Libellule nella rete
Libellule nella rete di Loretta B. Angiori, pubblicato da Zona42, è un romanzo di fantascienza denso di idee e di stimoli, ma un po’ meno di avventura (che rimane sullo sfondo). Premessa doverosa: per molti la trama è insignificante, per altri è l’unica cosa che conta e per chi scrive questo pezzo, cioè un libraio che paga le bollette vendendo storie, l’avventura è uno dei più importanti motori della narrazione, più che la trama in sé e per sé. Ma suggerisco da subito a ogni eventuale lettore di riporre gli astratti furori nel taschino, perché ci sono romanzi bellissimi in cui succede poco o niente e romanzi bruttissimi in cui succedono un sacco di cose. Inquadrando invece Libellule nella rete in un genere, per quel che conta quest’esercizio (e sempre più mi convinco che conti poco), si potrebbe parlare di una narrazione che oscilla tra due estremi, il solar-punk e la distopia. Distopia che è diventata la narrazione ufficiale dei nostri anni, insieme al catastrofismo: siamo pieni di narrazioni post-apocalittiche, in tutte le salse e possibilità espressive e in tutti i medium. Un debordante pessimismo che sembra testimoniare una paura diffusa per una catastrofe imminente non meglio identificata, oscillante tra guerra, ambiente ed epidemie, e che si è quasi realizzata, per la gioia dei complottisti, nella combinazione covid più vaccino. Paura generalizzata, dicevo, di cui potremmo individuare il simbolico punto di partenza, il momento in cui la paranoia è stata definitivamente sdoganata dall’underground alla cultura di massa. L’undici settembre del 2001 crollano le due torri di New York, abbattute da aerei di linea dirottati da al Quaeda oppure abbattute ad arte dagli stessi americani, come vuole la letteratura del complotto, che da quel momento ha tracimato ed è diventata il nuovo mainstream. Da lì in poi tutto è catastrofe e impanicamento. Paura del terrorismo, paura del migrante, paura per l’ambiente, paura della paura, una transizione accelerata verso uno stato di allarme permanente e forme alternative di energia per la nostra anima. Non c’è più notizia se non vi è disgrazia, iattura, devastazione. Persino nello sport gli atleti non vincono più le partite, ma distruggono gli avversari. Come gli zombi di The walking dead ci aggiriamo per il deserto post-umano; mangiamo metaforicamente i cervelli altrui per spremerne ansia ed evacuiamo altra ansia autodistruttiva profetizzando l’imminente sciagura che si sta per abbattere sull’occidente, reo di incarnare tutte le colpe dell’umanità, massimo esempio di nequizia, padre padrone da abbattere nel nome della giustizia, dell’uguaglianza e dello strato di paranoia che ci avvolge e senza il quale, forse, molti di noi non saprebbero più come vivere.
All’opposto troviamo il solar-punk, che si pone come movimento culturale di ampio respiro, non solo letterario, ma utopistico-politico, in risposta al catastrofismo dominante e modaiolo. Narrazioni quindi di un possibile futuro in un’ottica anti-capitalista, inclusiva, ambientalista. Arrivano così, nel XXI secolo, romanzi e racconti speranzosi e ottimisti, che indicano la via per futuri non inficiati da disgrazie cosmiche, epidemie, guerre eccetera. Il solar-punk come risposta per chi si è stufato di questo menù di disgrazie e vorrebbe cambiare dieta senza rinunciare al sense of wonder. Una fantascienza consapevole, traboccante di idee e di buone intenzioni, sempre lì lì per diventare (purtroppo) noiosa, come la buona vecchia letteratura utopistica d’un tempo. Il rischio del pedagogismo e del moralismo è sempre dietro l’angolo, come accade quando parliamo con qualcuno che crede di saperla più lunga di noi. Una sensazione spiacevole, ma altrettanto spiacevole è la noia da catastrofismo a tutti i costi. Alla fin fine, quindi, a prescindere dalle classificazioni, a parlare dovrebbero essere sempre e soltanto le opere. Penso ad esempio a Un salmo per il robot di Becky Chambers (Urania n. 1722), pubblicato in Italia nel gennaio del 2024. Un romanzo etichettato in verità cosypunk, nuovissimo sottogenere, anch’esso venato di sentimenti speranzosi, la cui differenza con il solar-punk è, ma forse mi sbaglio, la mancanza di una forte componente ideologica, il che, tra l’altro, non è necessariamente un male. Un salmo per il robot è un pertinente esempio di romanzo ecologista e ottimista, che riesce a intrattenere pur senza coinvolgere il lettore in guerre interstellari, catastrofi globali eccetera. E ci racconta la storia dell’amicizia tra un monaco del tè e un robot autocosciente in un mondo pacificato (dopo la solita catastrofe, va detto), in cui l’umanità ha ridotto al minimo il suo impatto, senza rinunciare in toto alla tecnologia, ma non ha ancora capito una cosa, che scopriremo nel finale (se la volete scoprire pure voi, leggetelo, male non fa).
