Letteratura minuscola
La letteratura minuscola è il titolo dell’ottimo libro di Sara Sorrentino sulle Autobiografie semicolte nel panorama editoriale italiano (Pacini 2023). «In queste pagine», scrive Sorrentino nella premessa, «ho voluto considerare le vite minuscole scritte su quaderni, fogli, brogliacci, registri di corrispondenza, finanche su un lenzuolo, cui è toccata la straordinaria sorte di essere scovati nei cassetti delle credenze e negli scaffali degli archivi e diventare libri. Il saggio nasce dalla volontà di osservare cosa accade nella lingua di una contadina, un contadino, un contadino-pittore (poi pittore-contadino), un minatore, un cantoniere e un ladro, quando questi decidono di scrivere di sé stessi senza un regolare percorso di istruzione alle spalle e cosa accade, ancora, quando i testi prodotti entrano nel mercato editoriale».
I libri presi in esame da Sorrentino sono sei, presentati secondo l’ordine cronologico di stesura: Schiena di vetro di Raul Rossetti (1953: Einaudi 1989), Terra matta di Vincenzo Rabito (1969-1975: Einaudi 2007), Mi richordo anchora di Pietro Ghizzardi (1970-1975: Einaudi 1976), Schola cantorum di Liberale Medici (1978: Live 1989), Gnanca na busia di Clelia Marchi (1984-1985: Fondazione Arnoldo Mondadori 1992; nella seconda edizione intitolato La vita è un sogno, il Saggiatore 2016), Storie di una malavita di Claudio Foschini (1990-1991: Giunti 1993; nella seconda edizione il titolo è In nome del popolo italiano, il Mulino 2013). Sei autobiografie conservate nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano a eccezione di quella di Pietro Ghizzardi, conservata nella Casa Museo Ghizzardi di Boretto. Di queste, la prima a essere pubblicata fu nel 1976 Mi richordo anchora del pittore contadino Pietro Ghizzardi, su fondamentale impulso di Cesare Zavattini, vincendo nel 1977 il premio Viareggio opera prima.
Sono autobiografie che rientrano nell’area dei cosiddetti «scriventi semicolti» e buona parte del libro di Sorrentino è dedicata a una lenticolare e acuta analisi linguistica che fa emergere i rapporti con il dialetto e le lingue del territorio, evidenziando le caratteristiche fonetiche, morfologiche, sintattiche e la straordinaria ricchezza e originalità del lessico.
Uno dei principali riferimenti letterari di Sorrentino è il libro Vies minuscules dello scrittore francese Pierre Michon, pubblicato in Francia da Gallimard nel 1984 e tradotto in Italia per Adelphi da Leopoldo Carra nel 2016 (recensito su «Doppiozero» da Luigi Grazioli ). Un libro diventato presto di culto; «un esordio folgorante» afferma la bandella editoriale italiana, nella «tradizione che risale a Plutarco, a Suetonio, all’agiografia»: «le vite di dieci personaggi non già illustri o esemplari, ma, appunto, minuscoli: e dunque votati all’oblio se non intervenisse a riscattarli una lingua sontuosa, di inusitata e abbagliante bellezza». Una letteratura che si inserisce pertanto nella millenaria scia delle Vite dalla parte degli “ultimi” ma con la coscienza e la scrittura dei “primi”, in una chiara prospettiva iperculturale.
Sorrentino prende invece in considerazione gli “ultimi” (o i “penultimi: le gerarchie possono essere ulteriormente definite e stratificate) nella loro voce originale. Lo spiega chiaramente così: «Se la letteratura ci ha, spesso felicemente, abituati a leggere le parole che illustri autori hanno messo in bocca a coloro che le società di ogni tempo hanno ritenuto gli umili o gli emarginati, questi libri ci mostrano una realtà divergente: gli ultimi, infatti, raccontano le loro esperienze, le loro gioie e i loro dolori, con le loro parole, quelle che gli appartengono o che hanno preso in prestito dalle persone che hanno incontrato. I minuscoli, cioè, con il gesto di “accozzare i venti caratteruzzi” [citazione galileiana] cessano di essere personaggi di romanzi, figuranti di novelle, attori di scenette e diventano, essi stessi, gli autori delle proprie vite e delle loro storie». Sono quindi essi stessi a raccontare le proprie vite minuscole. Sempre che nell’etica creaturale cristiana assunta anche da Manzoni nel Cinque maggio e nei Promessi sposi possa esistere sostanziale differenza tra vite maiuscole e vite minuscole, tra eroi e non eroi, nobiltà e sottoproletariato, istruiti e semicolti, opulenza e «leggera».
Altra distinzione è narrare le vite degli altri o la propria vita. Nell’ambito dei possibili minuscoli distinguere quindi tra le Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia (1993) e la narrazione della propria vita, con tanto di esibita dichiarazione di veridicità. Fornire la propria versione, la propria «confessione», sull’onda dell’ambigua manifestazione di sincerità immortalata dalle Confessioni settecentesche di Jean Jacques Rousseau. Ma in questo caso siamo nel numero degli “illustri”, con tanto di eccellenti prove italiane, a partire dalla cinquecentesca Vita di Benvenuto Cellini, di cui in una celebre pagina della propria battagliera rivista «La Frusta letteraria» (1763-1764) Giuseppe Baretti elogiò lo «scrivere vivo vivissimo e tutto pittoresco»; «noi non abbiamo», sostenne Baretti perentoriamente, «alcun libro nella nostra lingua tanto dilettevole a leggersi quanto la Vita di quel Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo nel puro e pretto parlare della plebe fiorentina». Pubblicata per la prima volta nel 1728, la Vita maledetta dell’orafo, scultore, soldato e scrittore inaugurò la fortuna delle autobiografie del Settecento, dalla Vita di Vico a quelle di Casanova e di Alfieri, introducendo l’ingannevole mito della “sincerità” letteraria così decisivo dal Romanticismo in poi. Anche, naturalmente, per queste autobiografie minuscole promosse con decisione nella stagione neorealistica soprattutto dall’estro favolistico di Zavattini, autore del formidabile Parliamo tanto di me (1931).
