Galleria Lia Rumma, Milano / Marzia Migliora, Forza Lavoro

18 Marzo 2016

Da anni, ormai, la Galleria Lia Rumma, segue con attenzione il lavoro di Marzia Migliora, artista piemontese la cui ricerca indaga – attraverso una pluralità di linguaggi, dall'installazione alla fotografia, dal video alla performance – i temi fondamentali della natura umana, quali desiderio, intimità, memoria, perdita e ossessione, nel tentativo inesausto di portare alla luce la natura delle relazioni tra l'individuo, gli spazi entro cui si muove, l'attualità e la storia. 

 

Anche in questo caso, la personale dedicata a Forza Lavoro – un progetto interamente pensato intorno a nuove produzioni (2015-2016) – si snoda lungo i tre piani luminosi dell'edificio di via Stilicone a Milano (una vecchia fabbrica riqualificata), prendendo le mosse da un evento traumatico per la città di Torino, l'incendio doloso al Palazzo del Lavoro, progettato da Pier Luigi Nervi in collaborazione con Gio Ponti, come padiglione espositivo in occasione del centenario dell'Unità d'Italia, e pensato funzionalmente per accogliere l'esposizione internazionale del lavoro, celebrativa del progresso e del rapidissimo sviluppo industriale. 

In disuso dagli anni Settanta, ancora oggi in stato d'abbandono, è destinato ad accogliere un centro commerciale di lusso. 

 

 

Ma prima, appena prima di una radicale, estranea metamorfosi, ecco che l'artista interviene, ne attraversa lo spazio, celebrandone l'essere-nel-mondo, richiamandosi ad un agire manifesto, collettivo, plurale, che ri-definisce la condizione umana e la memoria di questa storica architettura, come un omaggio, un addio sottovoce, per restituirle, almeno in parte, il proprio fascino. Seguendo le tracce di ciò che resta del fuoco, a partire dalla tabula rasa di cenere e polveri di un luogo che è in prima istanza simbolico, l'artista riflette su un tema più che mai attuale e costituzionale, ancora oggi una ferita aperta, e procede dalla crescita economica e dall'incremento della produzione industriale del Paese a ricostruire la storia dell'edificio, la sua biografia, il ritratto intimo di una wasted land dimenticata, eppure testimone di un'epoca, come estremo tentativo – gesto d'amore irripetibile – di conservazione e cura di un bene che appartiene a tutti. 

 

Ad accogliere lo spettatore all'ingresso, la grande installazione a terra dal titolo L'ideazione di un sistema resistente è atto creativo, che cita il testo più celebre di Nervi e descrive l'intento artistico di MM. Ad un primo sguardo, appare come una misteriosa decorazione, una 'greca', ma è in realtà concepita come rappresentazione speculare del soppalco dell'edificio, mettendone in evidenza il gioco di linee-forza; realizzata interamente con mattonelle di carbone, materia prima fondamentale per la produzione di energia, e al contempo causa di innumerevoli morti bianche, introduce lo spettatore ad un progetto che restituisce letteralmente corpo all'architettura e allo spazio che abita.

 

Restando sempre entro una dimensione simbolica, fedele alla poetica del frammento, e nuovamente a partire dal carbone, nerissimo, dalle scorie, dai resti della sua combustione, dal respiro che raccoglie finissime polveri, l'artista produce una serie di sette monocromi che si alternano alle fotografie che interagiscono con lo spazio della galleria che apre sulla terrazza. 

 

Il pensiero corre subito ai monocromi più materici di Burri (e le sue 'opere al nero') e Klein, che pure usarono (certo, con intenti ed esiti molto diversi) fuoco e combustione come strumenti di produzione artistica. 

Impossibile percepirne la differenza da lontano; da vicino l'unicità delle opere è resa dalla combinazione aleatoria di sottili depositi, polveri scure sedimentate, resti di lavorazione dei materiali, scarti di manodopera e composti organici dannosi, impercettibili eppure presenza permanente nel quotidiano, Così, "impastati in maniera pittorica" emerge il pulviscolo in superficie, per offrire una visualizzazione concreta e tangibile della loro presenza. 

 

 

Allo stesso modo, con reperti industriali, sono incorniciate le cinque fotografie della serie In the Country of Last Things, immagini sospese, sfocate, non definite degli ampi spazi dismessi, abitati solo da residui e materiali dimenticati (legni, vetri, metalli): scelta estetica determinata sia dal tipo di camera obscura – dispositivi stenopeici realizzati a bassissimo costo, anch'essi con i residui del luogo –, il cui utilizzo produce immagini poco nitide, dovute sia ai tempi lunghi di esposizione, sia, di nuovo, dalla volontà di rendere natura simbolica del loro significato, paesaggi creati da una sedimentazione stratificata di esistenze e passaggi. 

 

Il percorso si conclude con un breve (5'32''), ultimo saluto, il video Vita Activa; il cui titolo è un aperto richiamo alla tradizione filosofica occidentale (versus Vita Contemplativa) ed esplicita citazione della filosofia politica di Hannah Arendt.

Vita activa è il termine con cui la filosofa si propone «di designare tre fondamentali attività umane: l'attività lavorativa, l'operare e l'agire» i cui rapporti si modificano storicamente e, al contempo, procede nel «compito spiacevole» di formulare una critica a Karl Marx, che, essenzialmente, identifica il lavoro con l'opera, concepita come risultato di «Arbeitskraft», quel sovrappiù di 'forza lavoro' umana, che spiega, appunto, il valore produttivo del lavoro, causa prima della sua 'elevazione' in età moderna, ciò che distingue l'uomo dagli animali, e si fa espressione della sua umanità.

 

Il lavoro, la cui caratteristica è quella di 'non lasciar nulla dietro di sé', definisce è la condizione stessa della vita, ne ricalca il ciclo naturale, effimero, infinitamente ripetitivo, ma non per questo automatico, che corrisponde allo «sviluppo biologico del corpo umano» (crescita, metabolismo e decadimento finale). 

In quest'opera o atto creativo che dà nuova forma al mondo, il violoncellista Francesco Dillon interagisce con l'ambiente, improvvisando – come espressione dell' agire libero e imprevedibile «in modo differente dall'atteso», capace così di dare vita al nuovo – suoni a partire dal Requiem in Re minore (K. 626) di Mozart per interpretare musicalmente l'ambiente (che risuona e viene suonato ad un tempo) nell'interazione con vetri rotti, lamiere percosse, detriti abbandonati graffiati e battuti, mentre lo sguardo della camera si muove negli spazi, indugiando sulla materia e perdendosi infine nella fuga prospettica dell'architettura. 

 

Dida per le immagini dell'allestimento: 

Marzia Migliora, 'Forza Lavoro' Galleria Lia Rumma, Milano-febbraio-marzo 2016

installation view

photocredit Pepe fotografia

©Marzia Migliora

Courtesy Galleria Lia Rumma Milano/Napoli

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