Metodo e invenzione / Bruno Munari. Codice ovvio

7 Ottobre 2017

Codice ovvio è una raccolta di materiali di Bruno Munari che si spogliano via via della loro singolarità e frammentarietà nel tempo, per comporre l’immagine del lavoro compiuto dal loro autore in questi anni. O, almeno, due linee fondamentali di tale lavoro: il rigore e la semplicità, che è poi fantasia, presa diretta di un qualcosa tanto chiaro, immediato, palpabile ed evidente da risultare ovvio, e tale deliberatamente, volutamente, non senza ironia e un pizzico di evidenza didattica. Appunto un codice, con le sue regole, i suoi meccanismi, le sperimentazioni che gli son proprie: ma un codice che vuole giungere a un esito ovvio. Si osservi con attenzione il teorema che apre il libro, e che ne vuole costituire anche una chiave di lettura: che non è ironica, ma di serenità, di lievità di contegno, di equilibrio (Munari ama citare una espressione Zen: «Il riso è la manifestazione esterna di un equilibrio interiore»; e ricorda che se in greco technè è sinonimo di arte, il suo omologo in giapponese, asobi, è arte, ma anche gioco. E il cerchio, sempre sul filo delle citazioni promosse da Munari, si chiude su Valéry: «La più grande libertà nasce dal più grande rigore»). L’ironia, il gioco di Munari hanno una funzione precisa, che spiace chiamare pedagogica per la seriosità implicita nel termine, e che è forse meglio dire di richiamo a un equilibrio raggiunto e posseduto. 

 

Codice ovvio, dunque, non è la giustapposizione, più o meno capziosa e «giocata», di termini antitetici, perché l’antitesi si scioglie presto, a una lettura appena più attenta: e chi abbia visto le pagine finali di questo libro, L’equilibrio degli opposti, saprà subito individuare il succo della contrapposizione. La quale si può risolvere così: il rigore della ricerca di Munari tende a semplificare al massimo l’oggetto da lui progettato fino a proporlo (altri dirà: a comunicarlo) nel modo più chiaro, diretto e facile. 

Se si vuole è un poco come togliere la buccia, o le bucce, per raggiungere un nocciolo di invenzione-comunicazione in piena assenza di disturbi, deformazioni e di qualunque alone di improbabilità o di misteriosa emanazione. Sono le bucce, o le sovrastrutture, che hanno il sapore di vestiti del regale personaggio di Andersen, tanto di fatto inesistenti quanto fissamente, pervicacemente «visti» dai suoi sudditi. Il re, insomma, è nudo: oppure, il codice è ovvio.

 

L’antitesi del titolo è polemica, naturalmente: non vuole essere una affermazione di tautologia, non vuol dire che il mondo è il mondo, una pera è una pera, e via dicendo. Ogni cosa, in tanto è una cosa, in quanto è un modo, un atteggiamento con cui ci pone a fronte ad essa, a noi stessi e agli altri. Tante volte s’è ripetuto per Munari il termine gioco, eppure gioco non è: proprio perché quel modo, quell’atteggiamento sono un risultato, l’esito di un lavoro preciso, puntiglioso, esatto; perché le regole non sono per nulla nascoste, o sublimate, ma, al contrario, presenti, esplicite, dichiarate. Il libro, dunque, narra questa duplice avventura e il suo diventare un fatto unico: il rigore, la ricerca, l’esattezza, la fantasia, il movimento inventivo, la irrequietezza fabbrile.

 

