerca tedesche e internazionali ed è stato Visiting Professor – tra le altre – presso le Università di Stanford, Tokyo, Kyoto, Pechino, Nuova Dheli, Parigi, Lille, Strasburgo, Modena, Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Londra e San Pietroburgo. Nel 2008 è stato Vice Presidente della Commissione UNESCO per la Germania. La sterminata bibliografia di Christoph Wulf, nonché ulteriori informazioni sulle sue attività scientifiche, sono rinvenibili sul suo sito web personale (www.christophwulf.de). In questa intervista, Wulf ripercorre il suo percorso nell’antropologia storico-culturale, evidenziando le peculiarità della “scuola berlinese” e toccando le principali categorie a fondamento della sua proposta teorica.

 

 

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Berlino è nota come il luogo di ricerca in cui, tanto alla Humboldt Universität, a partire dalle ricerche di Friedrich Kittler, quanto alla Freie Universität, grazie agli studi da Lei svolti, nuove e importanti “scuole” di ricercatori e accademici hanno iniziato a lavorare su materie innovative, accomunate dal tratto dell’interdisciplinarietà. Queste ricerche hanno dato vita, da un lato, alle cosiddette “Kulturwissenschaften” (alla Humboldt) e, dall’altro, all’antropologia storico-culturale (alla Freie): entrambe queste scuole hanno prodotto importanti risultati in termini di conquiste scientifiche, pubblicazioni, workshop e scambi culturali, e ancora oggi continuano a dimostrarsi estremamente vitali e attrattive per le giovani generazioni di ricercatori. Nella nostra serie di interviste per “doppiozero”, abbiamo già incontrato il prof. Thomas Macho della Humboldt Universität (cfr. intervista di Antonio Lucci), che ci ha parlato delle sue ricerche nel campo delle “Kulturwissenschaften” e della relativa “scuola berlinese”, dei problemi metodologici e teoretici da affrontare e delle loro diverse interpretazioni. Con Lei vorremmo ora approfondire la conoscenza della scuola basata alla Freie Universität e sapere qualcosa in più del Suo tentativo di promuovere una nuova concezione dell’antropologia, mediante la teorizzazione di una “antropologia storico-culturale”, che sembra combinare tra loro due approcci differenti. Cosa implicava per Lei, all’inizio del Suo percorso di ricerca, la combinazione di questi due aggettivi – “storica” e “culturale” – caratterizzanti l’antropologia, e che cosa significa ancora oggi per Lei e per la ricerca attuale?

 

 

Le nostre ricerche antropologiche hanno avuto inizio 10 anni prima della fondazione delle Scienze della Cultura (Kulturwissenschaften) alla Humboldt Universität, con i sostenitori delle quali abbiamo sempre intrattenuto rapporti di amichevole collaborazione. Tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta io e Dieter Kamper abbiamo realizzato un grande progetto trans-disciplinare e trans-culturale chiamato “Logica e passione” (“Logik und Leidenschaft”): al progetto, che era il primo di questo genere in quegli anni, hanno partecipato circa 150 colleghi appartenenti a 25 discipline e provenienti da più di dieci paesi. Al centro vi era la cooperazione con i colleghi francesi e italiani. Il primo tomo della nostra serie in dieci volumi Il ritorno del corpo (Die Wiederkehr des Körpers) divenne una pietra miliare del paradigma corporeo nelle scienze umane; seguirono studi collettivi sull’antropologia dei sensi, sul tempo, sul sacro, sulla bellezza, sull’amore, sull’anima, sul riso e sul silenzio. Nel corso di questi colloqui, realizzati tra Germania, Italia e Francia, nacque l’antropologia storica berlinese. Diversamente dai colleghi della Humboldt Universität, che fondarono un corso di studi, si trattava per noi soprattutto di sviluppare la prospettiva antropologica all’interno delle diverse discipline scientifiche. Perciò, all’inizio degli anni Novanta io e altri colleghi abbiamo fondato la commissione “Antropologia pedagogica” (“Pädagogische Anthropologie”) all’interno della Società tedesca per le Scienze pedagogiche, che sinora ha prodotto – tramite incontri annuali – più di 20 volumi sull’antropologia pedagogica.

 

