Riempi casa d’agrifoglio
Sempre molto attesi, a volte deludenti, i regali sono un ingrediente fondamentale del Natale. Non tutti però hanno la stessa fortuna: secondo un recente sondaggio il 41% degli italiani si disfa dopo poco dei doni non graditi, il 23% li ricicla, mentre il 13% non ha dubbi, il regalo preferibile è un buono spesa. Meglio scegliere da soli che affidarsi all’intuizione dei propri cari. Esistono perfino casi in cui, strano a dirsi, i regali lasciano l’amaro in bocca.
Sotto l’albero di casa Williams, la sera della vigilia, ci sono moltissimi pacchetti. Da quando sono sposati è la prima volta che i signori Williams fanno l’albero. Il fatto è che la loro bambina ha appena compiuto due anni e la madre vuole che viva un Natale perfetto, uno di quelli che ricorderà sempre, anche da adulta. Il Natale non è forse dei bambini? Anche il signor Williams si ricorda bene che, quando era piccolo, festeggiare coi suoi gli piaceva molto: «la famiglia riunita, il tacchino e tutto il resto». Il tacchino stavolta sua moglie non è riuscita a trovarlo («pochi tacchini quest’anno»), dovranno accontentarsi dell’oca per il pranzo di Natale, ma non importa perché l’albero invece è venuto benissimo: pieno zeppo di lumini e ninnoli, con tutti i regali disposti intorno ma, soprattutto, con l’enorme orso di pezza che troneggia sul pavimento, sotto i rami. La loro bambina lo desiderava tanto e domani, quando al risveglio si affaccerà in salotto, troverà il suo regalo ad aspettarla.
Siamo al principio di un incantevole racconto di Shirley Jackson, Deck the Halls (Riempi casa d’agrifoglio) uscito quattro anni fa in italiano per Adelphi, nella bella traduzione di Simona Vinci, in una raccolta dal titolo La luna di miele di Mrs. Smith. Il titolo del racconto è quello di una famosa canzone di Natale, d’origine gallese, il cui messaggio fondamentale è che a Natale si deve essere allegri, bere e cantare, a dispetto del vento e della pioggia, e ovviamente riempire casa di tanto, benaugurale agrifoglio. Siamo in America – Jackson non dice l’anno, ma certo è attorno alla grande depressione – e non è una cosa strana a Natale per i bambini poveri passare di casa in casa cantando le Christmas carol e in cambio ricevere un’elemosina.
E così, anche a casa dei Williams, quella sera bussano alla porta. La signora va ad aprire e si trova davanti due bambine, due sorelle. Non le riconosce, forse sono le figlie di una vicina. Le due portano un biglietto scritto dalla madre, sostanzialmente una richiesta d’aiuto, con tanto di taglie delle bambine, in caso la vicina volesse regalare loro qualche indumento caldo per andare a scuola.
Qui inizia il dilemma morale della signora Williams. Mentre il marito intrattiene scherzando le due piccine, che intanto si sono accomodate vicino al meraviglioso albero, Jackson nel suo solito modo perturbante e sottile ci fa entrare nella testa della protagonista senza descrivere mai sulla pagina le oscillazioni dei ragionamenti, ma illuminando con pochi implacabili tratti le azioni e lasciandoci così soli, con le nostre inquietudini, a proiettare sulla storia tutte le domande di quella donna. Che possono essere più o meno queste: «devo dar loro dei soldi? Non ho vestiti della loro taglia. Posso allora dare qualcosa di mio alla loro madre? Qualcosa che a me non serve più? Forse a lei, invece, farà comodo. E poi coi soldi potrà sempre comprare qualcosa per le bambine, e io avrò fatto quello che è giusto». La donna torna dunque in salotto con un borsone di vestiti vecchi e offre alle bambine cinque dollari (se fossimo attorno agli anni ’30, cioè, circa cento dollari di oggi), le bambine ringraziano e fanno per uscire. La signora Williams sembra