L’ultimo anello della catena, una storia di mala accoglienza
Con un astrobalzo nello spazio-tempo che la commissione per il pansessualismo, l’ambiguità e il diritto d’asilo e d’adozione ha finanziato tassando le scommesse del contribuente patito di videopoker e corse dei cavalli, stamattina ho raggiunto il nostro pianeta gemello, la buona, vecchia Terra 2, per la precisione l’inclito reame di Cicilia. Avrei dovuto trascorrervi un periodo di studi sul campo dedicati alle società autolesioniste, ma giunto a destinazione mi sono accorto di aver dimenticato i documenti dall’altro lato del multiverso e la polizia di frontiera mi ha subito spedito in un centro per l’accoglienza degli extraterrestri non autorizzati.
“Lasciate ogni speranza”, recitava il cartello all’entrata del centro di accoglienza. Ma poi un addetto fornito di ramazza e paletta mi ha detto che quello era il nome della cooperativa e che non dovevo preoccuparmi.
“Fatti i fatti tuoi e tutto filerà liscio”.
“Grazie, amico”, gli ho risposto; e quello a sentire la parola “amico” è scoppiato in lacrime e mi ha raccontato la storia della sua vita.
“Aspetta un attimo, tu non sei l’uomo delle pulizie?”, gli ho chiesto qualche minuto dopo, interrompendo quel fiume in piena.
“No, io sono lo psicologo, anzi… pissicoloco, come mi chiamano qui”.
“Ma hai la scopa, non capisco”.
“Non capisci”.
“Certo che non capisco. Se sei un cacasentenze laureato perché fai le pulizie?”
“Ho anche master e specializzazione, se è per questo. Il fatto è che lo psicologo è necessario per legge, ma gli fanno pulire i cessi per evitare di assumere altro personale. Si tratta di coprire ruoli formali: un educatore, uno psicologo, un mediatore. Ma l’educatore non ha alcuna esperienza…”, e indica una signora di circa quarantacinque anni che sfoggia un tacco quindici leopardato. Alle nove del mattino. “Il mediatore culturale, poi, faceva il pizzaiolo, ma siccome è straniero lo hanno preso sperando che si facesse capire da voi. È simpatico, in effetti”.
“Simpatico. Ma non c’era gente più… specializzata?”
“La fila c’è, di gente specializzata. Ma non conviene”.
“Non conviene”.
“Se prendi gente specializzata poi quelli vogliono lavorare. Per questo i laureati non sono ben visti, perché possono creare problemi”.
“Ma scusa, chi sono allora quei signori che ho visto all’entrata? Quelli che fumavano?”
“E stai fermo, con quella mano. Uno è u ziu e l’altro è… l’altro è l’altro. Non lo nominare nemmeno, non lo devi guardare proprio”.
“Uzzìu?”
“Minchia, ho detto ‘non indicare’. Sì, sì, ‘lo zio’. Quello che lui dice, tu lo fai senza discutere. Qui comandano quelli che…”, e fa un gesto con un pollice: sulla sua faccia, dall’alto in basso. Come a sfregiarsela. Forse è un tic nervoso, non saprei. “Vedi, da noi ci sono due realtà, una è scritta nelle carte, nella legge, nei regolamenti. L’altra è dettata dal più forte, che non è il presidente della cooperativa, perché il presidente della cooperativa è impalpabile. Un fantasma”.
“Ma almeno ti pagano bene?”
“Finora non mi hanno mai pagato, in verità”.
“E da quanto lavori?”
“Otto mesi. E pensa, non mi hanno nemmeno assegnato un ufficio, un computer, una scrivania, una penna e un foglio di carta, niente di niente. Però a tutti gli effetti legali sono lo psicologo. Se c’è un problema la responsabilità è anche mia. Dell’uomo delle pulizie, cioè”.
“Ma il capo è lo zio, in pratica è lui il presidente, giusto?”, insisto.
“Tecnicamente sarebbe un volontario”.
“Un volontario… come te, insomma”.