Libellule nella rete si muove quindi tra questi due estremi, il distopico e l’ottimista. Da una parte abbiamo la città, dove vive Rei la microinfluencer, che campa permettendosi qualche sfizio con i crediti guadagnati con il suo lavoretto (al resto ci pensa lo Stato), dall’altra parte c’è Piana di Urlele, e Chiara, che vive al di là della civiltà, o almeno ci prova, insieme ai suoi compagni. A Rei e ai suoi concittadini non manca niente, all’apparenza. Dopo una catastrofe (che non manca nemmeno in questo romanzo) la società si è riorganizzata in direzione ecosostenibile e ultra-internettiana. I bisogni sono stati soddisfatti per tutti, ma in cambio tutti vivono iperconnessi in un sistema in cui spegnere il telefono e rimanere off line è un’attività sconveniente se non sospetta. In pratica è il mondo di oggi, solo un pochino più grottesco del nostro, e ricorda un episodio di Black Mirror, “Caduta libera” (“Nosedive”).
A proposito, da quando nelle ultime stagioni Charlie Brooker e i suoi sodali hanno inserito all’interno della serie qualche puntata con un finale un po’ meno agghiacciante del solito e le atmosfere si sono in alcuni casi leggermente ammorbidite, ho avuto l’impressione che il pubblico sui social abbia cominciato a rumoreggiare, come se gli autori avessero perso lo smalto e si fossero venduti al sistema, qualunque cosa ciò significhi. Un buon indizio di come il catastrofismo da cui siamo partiti sia diventato un meme per un pubblico che si crede colto o giusto sol perché preferisce le cose che finiscono male. Tornando al romanzo, la controparte della società super pervasiva è la comunità indipendente di Chiara. Non sono attivisti integralisti odia-mondo e hanno deciso di mantenere le distanze senza rifiutare la scienza e la tecnica. Sono pacificati, equilibrati e non vivono sempre e solo sui social, ma immersi nella natura insieme ai mer, deliziosi robottini cingolati che hanno tutta l’aria di aver fatto il salto ed esser diventati autocoscienti.
Peccato che questi Ewok cibernetici abbiano poco spazio nel romanzo, sarebbe interessante se l’autrice prima o poi volesse tornarci su a raccontare la loro storia e il loro rapporto con gli umani. Umani che sono tenuti sotto osservazione dalle autorità, sempre in attesa di un pretesto per mandare tutto all’aria e chiudere queste comunità di fricchettoni che non vogliono vivere secondo le regole. Ma se in campagna i droni della polizia svolazzano minacciosi, in città non ce la passiamo meglio. Le persone, per sfogarsi in un mondo in cui tutto è scoperto e visibile, hanno bisogno di stanze segrete, a pagamento, in cui con identità fittizie possono scatenarsi su reti private e dire tutto quello che pensano. Una vita sovraesposta è una vera vita? Cosa rappresentiamo, con i nostri avatar on line?
Siamo inoltre davvero coscienti che se un demonietto riuscisse a far saltare il tappo, internet potrebbe traboccare di tutte le mail spiacevoli che abbiamo scritto o che abbiamo ricevuto, dei filmati porno che abbiamo visto o di cui siamo stati protagonisti e vittime, delle foto, degli insulti, degli scherzi, delle minacce proferite o delle minacce che abbiamo ricevuto, delle promesse vane e dei tradimenti, delle parole più selvagge e più segrete di cui ci siamo pentiti o di cui non ci siamo mai pentiti? Questo è quello che succede in Libellule nella rete, in un mondo iperconnesso in cui all’apparenza siamo già trasparenti, l’inconscio diventa conscio, il guanto si rovescia come nel teletrasporto di Seth Brundle e vediamo davvero tutto quello che si cela dentro; roba poco piacevole, per lo più.
Ovviamente, dopo questo attentato elettronico, la reazione delle autorità coinvolgerà sia i “pericolosi” abitanti della comune sia la nostra Rei, che è stata in contatto con uno dei sospetti. Libellule nella rete non diventa però un tecno-thriller eco-terrorista, la narrazione procede sempre allo stesso ritmo, con una freddezza che è stata notata anche da altri recensori e che crea l’effetto straniante di assistere come a una specie di esperimento sociale in forma di romanzo e che ci porta verso un mondo diverso, migliore del nostro (secondo me), e a cui il mondo apocalittico tutto “like”, narcisismo e controllo totale potrebbe reagire come un animale che si sente in pericolo.