Nei primi dieci anni ci siamo concentrati sulle ricerche attorno all’antropologia storica dell’Europa. Si trattava di un orientamento contenutistico di fondamentale importanza anche per la commissione “Antropologia pedagogica”. Abbiamo raccolto le nostre ricerche, variamente recepite, in un ampio volume intitolato Logica e passione (Logik und Leidenschaft), comprensivo degli studi più importanti. Quando oggi si parla di antropologia storico-culturale, si intende questo ampliamento concettuale dell’antropologia, che io ho sviluppato non solo in una prospettiva diacronica ma anche sincronica. Ciò è avvenuto dapprima attraverso ampie ricerche nel contesto degli “Studi berlinesi su rituale e gesti” (“Berliner Ritual- und Gestenstudien”), che indagavano i rituali nei quattro ambiti della socializzazione – famiglia, scuola, gruppo di pari, media – e che hanno portato a una riscoperta e a un nuovo apprezzamento dei rituali (cfr. Ritual and Identity, Londra 2010). Con queste ricerche, dalle quali derivarono 20 dissertazioni, fu posta anche la pietra fondante di una etnografia pedagogica, che negli anni a seguire guadagnò sempre più importanza. Dato il loro carattere di lunga periodicità, queste ricerche condotte all’interno di un ambito di studi specialistico ottennero anche una forte attenzione internazionale. Più tardi vi furono collegate altre ricerche sul significato della nascita, sulla felicità familiare e sul significato delle emozioni. Tutte queste ricerche avevano, come tratto comune, l’orientamento etnografico. Sulla scia delle ricerche sull’antropologia (etnografia) storica e culturale sorse il carattere storico-culturale dell’antropologia berlinese.

 

 

Come descriverebbe, in rapporto alla Sua concezione dell’antropologia, il ruolo dell’antropologia filosofica, ossia di quella tradizione eminentemente tedesca, collegata soprattutto ai nomi di Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen? Grazie alle nuove linee di ricerca dischiuse dagli studi etnologici, che hanno portato al tramonto del primato del maschio occidentale bianco (vale a dire europeo) come focus dell’indagine antropologica, sembra che l’antropologia filosofica abbia acquistato una rinnovata importanza, aiutando i ricercatori ad affrontare i problemi metodologici derivanti dal comparativismo. Prima, però, l’antropologia filosofica ha dovuto abbandonare le concezioni essenzialistiche dell’essere umano: che ruolo gioca la riflessione filosofica nella Sua concezione dell’antropologia?

 

Mentre l’antropologia filosofica elaborata dagli autori da Lei citati puntava a conoscere l’uomo, a me interessava soprattutto – nel contesto dell’antropologia storico-culturale che ho sviluppato – la considerazione del particolare, dell’unicità storico-culturale. Nondimeno, la domanda su cosa abbiamo in comune in quanto uomini ha rivestito per me un significato costante. I sostenitori dell’antropologia filosofica hanno tentato di identificare il proprium dell’uomo mediante il confronto con l’animale. In ciò essi erano interessati soprattutto alle differenze rispetto all’animale. Oggi l’interesse verte piuttosto sulla domanda relativa a ciò che noi uomini abbiamo in comune con i primati non-umani e con l’animale. Ciononostante, la differenza tra uomo e animale è ancora oggi importante per la comprensione dell’uomo: diversamente dagli antropologi filosofici, io ho sottolineato il significato della cultura per la genesi dell’uomo. Sono interessato alla varietà storica e culturale degli uomini, all’alterità e al suo significato per il vivere comune degli uomini all’interno di un mondo globalizzato.

 

Mentre gli autori dell’antropologia filosofica hanno tentato di racchiudere l’uomo entro una concezione, io ho visto con chiarezza i limiti di questo tentativo. Esso conduceva necessariamente ad astrazioni e generalizzazioni assai problematiche; di contro, io muovo dalla convinzione che l’uomo non può essere spiegato a partire da uno o più principi, ma che la sua complessità può essere compresa solo nella reciproca compenetrazione di dinamiche differenti. Ciò che l’antropologia storico-culturale richiede è proprio l’indagine di queste dinamiche, le cui ricerche avvengono nella consapevolezza di una doppia storicità e culturalità. L’antropologia storico-culturale sorge, da un lato, mediante la storicità e la culturalità del ricercatore e, dall’altro, attraverso la storicità e la culturalità dei fenomeni indagati e dei nessi sociali. Ritengo che alla doppia storicità e culturalità di soggetto e oggetto spetti un particolare significato nel mondo globalizzato (cfr. Anthropology. A Continental Perspective, Chicago 2013), che permette una considerazione della relatività e della pluralità delle prospettive. Questo pluralismo delle prospettive non può essere cambiato a piacimento: più ancora che ai sostenitori dell’antropologia filosofica, io rinvio alla complessità dell’antropologia, che rende impossibile una conoscenza completa dell’uomo (cfr. Mensch und Kultur, 2010). A mio parere, l’auto-riflessione e la coscienza critica delle possibilità e dei limiti delle ricerche antropologiche rientrano tra i contrassegni fondamentali dell’antropologia.

 

 

Un tema centrale sia nelle “Kulturwissenschaften” che nell’antropologia culturale è il concetto (e l’evento) della morte, la sua simbolizzazione, interpretazione e rappresentazione. Sia Thomas Macho che Byung-Chul Han, il quale pure abbiamo intervistato per “doppiozero” (cfr. intervista di Federica Buongiorno), hanno iniziato le loro carriere accademiche scrivendo su questo tema, che anche Lei ha analizzato negli anni passati. La mia impressione è che, venute meno le preoccupazioni circa una qualche “essenza umana” al centro dell’antropologia, e non risultando più soddisfacenti – dovendo affrontare scientificamente il tema – le risposte provenienti dalla sfera religiosa, l’arduo problema del significato della vita si sia trasformato nell’ancor più arduo problema del significato della morte. La storia di questo concetto è naturalmente antica, ma l’aspetto più interessante è che stiamo oggi assistendo, per lo meno in filosofia (a partire dal paradigma biopolitico foucaultiano) a una nuova comprensione della vita, inestricabilmente connessa alla nozione e alle pratiche della morte – basti pensare al fatto che il modo in cui il bio-potere governa le vite umane è dato essenzialmente dal controllo delle tecniche della morte. Come interpreta questo problema dalla Sua prospettiva?