“Ma sei scemo? Io con una raccomandazione l’ho trovato, il posto. Ho regolare contratto. È stato un politico a fare il mio nome. Gli dovevano un favore, lui doveva un favore a mio cugino e mi hanno chiamato. Vedi, in Cicilia il personale viene assunto senza che un annuncio di lavoro salti fuori né sui giornali né su internet. Il curriculum non serve a niente. La selezione avviene nelle segrete stanze di chi tutto sa e tutto può. Capisci? No, mi sa che non capisci. E come potresti, sei un extraterrestre, che ne sai della civiltà. I posti di lavoro veri, quelli che hanno lo stipendio, sono tutti secretati. Sono merce di scambio”.
“Ancora con ‘sto stipendio… non ti offendere, ma mi hai detto che non ti hanno mai pagato. Non ce l’hai un avvocato?”
“Sì, certo. Ma se mi rivolgessi al mio avvocato mi brucerei e nessuno vorrà mai più saperne di me. In secondo luogo è inutile perché questi dichiarerebbero fallimento, per riaprire subito dopo, e i soldi non li vedrei mai. Non ci vuole granché a passare da una cooperativa all’altra. Basta una seduta spiritica per nominare un altro fantasma e si può ricominciare come se niente fosse”.
“E quindi la morale è che continui a lavorare anche se non ti pagano”.
“Sì. Almeno cresco professionalmente. Imparo qualcosa. Poi non si sa mai, oggi domani…”
“Turi, unni sii… Turi? Tiscraziato…”, urla qualcuno alle nostre spalle.
“Ora scusami, devo andare a pulire il bagno dei volontari, altrimenti…”, e mi fa un altro gesto con il pollice, ma stavolta sotto il collo, muovendo la mano da sinistra a destra. Un altro tic nervoso.
La cassata siciliana, Rosa Lombardo.
Il giovane Turi si allontana, con un’aria un po’ mesta, e mi guardo intorno. A parte lui, ciò che mi ha colpito fin dal primo momento, del rubicondo personale della Lasciate ogni speranza, è l’incapacità di parlare le lingue, itagliano compreso. Evidentemente in Cicilia non hanno inventato né il traduttore universale né la scuola dell’obbligo.
È uno spettacolo fuori del comune vedere queste signore permanentate e tacco-munite o questi omaccioni in canotta e ciabatte che hanno tutta l’aria di essersi trovati lì per caso. Essi dovrebbero comunicare con i profughi, profughi che non di rado conoscono l’inglese, il francese e il galattico standard e che imparerebbero pure l’itagliano e il ciciliano, se qualcuno glieli insegnasse. Ma si può insegnare qualcosa che non conosciamo? No che non si può.
Gli inservienti in tacco quindici o canotta e ciabatte ciancicano un idioletto composto da poche parole e urlano da mattina a sera. Sperano che il tono di voce sia di aiuto alla comprensione e alla fine, stremati, ricorrono ai gesti, ai versi, alle espressioni del viso, rinsaldando le fede nella comune matrice dell’umanità. Se voi lo conosceste come ho imparato a conoscerlo nei miei altri viaggi su Terra 2, vi direi che sembra di essere in un film di Totò che non fa ridere come i film di Totò.
Più tardi un tizio con la sigaretta stretta tra le labbra e la maglietta che stenta a coprire il pancione si avvicina e mi consegna un forma di pane, talmente duro che potresti usarlo per spaccare una vetrina.
“Hai fatto merenda? Bonu è”, mi fa. “Mancia, mancia!”, e mi guarda come se stessi rifiutando un pranzo gratis nel migliore ristorante del mondo. Do un morso a quel blocchetto di marmo, rischio di perdere un dente e mi metto in fila. Aspetto il mio turno e arrivo davanti a un altro tizio, vestito con le braccia tatuate e una maglietta violacea con il colletto rialzato, che tiene una pompa sgocciolante sopra un bugliolo. Ha appena finito di riempirlo, mi sa, e mi fa cenno come di sbrigarmi.
