Nella Città di K. Un viaggio
Ravenna, 10 luglio 2023
Tra poche settimane iniziano le prove della Trilogia della Città di K. al Piccolo Teatro Studio.
Da quando Federica ci ha proposto di mettere in scena questo triplice romanzo lo stiamo ossessivamente rileggendo, Luigi, lei e io: a ogni lettura aumentano le domande. Nel libro ci sono due gemelli, ma poi si sospetta siano uno solo. Alla fine però si torna a credere che siano due. Ci sono personaggi fantasma, che in realtà non esistono, storie dentro le storie, romanzi dentro i tre romanzi. La Storia e la finzione si intrecciano di continuo. Ci sono città e ambasciate, descritte da un singolo misterioso aggettivo, oppure nominate soltanto con l’iniziale. Guerre, potenze, eserciti e circostanze alluse, ma mai direttamente chiamate in causa col loro nome.
La K. del titolo sta per Köszeg, la città ai confini con l’Austria in cui l’autrice trascorse parte della sua infanzia? La Città di S., dove si trova? E la Grande Città, è la capitale?
Se la ricerca della verità nel libro è un tema, penso, la verità da qualche parte deve esistere, anche se adesso sembra difficile trovarla. Sento che se voglio tradurre questo testo per la scena devo partire in primo luogo da questo groviglio di domande. Se voglio mantenere intatto l’enigma, devo prima provare a scioglierlo.
Firenze, 15 luglio 2023
Rodolfo mi dice: “perché non andiamo in Ungheria il mese prossimo?” Esito un po’, non voglio vincolare le nostre vacanze a un mio progetto. Lui insiste: “Andiamoci, è importante”.
Compriamo il volo.
Budapest, 12 agosto 2023
A Budapest pianifichiamo bene il viaggio.
Köszeg è una piccola città ungherese al confine con l’Austria, nella provincia del Vas. Se davvero è la città di K., mi chiedo, ci troveremo la foresta, il fiume e anche il luogo dove un tempo sorgeva la casa di Nonna? Ha senso cercare disperatamente nella realtà le tracce di un romanzo amato? Portarsi dietro un libro di finzione come se fosse il solo modo per riuscire a leggere un luogo vero? Usarlo come una mappa che ci permetta di scoprire, e forse anche di comprendere, le cose che vedremo? O sono invece le cose che vedremo che ci faranno comprendere le parti oscure del romanzo?
Köszeg, 18 agosto 2023
Partiamo di buon’ora da Budapest-Keleti diretti a Köszeg. Passiamo da Szombathely, la Città di S. del romanzo, ma solo per cambiare. Vorrei affacciarmi nel centro della città: qui nel romanzo uno dei gemelli trascorre cinque anni in un ospedale specializzato che poi diventerà un ospizio. Vorrei cercare quel luogo. Esisterà ancora?
Ma non abbiamo tempo. Il piccolo treno passeggeri diretto a Köszeg parte tra pochi minuti.
Entriamo in un vagone col pavimento di legno e le pareti rosse: è lo stesso che prende l’autrice in un documentario che abbiamo visto e rivisto con Federica. È lo stesso che prende Lucas il giorno in cui torna a K.: «Il trenino rosso, composto di tre vagoni, che ad ogni ora parte dal binario numero uno per la piccola città».
Guardo fuori dal finestrino. La campagna è verde e piatta, ma a poco a poco il paesaggio cambia: i colori si incupiscono e si cominciano a vedere le montagne. Dietro c’è la frontiera. Ancora più dietro l’Austria. Sfoglio il libro e apro una pagina a caso. Leggo ad alta voce: «In via della Stazione gli ippocastani sono in fiore. I petali bianchi ricoprono il terreno di uno strato così spesso che Lucas non sente nemmeno il rumore dei suoi passi».
“Se quando scendiamo vediamo gli ippocastani”, scherza Rodolfo, “è tutto vero!”
Non c’è un altro treno che arrivi alla Città di K., solo quello che proviene da S.
La minuscola stazione è semplice e ordinata. «Pulita, addirittura infiorata, con fiori di qui, di cui non conosco il nome, che altrove non ho mai visto».