Ma le due componenti, di metodo e di invenzione o eccitazione fantastica, sono poi la stessa presenza, simultaneamente: anzi si può aggiungere che l’intenzione inventiva si fa presenza effettiva in quanto è metodo, in quanto si stilizza nella massima semplicità, e non solo formale, di comunicazione. Col che Munari ha posto una sua soluzione al problema che contrappone la posizione di chi fa l’opera e di chi la riceve, dell’attivo e del passivo: nell’esatto esito vi è una complementarità degli opposti, sicché l’oggetto ricevuto e reale è risultato in se stesso e insieme stimolo a virtualità immaginativa, non più nebulosamente generica bensì metodicamente chiarita, capace di stimolazioni recepibili, di un uso spontaneo ed economico e aperto a tutte le possibilità di sviluppo, col massimo di intensità possibile. Da questo punto di vista, la sequenza delle soluzioni proposte mostrerà chiaramente, a chi sfogli il libro, che Munari è un artista anomalo. Le sue sono costruzioni, e alle costruzioni razionali di tutta una porzione dell’esperienza delle arti visive contemporanea richiamano la memoria. Ma buona parte di quelle costruzioni volevano essere uno schema intellettuale, prima di tutto, rigoroso, capace di raccogliere e di chiudere nei propri confini la più ampia fetta di realtà in termini o emblematici o statistici. Mentre lo scopo che Munari si prefigge non ha remore e residui mentali o preoccupazioni intellettuali, e la sua metodologia mira a organizzare in modo rigoroso le possibilità e le evenienze fenomenologiche, indirizzandole là dove la irrequietezza percettiva indica una polarità sensibile, un canale di sviluppo e attrazione. La rottura con uno schema di comportamento consueto ha posto, fin dall’inizio praticamente, il problema di Munari: pittore o designer? artista o stilista? (Non che il secondo polo di questo falso dilemma non comprenda il primo, che il designer non sia artista, sempre che un simile termine abbia un qualche senso e non sia semanticamente svuotato: ma giova qui riprendere la terminologia corrente al fine di spiegare, appunto, il falso dilemma). Queste domande son poi quelle che hanno pesato sulla comprensione più profonda del lavoro di Munari, proprio quella che si spera di riproporre alla considerazione con il presente libro.

 

La spezzatura fra artista e designer, in sostanza, e lasciando da parte le più equivoche remore estetiche e idealistiche, può esser riassunta alla buona così: in ambedue i casi siamo di fronte a un progetto, a una volontà che si chiarisce grazie a considerazioni diversamente concrete: en artiste con la più ampia libertà immaginativa e intellettuale, e quindi operativa; nel caso del designer, con il massimo condizionamento di situazioni di produzione e di consumo. Anche narrate così, le cose hanno una estrema equivocità, e mostrano, da questo punto di vista, l’irrilevanza della opposizione. Il punto è un altro: in qualche misura l’artista stacca il suo prodotto dal flusso fenomenologico o fisico o psicologico, collocandolo in opposizione ad esso sia come rispecchiamento, come definizione culturale o quale si preferisca. Munari, al contrario, resta in quel flusso, lo chiarisce nella sua dimensione specifica, nella sua qualità di conoscenza e di riconoscibilità, e la definisce e intensifica in quanto tale: che è poi anche una pedagogia visiva. Se ciò è vero, è anche evidente ciò che si intenderà per tecnica, o restando al titolo del nostro libro, per codice: quella metodologia operativa che determina i processi visuali, e in connessione ad essi gli altri procedimenti, che libera e tien desta la creatività nei suoi oggetti concreti e, ciò che più ci interessa, non è propria di nessun «genere» di per sé, in quanto è trasferibile là dove le esigenze di determinazione effettiva e di elaborazione lo richiedono.

 

Si pensi anche solo, a questo punto, alla cronistoria della pittura «astratta» in Italia, con tutte le sue varianti: ebbene l’oggettivazione delle ragioni di metodo che essa ha in modi diversi condotto innanzi implicava anche l’oggettivazione del «genere» pittura, reso come fatto specifico. Il gioco, il gratuito, come formula critica tante volte ripetuta, nasce da questo collocarsi fuori di un contesto abituale di Munari, che ha il suo piccolo trionfo con le Macchine inutili, esposte a partire dal 1933, e poi riprese a più riprese, anche nel secondo dopoguerra. Come è stato osservato in un recente saggi, la «funzionalità della macchina si accompagna alla gratuità del gioco e alla libertà del contemplare»; in altri termini, la gratuità, o l’inutilità stanno a indicare una condizione di comportamento, che è gratuita perché non finalizzata in funzione coercitiva pratica e in una non meno coercitiva funzione di politica intellettuale, e quindi libera di penetrare una volontà formativa, con tutto il rigore necessario. Prima ancora che da una concettualizzazione qualsiasi il lavoro di Munari parte da una constatazione reale: per usare l’affermazione stessa dell’autore, lo squilibrio fra «un mondo falso in cui vivere materialmente e un mondo ideale in cui rifugiarci moralmente». La coerenza fra questi opposti, senza alcun preconcetto stilistico o mentale o psicologico o formale: ecco il punto; vincere quel preconcetto, già costituito prima che vi siano determinate le condizioni d’uso, di necessità, di fattualità. Che significa poi ritrovare il giusto senso della «economia» nel 