 

 

Finché l’inconsistenza e la caducità dell’uomo risulteranno insuperabili, la loro indagine costituirà un elemento centrale dell’antropologia. Come dimostra il processo di ominazione, la mortalità dell’uomo è una condizione fondamentale per lo sviluppo dell’homo sapiens sapiens. Per quanto doloroso sia per il singolo, lo sviluppo dell’umanità è possibile solo attraverso la morte dei singoli uomini. La consapevolezza della caducità del nostro corpo è costitutiva per la nostra coscienza temporale e spaziale. Nella consapevolezza della mortalità e nell’indagine delle differenze storiche e culturali correlate alla morte risiede una fondamentale domanda dell’antropologia. Il morire e la morte, tuttavia, non sono solo una sfida rivolta all’individuo, ma hanno anche un risvolto variamente strutturato sul piano collettivo, storico e culturale. È un fatto che il potere sociale sia, in ultima istanza, potere sulla vita umana: ne sono un’espressione importante le intense discussioni sul rapporto con la morte, sull’eutanasia, sulla donazione degli organi e così via (cfr. Anthropologie. Geschichte, Kultur, Philosophie, 2004 [2. ediz. 2009]).

 

Ad ogni modo, accanto alla morte mi affascina anche la nascita. Per questo ho condotto un progetto finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft (Società Tedesca per la Ricerca) volto a indagare i problemi relativi al passaggio dalla coppia alla famiglia attraverso la nascita di un figlio (cfr. Geburt in Familie, Klinik und Medien, 2008; Das Imaginäre der Geburt, München 2008). All’interno di questo progetto, inoltre, abbiamo indagato quali rappresentazioni della nascita sono sviluppate dagli operatori negli ospedali e nelle case natali. Oltre a ciò, ci interessava indagare le pratiche legate alla nascita in queste istituzioni. Infine, abbiamo analizzato quali concettualizzazioni della nascita sono riscontrabili nei numerosi film TV dedicati al tema della nascita. Nel complesso, è derivata un’immagine variegata del significato sociale e culturale della nascita. Correlativamente abbiamo indagato l’immaginario della nascita nella nostra società: anche qui sono fondamentali i riferimenti alla biopolitica. Troverei interessante elaborare uno studio storico-etnografico sul rapporto tra nascita e morte, nel quale si dovrebbe trattare la molteplicità delle differenti rappresentazioni articolate dagli uomini.

 

 

Con Thomas Macho abbiamo discusso il problema del metodo di ricerca da seguire in campi come l’antropologia, l’etnologia e i Cultural Studies, che sono caratterizzati da multi-culturalità e trans-disciplinarietà. In questi campi è difficile fissare dei criteri ai quali riferirsi in modo indubitabile, al fine di evitare le debolezze causate da una metodologia troppo vaga. Lei lavora su una varietà di temi e su uno spettro di discipline differenti, per cui immagino che il metodo da Lei seguito in ogni studio dipenda per lo più dal problema specifico in questione e dagli scopi della ricerca. Ci sono, tuttavia, dei principi o delle procedure che Lei descriverebbe come costanti nel Suo lavoro ed essenziali per il Suo metodo?

 

Diversamente dalla concezione epistemologica del razionalismo critico, che considera il carattere di scientificità come assicurato in quanto si segua un metodo determinato normativamente e scientificamente (vale a dire, il metodo della ricerca quantitativa), l’aspirazione delle scienze umane consiste di norma nello sviluppare l’accesso metodologico in relazione a domande di ricerca e a stati di cose. Nelle mie ricerche giocano dunque un ruolo centrale metodi, procedimenti e orientazioni della scienza storica e letteraria, dell’etnologia e della filosofia. Questioni normative giocano un ruolo importante anche nei metodi delle scienze dello spirito e sociali. Nelle ricerche etnografiche, ad esempio, esse intervengono già nella percezione dei fenomeni. Questo aspetto mi è diventato particolarmente chiaro quando ho lavorato a un progetto tedesco-nipponico, nel quale cooperavano tre team di ricerca, ciascuno composto da un giapponese e da un tedesco. In questo progetto trans-culturale non solo le interpretazioni dei fenomeni differivano dal giapponese al tedesco; già la percezione e la descrizione dei fenomeni presentava differenze culturali. Il modo in cui gestire un progetto trans-culturale comune è una sfida, la cui soluzione mediante ricerche innovative è assai importante all’interno di un mondo globalizzato. Accanto allo sfondo culturale delle diverse interpretazioni e percezioni, si rendono visibili anche differenze nella percezione e nell’interpretazione dei sostenitori delle varie discipline scientifiche. L’ho sperimentato più volte nella nostra area di ricerca specialistica “Culture del performativo” (“Kulturen des Performativen”): in rapporto all’antropologia si potrebbe dire, estremizzando, che l’antropologia storico-culturale indica, più che una disciplina scientifica, delle questioni, dei modi di trattazione e dei metodi e processi dinamici, che possono anche essere sviluppati interculturalmente nella cornice di una o più discipline scientifiche (cfr. Anthropology. A Continental Perspective, Chicago 2013).