Attraversiamo la banchina, di fronte al binario. Arriva un bus giallo, sembra quasi che venga a prenderci. Decidiamo di proseguire per il centro a piedi, come fa Lucas quando torna a K., la città piccola. «L’autobus si allontana, è occupato dai rari viaggiatori del treno».
Usciamo dall’edificio color verdino della stazione passando per sale d’attesa d’altri tempi con panche di legno e stufe di ceramica marrone. L’inverno qui deve essere molto rigido.
Dalla stazione al centro c’è circa mezz’ora a piedi. Attraversata la strada saliamo sopra un ponticello, sotto scorre il ruscello. A seguirlo si arriverà alla foresta e al campo sportivo e poi, ancora oltre, fino alla frontiera?
Decidiamo, per adesso, di non fare deviazioni. Prendiamo la strada principale. È un viale alberato
Io e Rodolfo ci guardiamo: sono gli ippocastani.
Arriviamo in centro. La piazza principale è ariosa e molto piacevole.
«Le vecchie case sono rimaste intatte. Sono restaurate, ridipinte di rosa, giallo, blu, verde. Il pianterreno di ognuna è adibito a negozio o bottega: drogheria, «souvenirs», latteria, cartolibreria, «moda». La cartolibreria sta nella casa blu in cui stava già quando Claus era bambino e veniva a comprare carta e matite.»
Di fronte alla libreria azzurrina ci sembra di riconoscere la casa dell’Insonne: dalle finestre al secondo piano probabilmente si riesce a spiare fin dentro la casa che sta subito davanti, quella sopra il negozio: da qui l’Insonne deve aver visto Mathias dare fuoco al suo quaderno, prima di impiccarsi.
Poco distante, dall’altra parte della piazza, c’è l’albergo a due piani, quello in cui va a stare Claus quando torna, verso la fine degli anni ’80: ha poco più di cinquant’anni e spera ardentemente di rivedere suo fratello.
L’albergo è l’unica costruzione di questo tipo nella piazza, il solo edificio anni ’70.
«Nella piazza Principale, Claus si ferma. Al posto delle case semplici e basse si erge un grande edificio a due piani, un albergo. Claus entra e chiede all’impiegata della reception: “Quando è stato costruito questo albergo?” “Circa dieci anni fa, signore”.»
Entriamo nella libreria della piazza, è ancora attiva. Chiedo alla libraia se ha per caso qualche libro di Agota Kristof in vendita. Scuote la testa. Mi porta un grosso catalogo a colori con molte foto: è una pubblicazione dello Iask (Insitute of Advanced Studies Köszeg) su K. In fondo ci sono alcune pagine dedicate alle personalità famose. C’è anche una paginetta dedicata ad Agota. Vi si dice che è una scrittrice «nota in Francia che ha deciso di scrivere di cose ungheresi in lingua straniera».
Nei giorni successivi cerchiamo invano a Budapest, in molte librerie, le sue opere. Troviamo solo una versione pocket della Trilogia. Il libraio ci dice che è l’unica opera di quest’autrice uscita in traduzione qui.
Ci spostiamo verso il complesso del castello. È molto bello: un intero quartiere, un borgo di case e casette. Al centro sorge la rocca vera e propria. Vediamo un’osteria. A quest’ora è chiusa. C’è però un uomo che prepara: ci fa entrare. Una piccola scala scende in quella che sembra una cantina, molto ampia e cupa, con il soffitto a volta. Ci sono panche di legno e un semplice bancale. Immagino i gemelli che suonano la fisarmonica, si travestono da pagliacci e fanno giochi d’equilibrio e acrobazie in cambio di qualche soldo. Immagino Lucas nelle sue notti alcoliche e insonni del secondo libro, La prova.
«Camminiamo uno accanto all’altro fino al castello, ci fermiamo nel cortile, ai piedi dei bastioni».