 

suo contesto più completo. Nel volume Arte come Mestiere, raccogliendo una serie di articoli comparsi su un quotidiano milanese, Munari osservava: «Progettando senza alcun preconcetto stilistico o formale, tendendo alla naturalezza nella formazione delle cose, si ottiene un prodotto essenziale: il che vuol dire usare le materie più adatte negli spessori esatti, ridurre al minimo i tempi di lavorazione, fondere assieme più funzioni in un solo elemento, risolvere gli attacchi con semplicità, usare meno materie che sia possibile in uno stesso oggetto, fare in modo che non occorrano finiture particolari, risolvere le eventuali scritte già nello stampo, prevedere una eventuale riduzione di ingombro per l’immagazzinaggio e il montaggio automatico dell’oggetto, sfruttando, se possibile, la forza di gravità, considerare che un oggetto appeso costa meno che uno appoggiato; e tanti altri accorgimenti che un progettista allenato trova e risolve durante la progettazione». Il problema si pone dunque come coerenza fra le varie funzioni effettivamente in atto, realmente necessarie, e come equidistanza fra le parti stesse. Si pensi, e fin dall’inizio, fin dai primi «oggetti», dalla macchina aerea con cui si apre questo libro, alla questione natura-macchina, naturale-artificiale: ebbene l’operazione di Munari è di una disincantata disponibilità di entrambi i termini ad essere sentiti e usati ogni qual volta si renda necessario.

 


Non sono state riprodotte in questo volume alcune delle ricerche iniziali, lungo i primi anni Trenta; allorché, sulla falsariga dei fotogrammi sperimentati da Man Ray a Moholy-Nagy, Munari allestì una suite fotografica il cui tema sembra essere il mutamento e il cangiamento delle forme, e quindi la loro metamorfosi. Tale metamorfosi è studiata e vista sulla trama di analogie tra meccanico e organico, che interferiscono e agiscono liberamente tra loro, evitando ogni elemento di contrasto fra quei due «mondi», e evitando, anche, i motivi surrealistici, cari a quell’epoca e anche in seguito, di stupore, straniamento e frustrazione o irritazioni da parte della macchina di fronte alla natura, o viceversa, che ne derivano. Tutto ciò porta a comprendere un’altra serie di esperienze, e queste presenti a chi sfogli il volume. Ci si riferisce al superamento dell’opposizione fondo-oggetto, concavo-convesso, positivo-negativo. L’origine di questa serie sgranata nel tempo è con ogni probabilità un quadro del 1935 come Anche la cornice: come indica il titolo è inglobato nell’opera lo «spazio» aggiuntivo della cornice.

 

Ebbene Munari rompe il rapporto gerarchico, oggetto/cornice, come più avanti quelli tra fondo e figura, concavo/convesso, positivo/negativo, rapporto che è di opposizione radicale e di tensione di contrasto. Lo scopo di tale contrasto, privilegiando una parte e allontanando l’altra, era quella di sottrarne alla fluidità fenomenica la parte ritenuta più importante: con la conseguenza di un irrigidimento del tutto e di un senso di fuori dal tempo e, in fondo, dallo spazio. L’equiparazione agisce come un’animazione di spessori e di tensioni non più opposte, ma diverse, contigue, che vi rimandano, implicano, alterano in irrequietezza, come fossero la stessa cosa vista da punti diversi. Una molteplicità mantenuta come tale, salvandone la pluralità, e restituendola alla varietà e virtualità che le son proprie: potrebbe essere questa la sigla continua con cui proporre l’intero arco del lavoro di Munari. Codice ovvio fissa alcuni dei momenti fondamentali di questo arco, dal 1930 ad oggi: ma non è una «mostra personale», né un repertorio. Vuole esser proprio un racconto, nel tempo prima di tutto, come sviluppo, che sarà opportuno definire storico; e all’interno o in prossimità di ciascuna esperienza. Si spiega in tal modo perché accanto alle illustrazioni vere e proprie, stiano testi o disegni: i quali intendono mostrare entro quale spazio matura e si sviluppa, anche di «genere» in «genere», e proprio facendo saltare queste barriere, in estensione, l’ideazione e la realizzazione.