 

 

Nel 1996 Lei ha curato un volume sul tema “antropologia e violenza” (cfr. Das zivilisierte Tier. Zur historischen Anthropologie der Gewalt, a cura di M. Wimmer, C. Wulf, B. Dieckmann, Fischer Verlag 1996). La violenza è sempre stata un tema importante in filosofia e negli studi culturali: nel dibattito attuale (almeno a partire dalle analisi di Michel Foucault) la sua relazione con il potere e la vita è diventata un problema centrale per la biopolitica. Potrebbe tratteggiare il significato di questo tema dal Suo punto di vista di antropologo storico-culturale, come anche sul piano della pedagogia antropologica?

 

Già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso ho lavorato alle indagini sulla pace e sul conflitto. Così, nel 1972 ho fondato la Education Commission della International Peace Research Association, tutt’oggi attiva. Attraverso l’elaborazione della sua carta fondativa, in Germania ho contribuito sensibilmente allo sviluppo della “Educazione critica alla pace” (cfr. “Kritische Friedenserziehung”, 1973), che muoveva dalla convinzione che i problemi della pace non sono solo questioni di atteggiamento e di comportamento individuali, ma che essi sono strettamente connessi alle strutture sociali e internazionali e al loro potenziale di violenza. Accanto alla violenza manifesta bisogna considerare anche la violenza strutturale e simbolica, che è importante analizzare, ad esempio, nell’educazione politica e in connessione alla “Global Citizenship Education”. Quando si parla di globalizzazione, bisogna considerare che anche la povertà, l’oppressione, lo sfruttamento e la violenza sono manifestazioni della globalizzazione.

 

Parto dalla convinzione che il futuro dell’umanità sia essenzialmente determinato da tre sfide. Una prima sfida consiste nella violenza nel mondo, nel sistema internazionale e nelle strutture sociali. Al riguardo, il problema non è costituito solo dalle forme della violenza manifesta come guerre, attacchi terroristici e fenomeni simili (sebbene nel mondo vi siano ancora 18.000 bombe atomiche e a idrogeno, con le quali si potrebbe far saltare in aria la terra), ma anche dalle molteplici altre forme quotidiane di violenza strutturale e simbolica. Il fine dell’educazione alla pace consiste nella creazione di una pace positiva, cioè nella riduzione della fame e della povertà e nella creazione di un’eguaglianza sociale, come anche nel lavoro per la realizzazione dei diritti umani. La seconda grande sfida consiste nel rapporto con l’estraneo, con l’alterità. Nel mondo globalizzato, con i suoi enormi flussi di migranti e rifugiati, è di centrale importanza la capacità di rapportarsi pacificamente all’estraneo. In rapporto a ciò, è anche necessario confrontarsi criticamente col proprio egocentrismo, logocentrismo ed etnocentrismo, e sviluppare un pensiero eterogeneo, che muova dall’altro. La terza sfida determinante per il futuro dell’umanità consiste nella sostenibilità e nell’educazione a uno sviluppo sostenibile. Nel settembre 2015 i rappresentanti della comunità statale globale si sono incontrati a New York e hanno indicato 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile come compito per i prossimi anni. Tutte le finalità qui elaborate sono note; tuttavia, per la prima volta esse sono state accettate dall’intera comunità statale. Con questa risoluzione viene abbozzata un’utopia, alla quale sono indirizzate molte speranze. In ultima istanza, tutti questi obiettivi sono rivolti a un rapporto non violento con la natura e con le risorse della terra, come pure con gli altri uomini e con gli altri esseri viventi. Queste tre sfide sono tra loro incrociate: è incerto se e in che misura si riusciranno a raggiungere i progressi sperati. Lo scetticismo di Lyotard contro le grandi “narrazioni” non ha perso nulla della sua attualità.

 

 

Lei ha lavorato anche sul ruolo del corpo e delle facoltà corporee in rapporto alla conoscenza e ai processi cognitivi, sviluppando una teoria della “mimesi” finalizzata a spiegare in che modo il corpo “funziona” all’interno di questi processi e come le attività intellettuali sono fondate nel corpo. La relazione tra corpo e mente (spirito, anima) è un topos della filosofia, eminentemente indagato da Cartesio. In particolare, questo tema ha influenzato la storia della filosofia mediante il cosiddetto problema del “dualismo mente-corpo”. Sebbene lo si possa interpretare come un vecchio problema superato dalle più recenti acquisizioni delle scienze cognitive e delle neuroscienze, le sue ripercussioni sono ancora visibili in alcuni dibattiti nell’ambito della filosofia analitica, per esempio nella controversia tra descrizione in prima o in terza persona. Come spiegherebbe la relazione tra mente e corpo nella prospettiva della Sua teoria della mimesi?