Mi chino, mi porge un mestolo e mentre tiro su una sorsata d’acqua qualcuno mi tocca il sedere e mi infila una banconota nella tasca. Quando mi rialzo lo zio mi sta facendo l’occhiolino.
Mi allontano e vado a cercare il mio amico pissicoloco.
“Ti conviene fare buon viso a cattivo gioco”, consiglia Turi poco dopo, sfumacchiando da una sigaretta. Dal colore dei suoi denti, direi che è la centesima della giornata.
“Stai dicendo che c’è un giro di…”
“Alt! Non aggiungere una sillaba, io di giri e giretti non so niente. Ci tengo al mio posto di lavoro”.
“Ancora con questo posto di lavoro. Ma non ti senti complice?”
“Complice… che c’entra. Questa è sopravvivenza. Se non appartieni a qualcuno, non lavori. Non sopravvivi. E io non appartengo a nessuno. Sono come… come voi. L’unica cosa che ho imparato è che conviene obbedire e sperare che prima o poi mi paghino”.
“Prima o poi. Se lo dici tu”.
“Te l’ho già detto. Sono figlio di nessuno. Questo mi tocca e questo mi prendo. Se ti abitui non è nemmeno faticoso. A parte pulire i cessi, non vogliono che io faccia altro. La sensazione, se vuoi proprio saperlo, è che il vero lavoro con voi profughi sia destinato a chi verrà dopo di noi, in qualche altro centro dove presto o tardi vi smisteremo senza aver fatto un cazzo. Tanto ci finanzia l’Europa, noi intanto pigliamoci un altro caffè e facciamo pulire il bagno a questo benedetto pissicoloco o all’educatore o al mediatore. Così facciamo qualcosa invece di rompere le palle con progetti, colloqui e con tutte quelle cose complicate che abbiamo studiato e che non servono a niente”.
“Ma non possiamo chiedere aiuto a qualcuno? Alla polizia?”
“Ma sei scemo? Lo vedi quello? Quello, quello lì, che ti avevo detto che era meglio non vederlo?”
“Lo devo vedere o non lo devo vedere?”
“Lo devi vedere ma senza darlo a vedere”.
“E perché?”
“Perché ha un distintivo. Perché anche gli amici degli amici hanno i loro amici. Te la stai facendo un’idea di come vanno le cose qui da noi?”
“Qualcosina. Le cose non vanno avanti, rotolano. Lavorate risparmiando su tutto e tutti fino all’ultimo centesimo. E perciò via con il pane duro, tanto a noi profughi ci piace lo stesso. E perciò un bicchiere solo o, a esser precisi, una scodella sola per centinaia di persone e poco importa se rischiamo di prenderci qualche malattia. E perciò niente lezioni di itagliano, se qui da voi nessuno lo parla e siete venuti su così bene, a che potrà mai servire ai profughi?”
“E perciò, infine”, conclude Turi, ispirato, “niente tutori legali che spieghino a voi straccioni i vostri diritti. Potreste montarvi la testa e questo non va bene. L’importante, l’importante è raggiungere l’obiettivo”.
“Ma l’obiettivo qual è?”
“Turati il naso. Tappati la bocca. Copriti le orecchie. E adesso ci cantiamo l’un altro fino al rincoglionimento totale la canzone del sole e del mare e dell’eccellenza che cancellano i mali del mondo. Ci siamo?”
“Ci siamo. Il turismo è bello, è la speranza della Cicilia, l’ho letto sui vostri giornali”.
“Bravo, leggi i giornali. Ma se leggi i giornali allora me lo sai dire perché continuiamo a sentire quel suono, in sottofondo?”
“Quel… suono?”
“Come di marranzano. Quel suono lì, antico e invincibile, sempre uguale a se stesso. Un suono come di marranzano”.
“Aspetta, lo… sì, ci sono, lo sento anch’io”.
“Bravo. È ovunque, lo puoi sentire ovunque ci siano soldi”.