 

Il libro è nato con estrema semplicità: dalla constatazione che, fra tante monografie, volumi panoramici e riassuntivi, proprio di Munari e su Munari mancava una informazione dettagliata e in qualche modo precisa. Al che va aggiunto che, proprio per la loro destinazione a una grande diffusione, gli oggetti di Munari implicano anche la più grande dispersione: né i musei nostrani raccolgono questa e consimile produzione, sicché la documentazione è scarsa, lacunosa e sembra confermare al gran pubblico quel pregiudizio estetico che contrappone, con gli equivoci cui s’è fatto cenno, artista o designer anche grazie a questa fantomaticità dei materiali del secondo. Stando così le cose, però, era proprio la monografia, o il repertorio, che si voleva non fare, per non immobilizzare bloccandolo in un libro, un movimento inventivo e un rigore di metodo così liberi come quelli di Munari. Il quale, con pazienza, ha accettato di narrare sé stesso, qualche volta postillan dosi, talora commentando, o traendo dai cassetti testi o illustrazioni disperse, come quei Teoremi, poesie-aforismi, di un estremo interesse. Non tutto il materiale ha trovato posto nella raccolta: un certo numero di applicazioni di nuovi materiali a livello industriale, per fare un esempio, è stato escluso, non perché se ne sottovaluti l’importanza, ma perché ciascuno implica un tipo di spiegazione delle caratteristiche costruttive e di realizzazione che fuoriesce dai limiti che era indispensabile porsi.

 

Né d’altro canto, la metodologia è in questi casi taciuta, perché situazioni analoghe si trovano in altre proposte, illustrate invece nel libro. Analoga esclusione, e diversa motivazione, hanno i dipinti iniziali di Munari, fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta. Diversi di questi sono andati perduti o sono dispersi, pur conservandosene una documentazione fotografica (se ne possono citare i titoli Costruire, 1926, Sosta aerea esposta nel 1931, Infinito Verticale del 1932, L’avventura su cielo rosa, 1932). Gli inizi di Munari sono legati al cosiddetto «secondo futurismo», cioè alla ripresa di interessi, temi e soluzioni di tipo futurista in un clima e in un contesto del tutto mutati, con sconfinamenti mistico-spiritualistici e psicologistici, quando non metafisici, ma anche con elementi meccanici e costruttivistici. Quella di Munari con il «secondo futurismo» è stata un’alleanza discorde, scarsamente simpatetica e sostanzialmente polemica: gli elementi di discordanza sono certo più che non quelli di partecipazione. Quanto di conservazione pittoricistica e di primitivismo psicologico quel momento riproponeva finiva per urtare contro alcune premesse del ventenne Munari.

 

Per quanto è dato ricostruire dal materiale fotografico, l’orientamento è abbastanza prossimo alle posizioni dell’aerofuturismo: ha notato, ad esempio, Filiberto Menna, «Munari realizza in quest’opera un’atmosfera di sospensione e di stupore servendosi però di strumenti rigorosamente costruttivi... al punto che si ha l’impressione di poter comporre e scomporre l’insieme come si vedrà più tardi con i modelli sperimentali delle sculture da viaggio e delle strutture continue». Come si vede ciò che divide dagli amici secondo-futuristi Munari è l’attenzione alla costituzione visiva e alla sua oggettività di composizione. Si ha l’impressione che egli tenda a rompere la staticità del quadro, ponendolo fra sé e lo spettatore, per coinvolgere quest’ultimo in una dimensione illusionistica, in cui prevale lo spettacolo, favoloso nel gioco spaziale, ed immaginativamente eccitato sul piano visivo; mentre gli altri futuristi tendono a una tensione di tipo cosmico, a una struttura fabulatoria, con elementi di inesplorato, misterioso, inedito e primitivistico insieme. Del futurismo, attraverso ciò che ne resta nel gioco della nuova ondata, Munari sembra ricavare una nozione di simultaneità, per cui contemplazione e fruizione si alleano e combinano, e stimolano a vicenda, determinando una presenza estremamente puntuale. Considerare queste opere se non preparatorie, certo riassorbite entro le macchine, prima «aeree» poi «inutili», non è, alla luce anche di quanto s’è osservato in apertura, un eccesso di rigore nella scelta. Basti un’osservazione non del tutto marginale, e cioè che quell’illusionismo, cui s’è fatto riferimento, tende a rompere quanto di cristallizzato c’è nella costruzione visiva del quadro, aprendola alla virtualità di un movimento necessario all’opera, ricco di aperture, di potenzialità e di virtualità. Ebbene tutto ciò si realizza e si attua proprio nelle Macchine, portando a conclusione una ricca ricerca e aprendone un discorso nuovo, che colloca tra l’altro Munari più in là che non fra i pionieri dell’arte cinetica, fra i più precisi ad usare il movimento in senso costitutivo.