 

Con “mimesi”, ossia con comportamento e agire mimetico, intendo delle forme di imitazione produttiva. Cosa s’intende con ciò? A mio parere, l’apprendimento culturale è essenzialmente apprendimento mimetico (cfr. Mimesis. Art, Culture, Society, Berkeley 1995). Ne do tre esempi: l’apprendimento dell’andatura eretta, del linguaggio e di molti sentimenti (e delle loro forme espressive). Secondo i racconti di missionari nelle Indie sappiamo che i bambini che hanno convissuto assieme ad animali camminano a quattro zampe e non dispongono dell’andatura eretta. Se si osserva un bambino piccolo si resta affascinati da quanta energia egli impieghi nel tentativo di camminare eretto come gli altri membri della sua famiglia. Il bambino vuole appartenere alla famiglia: vuole essere così come sono coloro con i quali vive o che ama. Anche il linguaggio, come ha evidenziato Wittgenstein, viene appreso attraverso giochi attivi e linguistici. I bambini prendono parte alle azioni e al gioco linguistico degli adulti. La molla è costituita dal loro desiderio di rendersi simili a loro. Attraverso la percezione delle azioni degli adulti e la loro partecipazione ad esse, i bambini si assimilano agli adulti, ovvero ai loro fratelli. Così imparano sia ad agire che a parlare. Il desiderio di assomigliare a coloro che amano è espressione del carattere sociale degli uomini: in misura molto maggiore di tutti gli altri primati non-umani, noi siamo esseri sociali che acquistano la gran parte delle loro capacità culturali all’interno di processi sociali. In un progetto da me diretto e finanziato dalla Deutsche Forschungsgemeinschaft abbiamo avuto modo di osservare come già in giovane età vengano appresi ed espressi sentimenti riferiti ad altri uomini. Le precoci interazioni tra madre e figlio hanno qui un significato particolare. Ho potuto mostrare quanto importanti fossero lo sviluppo e il “buon” rapporto con i sentimenti per la crescita e la formazione dell’uomo anche nei miei progetti all’interno del centro d’eccellenza “Languages of Emotions”.

 

Molti processi di apprendimento avvengono in azioni mimetiche. Spesso nei bambini piccoli non è ancora avvenuta la separazione tra soggetto e oggetto, ossia tra bambino e mondo oggettuale: i bambini piccoli percepiscono il mondo magicamente, vale a dire come animato. L’apprendimento mimetico non avviene solo nell’assimilazione agli altri uomini, ma anche – come Walter Benjamin ha così ben mostrato nel suo libro Infanzia berlinese – nell’appropriazione e nell’elaborazione mimetiche di spazi, ambienti e cose. In questi processi il bambino amplia il suo immaginario; assume una riproduzione del mondo e la incorpora. In questi processi l’apprendimento è, in ampia parte, un apprendimento corporeo. Solo gradualmente si sviluppa ciò che chiamiamo spirito, che ha pur sempre un lato corporeo, l’indagine del quale non è tuttavia sufficiente a renderne ragione. Questo apprendimento iniziale è importante per la successiva riuscita di processi sociali e spirituali più complessi. L’importanza dei processi mimetici viene spesso sottovalutata, malgrado sia stata vista già da Platone e Aristotele: quest’ultimo ha definito l’uomo come l’animale più fortemente caratterizzato in senso mimetico. Questa conoscenza è oggi di sostegno alle ricerche sui neuroni-specchio, le quali dimostrano che la percezione di azioni sociali attiva nell’osservatore processi analoghi a quelli dell’esecutore. Anche le ricerche sull’antropologia evolutiva sostengono questa convinzione circa le possibilità mimetiche già disponibili nell’infanzia, che permettono ai bambini – già dopo un paio di mesi – di percepire e comprendere le intenzioni di altri uomini; una facoltà irraggiungibile per qualsiasi primate non-umano. Anche nell’estetica i processi mimetici giocano un ruolo importante per la ricezione dell’arte: il carattere iconico di un’immagine può essere esperito soltanto in processi mimetici e può essere accolto nell’immaginario solo attraverso questo processo. Lo stesso vale per l’ascolto della musica, la cui qualità si dischiude all’ascoltatore solo in un processo di riproduzione o di coproduzione. Anche la danza si apprende praticandola; spiegazioni e descrizioni hanno un carattere puramente ausiliario. Un altro, ampio ambito dell’apprendimento mimetico è costituito dal sapere pratico. Impariamo la maggior parte delle azioni quotidiane – come ad esempio cucinare o guidare la macchina – in modo mimetico. Assumiamo una riproduzione delle pratiche del vivere quotidiano e la incorporiamo. L’apprendimento mimetico si basa sulle capacità dell’immaginazione di scambiare mondo esteriore e mondo interiore. Si può addirittura parlare di mimesi come di una “premonizione”. Per esempio, i movimenti interiori nella “ricerca” di un’immagine si lasciano descrivere prima che essi si manifestino in una immagine mentale come processi energetici di movimenti descrivibili.

