Il doppio sogno di Agota Kristof
Ascoltare i sogni altrui, sostiene qualcuno, può essere noioso; leggerli spesso è mortale. Perfino Henry James, che credeva nelle ombre e nei fantasmi, ammoniva: «racconta un sogno e perderai un lettore». Non sarà questo il caso, però, di Dove sei Mathias?, un libriccino che raccoglie due brevi, incantevoli testi composti da Agota Kristof negli anni ’70, che Casagrande ripropone oggi in una nuova veste, recuperando la bella, esatta traduzione di Maurizia Balmelli usata già nell’edizione precedente, del 2006, con una nota finale al testo di Marie-Thérèse Lathion.
I due scritti inclusi – il racconto che dà il titolo al libro, composto nei primi anni ’70, e la pièce teatrale Line, il tempo del ’78 – appartengono al Fondo Agota Kristof dell’Archivio letterario svizzero di Berna (Biblioteca Nazionale). Insieme non arrivano alle quaranta pagine e perciò si leggono in un soffio. Eppure hanno l’arcano potere di dilatare il tempo a dismisura per introdurci in due distinti ambienti, molto diversi tra loro ma inspiegabilmente collegati, come le stanze contigue di un doppio sogno.
Il primo dei due, poi, un sogno lo è davvero. Un bambino di nome Sandor (lo stesso nome che prenderà il protagonista di un altro romanzo di Kristof del ’95, Ieri) è davanti alla sua casa, immerso in un paesaggio livido, e si annoia. Tiene la mano sopra una guancia: vorrebbe ricevere uno schiaffo dal padre, vorrebbe essere un bambino martire. Al principio del racconto Sandor sta già sognando, forse si è addormentato proprio per sfuggire alla noia, ma anche il sogno è noioso, «come un’isola deserta dove non c’è nulla da fare». Prima che un’isola, però, il sogno, per noi lettori e per Kristof, qui come altrove (Ieri, Trilogia della città di K.) è una barriera compatta, un muro che scherma la realtà: irrompe senza preavviso nella narrazione e, se pensiamo che illuminerà il mistero della storia, la nostra è solo un’illusione. In nessuno dei testi di Kristof il sogno è un motore drammatico che porta alla risoluzione degli eventi. Non anticipa il futuro, non ci spiega il passato. È una specie di sesto senso, acuto e crudele, capace di sprofondarci nel dolore irreparabile della Storia. Cosa sogna di preciso Sandor? Sogna il suo mondo, la sua casa, sogna i galli che cantano. Ma il sogno è tenace e la realtà non può scalfirlo, tanto che Sandor non riesce a svegliarsi. «E il sogno aveva ragione: era troppo presto. I galli cantano sempre troppo presto».
Nel sogno, subito dopo, arriva un secondo bambino: è il figlio futuro di Sandor che, però, lo abbandona, lasciandogli in sorte una specie di doppio, Mathias. Il lettore affezionato di Kristof arrivato a questo punto del racconto sarà colto da un malinconico soprassalto perché Mathias è anche il nome di un altro personaggio importante, e indimenticabile, della Trilogia, scritta diciotto anni dopo. Mathias è il figlio adottivo di Lucas, uno dei gemelli protagonisti: il piccolo, deforme, mal cresciuto, l’infelice, il suicida, «la sola creatura che conti al mondo» per Lucas; questo suo antecedente, invece, il bambino sognato da Sandor, è una specie di fratello simile e distante. Lontano da lui Sandor non riesce nemmeno a sopravvivere, perché «il gioco è senza interesse, la rivoluzione senza smalto, l’amore senza sapore».
Verrebbe a questo punto da consigliare a chi non ha ancora letto i libri di Kristof di partire da queste poche pagine che sono molto preziose, perché sembrano innescare le storie che verranno. Qui affiorano alcuni dei personaggi più belli, o per meglio dire, affiora la loro matrice e la scrittura suicidaria di Kristof comincia, implacabile, a prendere il suo ritmo. Chi invece abbia già frequentato gli altri testi più famosi, ritroverà in Dove sei Mathias? il seme dei futuri tradimenti, l’inferno dell’abbandono, delle frontiere varcate, gli incendi e riconoscerà, quasi intatto, un magnifico stralcio di sogno, coi due fratelli seduti vicini: uno di loro pesca da un fiume nel quale da tanto non ci sono pesci e poi si arriva alla casa di un tempo che, come accade appunto nei sogni, è quella di sempre ma «in un’altra città, in un’altra vita».
Non si tratta semplicemente di materiali ricollocati a distanza di anni nel romanzo della vita o di stesure successive della medesima storia, né dei famosi brevi testi annotati dall’autrice ungherese in un piccolo quaderno per imparare a scrivere in francese, la lingua “nemica”, pezzi che a poco a poco diventeranno il suo libro più importante. La cosa che qui davvero conta è l’ossessione per la ricostruzione della realtà perduta che Kristof mette a segno a poco a poco sulla pagina, di anno in anno. Rimbalzano da un libro all’altro personaggi, nomi, perfino battute. Qualcosa, evidentemente, va tenuto in vita. È ancora la Città di K., nella realtà Kőszeg, al confine ungherese con l’Austria e tutto quello che, dopo la fuga del ‘56, la scrittrice ha lasciato.