soddisfatta. Ma ecco che avviene qualcosa di inatteso. La più piccola delle due, all’improvviso, vede l’orso. Inizia a singhiozzare e si ferma, come inchiodata al pavimento: fissa l’enorme giocattolo e non c’è verso di smuoverla da lì. La maggiore spiega ai due interdetti signori che la sorella piange perché ha sempre desiderato un orso così. Ed ecco che l’equilibrio, la misura morale della signora Williams inizia a traballare. Il problema è che forse non c’è alcuna possibilità di equilibrio nella carità, almeno se la intendiamo in senso etimologico, perché la carità è amore e l’amore non conosce condizioni o bilanci morali. La carità non va in cerca di giustificazioni, è silenziosa e segreta, come in un altro racconto natalizio di Jackson, A Visit to the Bank, dove assistiamo a un diverso tipo di beneficienza, in qualche modo “segreta” e senza misura, ma che nonostante tutto assume ai nostri occhi un certo alone sinistro. Il suo autore, infatti, non è un incappucciato della Misericordia, è solo un personaggio travestito, mascherato, e il suo dare, sovrabbondante più che smisurato, risulta un po’ eccessivo e per nulla incondizionato. In quel racconto c’è un’altra madre povera che si reca in banca, qualche giorno prima di Natale, con le sue due bambine per ottenere un prestito da un banchiere che in passato l’ha già umiliata. Vuole pagare i regali che ha comperato per le figlie, senza ancora poterli pagare, e magari assicurare alla sua famiglia un buon pranzo festivo. Mentre attende di essere ricevuta, vede il Babbo Natale della banca avvicinarsi alle piccole, interrogarle sulla loro bontà e poi ricoprirle, letteralmente, di doni, uno dietro l’altro, con una sovrabbondanza quasi infantile. La donna, vedendo le bimbe eccitate, è in principio contenta, poi commossa, a disagio, inquieta, infine si spaventa. All’improvviso la chiamano a ricevimento dal banchiere e mentre entra nella stanza e si siede di fronte a lui s’accorge, quasi sgomenta, di una traccia residua di rossore sul suo naso e allora sente l’eco dei campanellini risuonare tutto intorno e trasformarsi, a poco a poco, in un altro genere di tintinnio, quello delle monetine da mezzo dollaro.
Eccoci ancora alla domanda di partenza: che differenza passa tra desiderio e bisogno? Perché mai la signora Williams dovrebbe privare sua figlia del giocattolo di lusso che le ha comprato, l’orso enorme, per darlo alla bambina povera che piange perché lo desidera da sempre? E il banchiere, poi, dovrebbe concedere il prestito alla donna povera perché possa pagare i regali delle figlie? Non le ha appena ricoperte personalmente di doni natalizi? Se si vuol fare una buona carità, cioè, invece che agire d’impulso, sentimentalmente, non converrebbe ottimizzare gli sforzi? È il principio dell’altruismo efficace, oggi in voga in America e abbracciato, tra i più noti, dai multimiliardari Dustin Moskowitz, Elon Musk e altri facoltosi imprenditori della Silicon Valley. La teoria è elementare: cercare di fare del bene massimalizzando l’impatto delle proprie azioni e misurandone la concreta efficacia. È preferibile, ad esempio, migliorare centinaia di vite con azioni caritatevoli a lunga scadenza, che salvarne dieci da un incendio con un atto di eroismo immediato, se si è nelle condizioni di scegliere. È una questione di possibilità oltre che di forze, e a suo modo di equilibrio, di misura morale, per tornare alla signora Williams: del resto la carità non nasce sempre da una forma di squilibrio, la disuguaglianza di classe? Finché esisteranno le differenze economiche, i ricchi e i poveri potremmo dire, esisterà la carità e gli stessi identici regali faranno un poco di bene a qualcuno e, a volte, molto male a qualcun altro.