 

 

Come antropologo e pedagogista, in che modo affronta – dal punto di vista metodologico e teorico – il problema del comparativismo, vale a dire del confronto fra culture e sistemi di pensiero differenti? I Suoi studi combinano, di norma, temi che attraversano culture diverse, con particolare attenzione per il contesto asiatico. Dove collocherebbe i limiti della comparazione e come descriverebbe il suo apporto alla proficuità degli studi attuali?

 

Dal punto di vista metodologico la comparazione è straordinariamente interessante. Per ottenere delle conoscenze dobbiamo lavorare con le differenze, che ci sono appunto offerte dalla comparazione. Nelle mie ricerche sull’antropologia storica, l’indagine di un nesso storico è servita anche a porre uno specchio dinanzi al nostro tempo. In ciò mi differenzio dagli storici nell’ambito dell’antropologia storica, che sono meno interessati a questa dimensione della conoscenza del presente e di sé attraverso studi storici. Mi riferisco qui alla comparazione diacronica, che è un valido mezzo di conoscenza; la comparazione, tuttavia, gioca un ruolo – in quanto sincronica – anche nei miei lavori antropologico-culturali. Già nella scelta del campo d’indagine, ad esempio nella scelta dei gruppi per delle interviste di gruppo, la comparazione gioca almeno un ruolo implicito: essa offre la base per la scelta secondo cui si prende (o si decide di non prendere) in esame un certo gruppo all’interno del campo di ricerca. Nello studio sulla felicità della famiglia, che ho condotto insieme a molti altri colleghi e colleghe, si dovevano innanzitutto scegliere tre famiglie tedesche e tre giapponesi. Dovevamo trovare famiglie possibilmente diverse e non troppo simili, in modo da non restringere troppo il campo di ricerca. Siccome si trattava di fare una visita nel giorno di Natale o di capodanno, non fu facile trovare famiglie collaborative: quale famiglia è disposta ad ammettere, in simili giorni di festa, degli estranei nella propria intimità?

 

Scopo di questa ricerca non era, in prima battuta, di scoprire cosa i membri di una famiglia reputassero essere la felicità familiare. Piuttosto, volevamo indagare in che modo i membri di una famiglia mettessero in scena il rituale del Natale o del capodanno, per far sì che i suoi membri si sentissero a proprio agio e felici (cfr. Das Glück der Familie, 2011). Nel mettere a fuoco la performatività dei membri della famiglia seguivamo un principio, per cui al centro era posta la prospettiva dell’osservatore, ossia l’osservazione in terza persona. Ogni team nippo-tedesco indagava una famiglia tedesca e una giapponese, al fine di comprendere in che modo in entrambe i membri delle famiglie inscenavano il loro benessere e la loro felicità. A tale scopo, ci concentrammo sulla performatività delle loro azioni e interazioni. In seguito, non abbiamo intrapreso una comparazione né tra le tre famiglie tedesche (o le tre giapponesi) né tra quelle giapponesi e quelle tedesche. Se avessimo voluto farlo, ci saremmo scontrati con notevoli difficoltà metodologiche che, tra le altre, avrebbero implicato anche la diversità delle lingue e delle rappresentazioni della felicità. Perciò, abbiamo optato per un’altra via, comunque implicitamente comparatistica: abbiamo indagato ogni famiglia etnograficamente. Così, abbiamo lasciato discutere i nuclei familiari su cosa significasse per loro la felicità della loro famiglia e su cosa facessero per realizzarla anche in gruppi di discussione al di fuori della nostra prospettiva in terza persona. Abbiamo dunque utilizzato sia le osservazioni nella prospettiva in terza persona, sia gli auto-enunciati dei membri delle famiglie (prospettiva in prima persona), così da elaborare una rappresentazione possibilmente complessa delle messe in scena della felicità familiare in ciascuna famiglia. A partire da ciò abbiamo sviluppato (e anche questo era possibile solo sulla base di una comparazione implicita) le seguenti cinque dimensioni trans-culturali della felicità familiare e della sua messa in scena ed esecuzione:

 

- Pratiche religiose: visita della chiesa da parte della famiglia berlinese da me studiata (canti di Natale, letture ripetute delle storie del Natale in forma modificata, anche a casa in famiglia); visita, da parte della famiglia giapponese, del tempio buddhista e del reliquiario scintoista la mattina presto di capodanno, dopo la visita della tomba di famiglia nel pomeriggio del giorno di San Silvestro.