 

Il far cadere sulle Macchine il punto di avvio di un esame panoramico, rientra del resto in ciò che si è detto del codice e dell’ovvietà. Anche qui giovi un appunto a margine. Chi ha evocato per questi oggetti spaziali il parallelo con Calder, è riuscito nell’impresa più scentrata e nella lettura più deformante che fosse possibile. Basti pensare a quanto giovi, in Calder, la persistenza della «figura» fitomorfa del fogliame, dei rami, proprio nel suo essere immagine concreta che si sovrappone e integra alla eventualità del movimento. (Che andrà considerato come «arte cinetica» in modo molto particolare e con cautela, senza con ciò togliere il menomo valore all’esperienza dello scultore franco-americano). Il caso di Munari è tutt’altro: «figura» essendo l’intero sistema spaziale, l’intero procedimento di animazione, il gioco della possibilità e della virtualità, sicché tutti gli elementi in campo non sono selezionati e sovrapposti ma integrati e compresenti. Si ha, insomma, una spontaneità che è semplificazione ed economicità costruttiva e visiva; e si ha una determinazione nel porre l’oggetto, esito di un calcolo privo di resistenze passive, di sovraimpressioni normative o di illustrazioni liriche o letterarie.

 

Il che induce a considerare un altro dei filoni che il lettore di questo ricchissimo racconto verrà scoprendo e dipanando di pagina in pagina: l’esigenza espressa da Munari di non restare prigioniero di un’immagine qualsiasi, intellettuale, fisica, poetica o tecnica che sia; l’esigenza, anche, di non condizionarsi alla tipologia dinamica che ciascuna immagine reca con sé. Potremmo definire tutto ciò sperimentale, euristico, nel senso di una adesione libera, spontanea, determinata dalle sollecitazioni e irrequietezze di una considerazione della realtà basata sull’indeterminabilità una volta per tutte, non essendo condizionata, come s’è detto, da coercizione di ordine praticistico, o intellettuale. Fino a che punto giunga questo filone e la ricerca che è in esso, lo si vedrà sfogliando il Libro illeggibile, del 1966. Tra l’inutile delle Macchine e l’illeggibile del Libro corre un filo preciso, perché l’illeggibilità dell’intero disegno compreso nel volumetto, via via che se ne sfogliano le pagine e i connotati si appannano e sfumano, e l’impossibilità a restar prigionieri del disegno in sé stesso, come unico termine di riferimento, mentre le letture possono moltiplicarsi in una libera integrazione di elementi imprevisti, seppure sollecitati, ripetono un problema che era delle Macchine. In altri termini la figura, ancora una volta, va al di là delle immagini date, che sono piuttosto tracce di «principi rigorosamente calcolabili, regole ripetibili, investendo un volume estremamente più vasto di possibilità strutturali.

 

Come si vedrà, procedendo negli anni, e pur senza mai abbandonare questo tipo di proposta e di ricerca, Munari moltiplica piuttosto un tipo di opera da intendere come prototipo sperimentale, di utilizzazione a larghissima diffusione, avvio di investigazioni linguistiche su informazioni visive a partire da taluni aspetti specifici. Ciò che, nella sequenza Concavo-Convesso, Positivo-Negativo, Strutture continue fino agli esperimenti di luce polarizzata, va notato è il superamento della concezione di ambiguità tradizionalmente considerata come intrinseca alla percezione di oggetti a valore estetico. La contiguità fenomenologica di positivo e negativo, ad esempio, la rottura di una gerarchia che privilegia il primo dato e allontana il secondo, non dà luogo ad ambiguità ma a adiacenza e ad alternatività della presenza percettiva, sottolineando la molteplicità dei «punti di vista» e l’esigenza di una sperimentazione del modello compresente alle diverse, contigue ma diverse, eccitazioni in atto.