In Noël, Texas 1956, Lucia Berlin estremizza quest’affermazione. Nel racconto, uscito in Italia per Bollati Boringhieri in una raccolta dal titolo Sera in paradiso con la traduzione di Manuela Faimali, c’è una donna, Tilly, che disprezza il Natale a tal punto che per evitare il ritrovo di famiglia organizzato dal marito con la madre squilibrata, la figlia “viziata e schifosa”, i fratelli meschini e alcolizzati del marito e gli altri parenti terribili che lei non ha visto quasi mai e che non ha nessuna voglia di conoscere, si rifugia sul tetto di casa, con la sua fiaschetta di whisky e una radiolina portatile da cui escono a intermittenza canti natalizi. Dal lì se ne resta a guardare la bizzarra festa di famiglia, distesa sotto il cielo stellato, a volte cantando, a volte disprezzando, ma controllando sempre tutto quel che accade e contemplando come una sorta di divinità distante quel che succede ai suoi, certa di non dover scendere prima della fine delle feste di Natale, e addirittura vagheggiando di non scendere mai più. Nell’avvicendarsi delle grottesche, insopportabili conversazioni tra i suoi, riportate con ironia raggelante, siamo anche noi testimoni dei progetti natalizi del marito, e veniamo a sapere che sta architettando, con l’aiuto dell’inseparabile migliore amico, una spedizione benefica in Messico col suo velivolo privato per andare a scaricare due grossi sacchi di cibarie e giocattoli per i bambini poveri delle baraccopoli («Ma ai bambini messicani piacciono gli stessi giochi di quelli bianchi?»). La spedizione sembra un po’ improvvisata, ma tutto alla fine funzionerà a puntino: i due attraversano lo spazio siderale guidati dalla luce della stella cometa e scaricano i loro doni, facendoli cadere a terra dall’alto sulla baraccopoli di Juarez per la gioia di tutti quei bambini messicani. C’è solo un piccolo sfortunato incidente a sciupare questa splendida beneficienza: un barattolo di prosciutto, precipitando come una scheggia di meteora, colpisce un anziano pastore che muore sul colpo, come apprendiamo dal notiziario trasmesso poco dopo dalla radio di Tilly, ancora sul tetto.
Di buone intenzioni, si sa, è lastricato l’inferno. Ma, tornando ai nostri doni di Natale, è davvero l’intenzione quella che conta? Certo il dono concentra l’attenzione sul gesto, o sull’idea, quel guizzo che spinge a trovare nuove forme del dare (e del darsi); la carità, l’abbiamo detto, è puro amore; il regalo invece s’appunta sempre sull’oggetto. Al contrario del regalo, cioè, il dono non comporta per forza uno scambio materiale, tangibile: si dona il proprio tempo, ad esempio, si dona il proprio amore. Donare può dunque anche essere un gesto astratto, l’invenzione di una possibilità, di un modo diverso di guardare il mondo. Nel Dono, breve racconto del 1952, Ray Bradbury ci porta, a cento anni dal suo Natale (e, anno più anno meno, anche da quello texano di Tilly) e a ventotto anni dal nostro, sopra una navicella spaziale dove una famigliola – madre, padre e figlioletto – si è appena imbarcata per le vacanze. È la vigilia del Natale 2052 e, nonostante l’emozione per il bel viaggetto che si sono concessi, entrambi i genitori sono molto preoccupati. Qualcosa è andato storto: ai controlli non hanno fatto passare, per un fatto di peso e misure, il loro albero di Natale pieno di candele bianche e il regalo comperato per il figlio. Il ragazzino, col suo orologio che ancora cammina secondo il tempo terrestre, attende la mezzanotte solo per quello: avere il suo albero e il suo regalo, senza i quali il Natale non è Natale, nemmeno nello spazio. Urge un’idea. Ed eccola nascere e subito trasformarsi in dono: il padre, dopo essersi brevemente assentato, prende per mano la moglie e il figliolo e li conduce verso una cabina buia. Il ragazzino si sporge sulla soglia e vede un grande oblò di cristallo che dà sull’universo, dove ardono nella notte profonda le luminarie più fastose del creato: dieci miliardi di candele bianche.
Anche la signora Williams, alla fine del suo racconto, si sporge da una soglia, quella di casa sua: l’avevamo abbandonata davanti al pianto inconsolabile della bambina povera che si era innamorata dell’orso gigantesco. La donna, dopo un breve imbarazzo, ha trovato il modo di sistemare le cose: ha spiegato dolcemente alla piccina che quell’orso è per la sua bambina, per questo non glielo può dare. Le ha regalato, in cambio, delle bamboline, staccandole direttamente dai rami del suo bellissimo albero e inoltre due bacchette di zucchero. E così, in qualche modo, compensando il gran rifiuto, ha ritrovato un equilibrio possibile, la giusta misura. Le sorelline, allora, si son convinte a partire e, mentre s’avviano, ecco che realizzano d’avere dimenticato qualcosa: hanno ricevuto l’elemosina senz’avere cantato la canzone dovuta! E così, forse anche loro per sistemare le cose, si decidono a cantare, con le loro vocette sottili: «Riempi casa di agrifoglio, fa la la la la»…
Buon Natale! Grida loro da lontano la signora Williams. E la sua voce pare «inadeguata persino a lei».
In copertina, illustrazione di Eleanore Shakespeare.