“Un suono di marranzano, sì, lo sento. Una vibrazione mistica e sensuale che mi imprigiona a te!”
“Non a me, ragazzo dello spazio. Non a me. Chi stiamo aiutando davvero con tutto questo inutile sbattimento? I profughi? Li stiamo aiutando quando diamo loro da mangiare pane duro? Li stiamo aiutando quando li facciamo bere in una ciotola come animali? Quando non insegniamo la lingua? Quando non spendiamo qualche euro nemmeno per comprare una cartina geografica da appendere al muro per far vedere dove sono arrivati? Li aiutiamo quando assumiamo per compiti così delicati personale privo di qualsiasi competenza e nemmeno tanto velatamente razzista? Che regole ha questo gioco? E se invece di continuare a pensarci come i buoni, fossimo solo l’ultimo anello di una catena di miseria, sventura e sfruttamento che parte molto lontano da qui?”
Untitled n. 5, Lin Xue.
Il mio giovane, logorroico amico butta la cicca per terra e guarda l’orologio.
“Stanno arrivando le ONG, è tempo di fare ammuina”.
E per un po’ il centro di accoglienza Lasciate ogni speranza si accende di attività forsennate. Giochi per i più piccoli; torneo di bigliardino interetnico tra personale e ospiti più cresciuti; foto di gruppo con dirigente panciuto che ci regala il gagliardetto di una squadra di calcio; lezioni improvvisate di lingua e cultura; distribuzione di finte pillole di tachipirina (in realtà mentine) confidando nell’effetto placebo; finta prenotazione per un colloquio con lo psicologo che non avverrà mai per il semplice motivo che lo psicologo al limite ti può ricevere mentre pulisce i cessi.
La squadra di ispettori e ispettrici inviate dalle ONG prende appunti con estrema diligenza. Vorrebbero parlare con qualcuno di noi, ma c’è sempre lo zio che orbita attorno con una scusa o l’altra e non se ne fa niente.
Un’ora dopo è tutto finito. Le ONG se ne vanno e con loro va via anche il personale, compreso il mio amico Turi.
Lo saluto da lontano.
“Buona fortuna”, mi dice.
“Buona fortuna a te”.
“Io la mia l’ho esaurita da un pezzo”, conclude. “Tutta la mia generazione l’ha esaurita. Mi sa”.
È tarda sera.
Il sole tramonta. La notte in agguato.
Lo zio mi fa di nuovo l’occhiolino e mi fa segno di raggiungerlo in bagno. Che tipo di segno, non lo scriverò qui.
Il tizio che non posso nominare entra in una macchina con un’enorme antenna sul tetto, fa partire un pezzo neomelodico a tutto volume e se ne va sgasando sulla provinciale.
Una delegazione di compaesani ha appena intimato al presidente della cooperativa, il fantasma, che se i profughi dovessero “inquietare i fimmini” del paesello saranno costretti a prendere le loro giuste contromisure.
Il fantasma li saluta e ricomincia a giocare al solitario sul desktop, salvo accorgersi che è ora di tornare a casa.
Almeno un terzo dei profughi attorno a me ha la febbre, vomita, ha mal di pancia, altri malesseri non meglio specificati. Qualcuno sembra messo molto male. Altri non hanno niente, ma vogliono la mamma, che però è morta da qualche parte, a migliaia di chilometri da qui. Sono poco più che bambini. E hanno paura di quello che accade durante la notte. Ma quello che accade di notte non me lo vogliono dire.
Una ragazza mi dice invece che da grande farà la puttana e sta aspettando che la vengano a prendere.
Poi c’è una grande luce, un lampo, per fortuna mi hanno già ritrovato e con un altro astrobalzo torno indietro su Terra 1. Torno indietro nel migliore dei mondi possibili.
Mi chiedo che senso abbia svendere l’anima per un lavoro. Mi chiedo un sacco di cose. Ma faccio spallucce e me ne vado a dormire. In fondo a noi che ce ne frega? Per fortuna, come scrivevo su, viviamo nel migliore dei mondi possibili.