 

Come sia su questo punto, non sfuggirà che lo sperimentalismo di Munari, verso il ’50 e poi sempre oltre quella data, si pone massicciamente i problemi della produzione industriale e dell’intervento nella realtà dello habitat quotidiano. Sulla rivista «Az» nel 1950 Munari esprimeva apertamente questa esigenza in un articolo dal titolo L’arte è un mestiere, in cui, osservate le esigenze del pubblico proiettato nella dimensione urbana, scriveva: «Uscite dallo studio e guardate anche le strade, quanti colori stonati, quante vetrine potrebbero essere belle, quante insegne di cattivo gusto, quante forme plastiche sbagliate. Perché non intervenire? Perché non contribuire a migliorare l’aspetto del mondo in cui viviamo assieme al pubblico che non ci capisce e che non sa cosa farsene della nostra arte?». Non che fino allora tutto questo fosse fuori degli interessi di Munari: è vero il contrario, né giova insistervi. Ma è pur evidente una intensificazione del problema e una più esplicita programmazione di esso: e il libro lo documenta progressivamente fino al recentissimo Abitacolo che costituisce un esempio di complessità di usi e di semplicità di costruzione che tocca radicalmente l’habitat della casa. Ma non si dimentichi, su questa via, le varie Fontane, per la Biennale di Venezia, per Tokio, in cui era investito l’intero ambiente, ora con sollecitazioni di colore-movimento, ora è il caso di Tokio, provocando con rade cadute di gocce il movimento (geometrico) circolare di una superficie in quiete: dove torna l’opposto a far capolino, stasi-moto ad esempio. Siamo ad un ulteriore tema: la variazione, la creazione di oggetti a elementi mutevoli. Munari cita un passo di Dorner, a questo riguardo, «finché per mezzo di un simbolo statico tenteremo di frenare e di limitare il mutamento spontaneo non saremo mai capaci né di capire né di agire in un modo veramente efficace», e, nel catalogo per la mostra del 1965 alla Danese di Milano, in cui è presentato il Tetracòno, riferisce un’altra citazione dello stesso scrittore: «Solo ora possiamo concepire l’universo come una indivisibile unità formata di pure energie in costante e mutua trasformazione».

 

Si potrà cosi vedere l’ora X, un prototipo del ’45 messo in produzione nel 1963, il Tetracòno e altri lavori più recenti. L’ora X è un meccanismo a orologeria, di cui è utilizzato, in diverso senso dall’orologio, il meccanismo a molla: tre semidischi con i colori primari muovono in tempi diversi fino a comporre forme mutevoli, nel colore nello spessore e nella disposizione. Nel Tetracòno, quattro coni a bande di colore sono fatti girare a tempi diversi, cosi da costituire immagini di continuo mutanti. L’illeggibilità di una sola immagine statica dominante, dunque, e la mutua interazione degli elementi in campo. Il tema della diversità-mutazione, torna anche in Presenza degli antenati, in Guardiamoci negli occhi, che riprendono per altra via il Libro illeggibile: è la continua mutevolezza entro la continuità di un tipo come il volto, o la discendenza umana; la continuità-discontinuità adiacenti nella fenomenologia del reale. E le Xerografie seguono la stessa sperimentazione: si noti che qui si pone anche il problema della riproducibilità in serie degli oggetti, in quanto le Xerografie sono «originali e non copie. Ogni xerografia originale non è riproducibile perché per riprodurla occorrerebbe rifare il procedimento creativo. Farne una xerocopia vuol dire annullarne le più sensibili sfumature». Da tutto quanto s’è fin qui detto (e che non vuole essere né una post-face né una guida alla lettura, in alcun modo, ma una serie di note via via che la preparazione di Codice ovvio procedeva) la struttura del volume apparirà probabilmente chiarita: la suddivisione cronologica, la citazione delle date, almeno, che non mira a uno scrupolo archivistico, ma a mostrare l’articolarsi nel tempo, e nelle varie linee di sviluppo, del lavoro di Munari. E, fatto fondamentale, che questo è un libro di e non su Munari: oltre che nel senso più ampio e generale che restituisce al suo autore l’insieme dei materiali che gli son propri, per la sua continua partecipazione alla scelta, all’organizzazione e alla discussione delle parti prescelte. 

 

Questo testo di Paolo Fossati è la prefazione della ristampa anastatica della prima edizione einaudiana di Codice ovvio, da poco riproposta dall’editore Corraini, p. 148 + 16 di inserto interno, 18.

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