Il vulcanico Zavattini, maestro di un neorealismo tanto veristico quanto magico, pensava a un’indagine sull’Italia contemporanea per una collana che avrebbe dovuto chiamarsi «Italia mia», «mista di fotografie e di didascalie come quanti soldi ha in tasca quest’uomo che passa per la piazza, dove sta andando, cosa vuole, cosa mangia»; e approda a quel libro straordinario che è Un paese (1955), firmato con il fotografo americano Paul Strand. L’intento condiviso è quello «di fare un libro insieme, nel quale le immagini e il testo nascessero dalla medesima necessità». Nella prospettiva di un neorealismo che per Zavattini è «raccontare la tua giornata, di te che sei un operaio, ti guardo, ti studio, mi ci vuole tanto per capire e descrivere la tua giornata, in ogni caso impiego del tempo, vedo attentamente come vive una persona – e pensa se dopo tutto questo lavoro io non ti chiamo Antonio, ma ti chiamo Paolo e metto un altro al tuo posto; il neorealismo non mette nessuno al posto di un altro» (Straparole, «Il fotografo Strand», 13 aprile 1953). Le fotografie in bianco e nero di Strand, precedenti alle didascalie di Zavattini, ritraggono persone, famiglie, ambienti, negozi e mercati, case coloniche, attrezzi, biciclette, campi coltivati e golene, il fiume Po; sono nel concreto la rappresentazione di un eroismo quotidiano, sociale e padano, di autentiche vite minuscole che rinviano anche a Walker Evans, all’Antologia di Spoon River di Masters, a Furore di Steinbeck (lo sfondo di Ladri di biciclette è comunque sempre ben presente). E ai paesi della Bassa Padana, sulla riva destra del Po, lungo quella successione di comuni della provincia di Reggio Emilia che include Brescello, Boretto, Gualtieri, Guastalla e infine la Luzzara di Zavattini.
È in questo contesto, qualche decina di chilometri più a nord lungo il corso del Po, nell’area di Cremona, che nasce un altro libro fondamentale, portando il discorso dalla terza alla prima persona, anche se in una chiave ancora prevalente di oralità trascritta. Il libro è Autobiografie della leggera di Danilo Montaldi (1961), che raccoglie dalla voce di «vagabondi, ex carcerati, ladri, prostitute» il racconto della propria vita. Operazione ripetuta e variata dieci anni più tardi con le voci dei Militanti politici di base (1971). Una ricerca politica e sociologica sui minuscoli che diventa alta e coinvolgente letteratura.
Per la Letteratura minuscola di Sorrentino il libro di Montaldi è un punto di svolta, poiché la «nascita dell’interesse editoriale nei confronti dell’espressione letteraria degli irregolari si colloca all’altezza del 1961 quando, per Einaudi, uscì Autobiografie della leggera». Con la consueta prontezza e lucidità Pier Paolo Pasolini lo segnalò su «Vie nuove» il 15 e il 22 marzo 1962, sottolineando la presenza di «passi di poesia memorabile» e il «fenomeno molto nuovo: una vera e propria rivoluzione stilistica», sia che le autobiografie «siano assegnabili a una cultura popolare pura, oppure a una cultura semicolta». E ribadisce: «si tratta, insomma, di creare un genere, sconosciuto alla cultura popolare: vagamente prefigurato dalla cultura borghese. Sono quindi “autobiografie parlate”? Non direi mica. Qui il registratore non mi pare che c’entri. Qui il parlante-scrivente mi pare che abbia piena coscienza di quel qualcosa di speciale, che è la “rievocazione della propria vita”».
In questa fertile ottica si porranno sul piano creativo anche Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni, da Comiche (1971) e Le avventure di Guizzardi (1973) a Vite brevi di idioti (1994); e nell’articolo L’angelo del racconto («La domenica» del «Manifesto», 30-31 ottobre 1988) Celati afferma che Autobiografie della leggera è «tra i libri di narrativa più importanti del Novecento italiano».
L’autobiografia Mi richordo anchora di Pietro Ghizzardi uscì nel luglio 1976 per le cure di Zavattini, Giovanni Negri e Gustavo Marchesi. Ghizzardi era emerso da alcuni anni come pittore naïf, seguendo la fortuna del successo di Antonio Ligabue; da questo momento egli associa il proprio nome anche alla fortunata esperienza di scrittore autobiografico, seguito con interesse dalla critica militante e pure da quella accademica.
A quarant’anni dall’esordio Sorrentino lo studia e valorizza nell’ambito della rinnovata e affermata letteratura minuscola, senza dubbio rafforzata dalle iniziative dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Nel confronto anche con significativi esempi in volume quali Vite sbobinate. Primitivi estrosi e trasognati in Valpadana di Alfredo Gianolio (2002, 2007, 2013) e Ogni altra vita. Storie di italiani non illustri di Paolo Di Stefano (2015).
E tra i non illustri, anche per la graffiante laconicità, credo non possano mancare i minuscoli di Longanesi. Stavolta emblematicamente ritratti in terza persona: «Vissero infelici perché costava meno».