 

- Pasti comuni: nella famiglia tedesca ci si riunisce attorno al tavolo da pranzo, ciascuno sulla propria sedia, al proprio posto stabilito: si predilige un cibo semplice, per avere tempo per parlare e stare insieme; nella famiglia giapponese, si consuma cibo dispendioso (soprattutto per la festa di capodanno), preparato dalle donne con alimenti particolari e numerosi piatti simbolici, che esprimono l’augurio di una vita lunga e felice. Nelle famiglie visitate, le donne avevano il compito di preparare per la famiglia un cibo che corrispondesse al “gusto familiare” e consumando il quale tutti i membri della famiglia provassero le stesse sensazioni gustative.

 

- Scambio di regali: nella famiglia tedesca visitata da me e dalla mia collega giapponese lo scambio di regali giocava un grande ruolo. Trattandosi di una famiglia composta da sei persone, questo scambio e i dialoghi ad esso connessi occuparono molto tempo. A mio parere, non si trattava tanto del valore materiale dei doni, quanto piuttosto del loro significato per il membro della famiglia e per la famiglia nel suo insieme. Nella famiglia giapponese i regali consistevano semplicemente in piccoli doni in denaro degli adulti ai bambini.

 

- Narrazioni familiari: in entrambe le famiglie giocava un ruolo importante la narrazione di storie familiari tipiche, che contribuiscono essenzialmente alla costituzione dell’identità familiare. Alcune storie venivano perciò raccontate più volte. Nella famiglia giapponese, ad esempio, al centro vi era l’operazione al cuore del nipote, che gli aveva salvato la vita e che era stata già raccontata in questo giorno di festa, in varie forme e ripetutamente, da tutti gli altri membri. Anche nella famiglia tedesca si svolgevano corrispondenti narrazioni, mediante le quali si realizzava l’identità familiare.

 

- Tempo libero: il fatto che in questo giorno di festa vi fosse molto tempo libero non strutturato giocava un ruolo importante in entrambe le famiglie, per il sorgere di interazioni spontanee tra i membri, che caratterizzava il tipo e la qualità della festa. Nella famiglia giapponese le donne giocavano intensamente coi bambini. Nella famiglia tedesca c’era molto spazio per i discorsi familiari individuali e collettivi: ad esempio, si parlava con approvazione del comportamento dei figli verso i loro genitori.

 

Queste cinque dimensioni sono dimensioni trans-culturali, che potevano essere elaborate solo attraverso una comparazione implicita tra le famiglie giapponesi e quelle tedesche. Decisivo è il fatto che ciascuna indagine etnografica restituiva il carattere peculiare di ogni famiglia. Sviluppando le dimensioni trans-culturali fu possibile giungere alla rappresentazione di qualcosa che non solo queste famiglie, ma oltre ad esse anche famiglie appartenenti ad altre culture fanno, allo scopo di rendere felici i loro membri. Sulla base di numerose discussioni avute ad esempio in Cina o in Iran sulle questioni relative alla strutturazione delle feste familiari, mi sono convinto che queste cinque dimensioni giochino un ruolo importante anche nella festa della primavera cinese e nel Nowruz iraniano e perciò possono essere legittimamente definite come trans-culturali. Attraverso questo procedimento operante per comparazione implicita si assicura un’indagine etnografica precisa delle peculiarità di ogni famiglia. Al tempo stesso, però, i risultati vengono tradotti in un nesso trans-culturale: questo procedimento mi sembra essere innovativo per una ricerca interna all’antropologia storico-culturale, nella quale si tratta tanto del particolare quanto dell’universale.

 

 

Una delle categorie più frequentemente applicata in svariati campi di ricerca è quella di “performatività” – una nozione che attraversa anche tutti i Suoi ambiti di ricerca, dall’antropologia alla pedagogia e alla filosofia. Le rivolgo due domande al riguardo: in primo luogo, come descriverebbe (e come valuterebbe) l’effetto della performatività sui processi di soggettivazione? In secondo luogo, in riferimento alla relazione tra performatività e medium/media e alle trasformazioni che stanno modificando le abilità fisico-corporee attraverso l’incorporazione di elementi virtuali e/o digitali (si pensi alle varie forme di comunicazione digitale), in che modo a Suo parere questo trend sta mutando la concezione antropologica dell’essere umano? In altre parole, dove dobbiamo collocare il discrimine tra ciò che è “umano” e ciò che non lo è?

 

Mi sono occupato espressamente delle questioni riguardanti la performatività nel contesto dei miei lavori nell’area di ricerca specialistica “Culture del performativo” (“Kulturen des Performativen”). A mio parere, con questo concetto si riesce a sviluppare un’importante prospettiva nelle scienze umane e in particolare nella ricerca pedagogica. Di che si tratta? Con il concetto di performativo si pone al centro dell’attenzione il significato della messa in scena e dell’esecuzione del sociale. Con ciò, il corpo e i suoi gesti acquistano un significato importante. Sottolineando il performativo, perciò, si riscopre e indaga una dimensione fondamentale per i processi di apprendimento e di formazione: essa ha molto a che fare con il ruolo attivo del bambino, evidente nel fatto che il bambino si appropria attivamente del mondo e non aspetta che il mondo gli venga mostrato e spiegato. Così, l’enfatizzazione del performativo in pedagogia conduce anche a un processo di apprendimento focalizzato sulla capacità propria del bambino.