Il lettore che si recasse in viaggio, per la prima volta, nella Città avrebbe l’impressione d’averla già vista, d’esserci già stato; in realtà l’ha solo letta, proprio come adesso la vede, nelle pagine della Trilogia. Ma il processo di ricostruzione maniacale, millimetrica, al contempo fedele e mascherata, cioè menzognera, finisce per indebolire il confine che corre sempre tra finzione e verità, racconto e vita, immagine diurna e immagine notturna. E così, passeggiando per il cimitero di Kőszeg ad esempio, dove Agota giace accanto al fratello più piccolo, ci chiediamo all’improvviso dove stia la tomba di Nonna, o finiamo per cercare, invano, quelle di Lucas e Claus, convinti che in fondo non possa correre troppa differenza tra la vita di un personaggio e una vita reale. Passeggiare per la Città è quasi come passeggiare dentro a un sogno: le vie, la piazza cessano di essere là nel momento in cui ne riconosci, dentro di te, il fantasma. A tal punto quest’autrice ci trascina nel suo abisso.
Ma torniamo ancora per un attimo a Sandor, il bambino, che alla fine del racconto si sveglia nel suo lettino. Il padre fuori taglia la legna, la madre canta in cucina. Sandor è stato molto malato: quello che abbiamo letto, dunque, era soltanto il suo sogno febbricitante ma adesso, sulla soglia del risveglio, il bambino rivolge a Mathias, suo fratello nella vita vera che gli è stato accanto nel delirio, due secche domande: una sull’amore, l’altra sul tempo. («L’amore? …. Ferma la pendola, Mathias, mi disturba.») Mathias appoggia una mano sul cuore del fratello, ma non risponde. Sembra farlo, al suo posto, il secondo dei due testi del libretto, la pièce teatrale in due atti che proprio dell’amore e del tempo fa i suoi temi principali.
Fin dal titolo (Line, il tempo) l’autrice sembra illuderci che ci sia una possibile risposta: il tempo è una linea. Ma sarà vero? I due protagonisti di questo piccolo gioiello teatrale sono al parco e parlano, seduti su una panchina: Marc ha ventidue anni, Line dodici. Line è perdutamente innamorata di Marc, ma lui non la corrisponde perché è a sua volta innamorato di una ragazza che nemmeno lo guarda, ha sempre fretta oppure finge soltanto di averne. In questa impossibilità generale, Line tenta una sua tenera, innocente definizione dell’amore: «la sera penso a te, mi immagino che ti siedi sul bordo del mio letto. Mi sorridi. Allora mi addormento, e quando mi sveglio sono felice, corro nel parco per vederti». Ma una volta che arriva al parco e si siede su quella panchina, tutta la sua gioia cessa perché, come le spiega Marc, «l’amore non è sempre felice». È il tempo a determinare l’infelicità dell’amore, i dieci anni di differenza tra di loro che, dice Marc, «sono tanti, Line, tantissimi». «Dieci anni non sono niente», risponde Line. Ma quando trascorrono davvero quei dieci anni e nel secondo atto, proprio sulla stessa panchina, ritroviamo Line, ventiduenne, senza più la sua coda di cavallo, né la bocca impiastricciata di cioccolato, nemmeno lei ne è più tanto sicura e noi con lei. Line adesso non gioca, studia economia. Marc è appena arrivato in città, alle spalle ha un matrimonio finito e se è tornato è solo per lei, la bambina perduta che un giorno non ha saputo, o voluto, vedere. «Non sei tornato per me», gli dice Line, sei tornato perché hai nostalgia di quel che non c’è più. Ma anche Line ormai non c’è più. «Line è solo un diminutivo da bambini. Il mio vero nome è Caroline».
Un’altra Line, in un altro libro di Kristof (sempre lo stesso, Ieri, pubblicato diciassette anni dopo questo piccolo pezzo di teatro), dirà una cosa molto simile all’uomo che la ama: «Io mi chiamo Caroline, ma questo nome non mi piace. Mio marito mi chiama Carole». L’uomo: «io la chiamerò Line». E lei, ridendo: «da bambina mi chiamavano Line!» E l’innamorato: «lei somiglia a una ragazzina che ho lasciato quindici anni fa».
La nostra Line, anzi Caroline, «quindici anni fa» (circa quindici anni prima, cioè, che la sua autrice iniziasse a scrivere Ieri) ha invece abbandonato Marc, su quella panchina. La vediamo mentre corre via: ha fretta, oppure finge soltanto di averne. Immediatamente arriva una nuova bambina: sembra proprio la Line di un tempo, le assomiglia, parla come lei, avrà più o meno la sua età di allora. Discute con Marc di quella bella ragazza che è appena corsa via, gli chiede se è triste perché se n’è andata. Lui le dà ragione e nel farlo la chiama Line. Ma neppure questa bambina è Line, e Marc lo sa bene, non può esserlo; potremmo dire forse che è una “quasi Line”: «non mi chiamo Line, ma Aline… Mi chiamano anche Mandoline, Crinoline, Air-Line…» Tutto sembra ricominciare da capo.
Eppure, se il tempo non è una linea, non potrà essere nemmeno un cerchio, perché nulla nella vita sembra chiudersi, nulla torna davvero com’era. Solo una cosa non cambia mai: siamo sempre condannati a uno scarto, un doloroso inceppo, uno strappo incomponibile. Dove non c’è amore.
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