 

È possibile identificare una serie di importanti principi per lo sviluppo della teoria del performativo. Innanzitutto l’idea di John Austin, secondo cui le parole sono azioni in determinati nessi sociali. Questo è il caso, ad esempio, della coppia di sposi che durante una cerimonia nuziale proferisce il “sì”. La parola “sì” è, allora, un’azione che trasforma il resto della vita. A ragione Judith Butler ha sottolineato il fatto che, quando i bambini vengono chiamati “maschio” o “femmina”, sono con ciò messe in scena ed eseguite, in modo evidentemente performativo, determinate aspettative, che contribuiscono a sviluppare l’identità di genere. Anche le arti, con il loro concetto di “performance”, hanno molto contribuito alla conoscenza secondo cui il comportamento umano non è riducibile al linguaggio e al comportamento e all’agire razionali, ma in tutte le interazioni sociali vengono rappresentati nella peformatività umana degli elementi, il cui significato è stato a lungo misconosciuto. Volgendosi al performativo, dunque, si evidenzia un aspetto al quale ho già accennato nelle mie spiegazioni sulla trasmissione mimetica della cultura. La performativià riveste un significato centrale per l’interazione tra gli uomini: di ogni uomo essa esprime qualcosa che non potrebbe essere espresso in altro modo e che, tuttavia, è di enorme importanza per la sua auto-rappresentazione e per la sua identità (cfr. Die Pädagogik des Performativen, 2007).

 

La performatività gioca un grande ruolo anche nei nuovi media, come dimostrato in modo chiarissimo da alcune indagini che abbiamo svolto. Si tratta, qui, delle forme di una performatività prodotta medialmente: essa può mostrarsi nella forma di immagini e movimenti, che hanno ad esempio un ruolo nei giochi per computer come pure in altre azioni svolte in internet. Mi sembra che la performatività dell’agire umano nei media giunga a rappresentazione in modo differenziato: la sua espressione nei nuovi media è certamente determinata, ma in nessun modo superata, dal carattere mediale.

 

 

Può accennare brevemente ai temi e ai problemi al centro delle Sue ricerche correnti?

 

Se mi domanda di cosa mi sto occupando attualmente, si tratta ancora – come in passato – di alcune questioni antropologiche fondamentali. Dopo aver portato provvisoriamente a termine, nel 2014, i miei annosi lavori sull’immaginazione (cfr. Bilder des Menschen. Imaginäre und performative Grundlagen der Kultur, 2014) e, nel 2016, le mie altrettanto lunghe ricerche sull’alterità (Exploring Alterity in a Globalised World, Routledge 2016 e Begegnungen mit dem Fremden, Münster 2016), da lungo tempo sto lavorando sul significato di altre forme di sapere. Al riguardo ho tenuto, insieme a una mia collega, una serie di conferenze sul tema “Il sapere del corpo” (“Körperwissen”) alla Freie Universität di Berlino (cfr. “Paragrana” 1/2016). Quindi ho organizzato a San Paolo, assieme a un mio amico brasiliano, una più ampia conferenza interdisciplinare e trans-culturale sul tema “Saggezza. Sull’archeologia di un sapere dimenticato” (“Weisheit. Zur Archäologie eines vergessenen Wissens”), i cui risultati sono stati pubblicati in Brasile nel 2016. Inoltre, in occasione di un soggiorno di ricerca presso l’Institute for Advanced Studies della Jawaharlal Neru University, ho avviato e realizzato una conferenza interdisciplinare a Nuova Dheli sul tema “Scientification and Scientism in the Humanities”, nella quale abbiamo indagato i problemi della scientifizzazione del mondo-della-vita e della valutazione sociale del sapere non-scientifico. Con questa conferenza si proseguono le ricerche che nel 2013 ho condotto con una collega presso la Russian State University for the Humanities (RGGU) di Mosca sul significato delle scienze dello spirito per la società (“Paragrana” 2/2015). Al momento sto lavorando anche alla preparazione di una conferenza americano-tedesca all’Università di Stanford (California) nella primavera 2016, in cui analizzeremo il significato della “ripetizione”. Qui giocano un ruolo i miei lavori sulla mimesi, sull’immaginazione e sui rituali, i giochi e i gesti. Infine, assieme ad alcuni colleghi pubblicherò un manuale sul significato del sapere implicito (Schweigendes Wissen, Weinheim 2016), nel quale indagheremo il significato di tale sapere per l’educazione, la formazione e la socializzazione. In conclusione, ricorderei anche un progetto interdisciplinare dal titolo “Rhythmus, Balance, Resonanz”, al quale sto lavorando con colleghi e colleghe provenienti dalla psicoanalisi, dalle scienze della danza e dalla linguistica.

 

 

 

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