All’improvviso vedo due ragazzi. Uno di loro si sta arrampicando sul muro. L’altro si volta e mi guarda serio. Continuo a fissarli. Per un momento vedo i due gemelli, una specie di reincarnazione. Quello che poco fa mi guardava ora mi dà le spalle, l’altro continua ad arrampicarsi, sempre più in alto. Sembra il sogno di Lucas, quando vede il fratello sporgersi dalla torre del castello: «Io di sotto lo seguo correndo, grido: “No! Non farlo! Fermati! Scendi giù! Finirai per cadere!” “Non avere paura, non cadrò, so volare. Tutte le notti plano sulla città.”»
All’estremità opposta della città le case si diradano e inizia la foresta. Un sentiero conduce nel fitto della boscaglia e piega all’improvviso verso il fiume, scendendo un poco fino al campo sportivo. Qui un tempo sorgeva la casa di Nonna. «Casa di Nonna non esiste più. Adesso là c’è un campo sportivo». Qui hanno trovato il corpo di Yasmine, lo dice Peter a un certo punto: «mentre erano in corso i lavori per la costruzione del campo sportivo, ho saputo che hanno scoperto il cadavere di una donna sotterrato lungo la riva del ruscello, vicino alla casa di vostra nonna.»
Camminiamo in silenzio. Non ci aspettavamo questa strana magia. Tutto qui sembra avere una sua precisa corrispondenza, come se davvero la Trilogia fosse una specie di mappa narrativa, molto dettagliata, di questo luogo reale. Questa scrittrice ha compiuto una specie di struggente operazione di riappropriazione a distanza del luogo forse più importante della sua vita, il luogo da cui si era separata e in cui non poteva più tornare, da quando aveva varcato la frontiera col marito, nel 1956, con la sua bambina appena nata al collo, il solo luogo dove un tempo, probabilmente, era stata felice.
«Mi piace molto questa città. Esercita un potere sull’anima. Chi ha abitato qui non può non tornare».
Köszeg non è la città natale di Kristof. Agota vi si era trasferita nel 1944, a nove anni. Esattamente come i gemelli: Lucas e Klaus, nati come lei il 30 ottobre 1935. Quando arrivano da Nonna, nemmeno a dirlo, è il 1944.
Scrivere della Città per Agota Kristof è forse un modo per non dimenticarla: scriverne in maniera dettagliata e del tutto corrispondente, perfino a distanza, è come ricrearne costantemente l’immagine dentro di sé, alimentarla e tenerla in vita e così, forse, tenersi in vita. Riuscire a sopravvivere, malgrado il dolore. Solo a questo in fondo, dirà altrove, serve la scrittura. A sopravvivere.
Saliamo fino al cimitero. La custode a cui chiediamo notizie della tomba di Agota ci sorride, ha visto il mazzetto di fiori di campo che tengo in mano, e ci conduce con passo sicuro, senza bisogno di controllare i registri, davanti a una tomba di marmo bianco, che presenta una doppia lapide. Agota riposa accanto al fratello più piccolo, Tila.
Attraversando il cimitero penso che i morti del romanzo si mescolano in questo luogo ai morti della vita vera: qui sono sepolti Lucas e suo padre. Qui finiranno anche la madre e Klaus. Qui c’è la tomba di Nonno e quella di Nonna. Qui un tempo c’era la tomba di Mathias, la tomba più amata, sopra la quale Lucas andava a dormire ogni notte. Qui, uno accanto all’altra, ci sono Tila e Agota. E ci sono tutti gli altri abitanti di K.
La tomba di Agota differisce per tre particolari dalle altre tombe di questo cimitero:
1. È l’unica a non avere una croce.
2. Nella sua epigrafe il nome viene prima del cognome (a differenza dell’usanza ungherese, in cui il cognome viene prima del nome). Perfino da morta Agota resta “la straniera”.
3. Davanti alla tomba c’è una panchina. Segno che Agota riceve molte visite?
Mentre ci dirigiamo verso la stazione penso a Lucas quando, alla fine del terzo libro, chiede di essere sepolto nel cimitero della Città di K.
Klaus, dopo aver finto di non riconoscerlo, dopo averlo respinto, accetta di seppellirlo nella tomba di famiglia, accanto al padre. È la sola cosa che Lucas ottiene da lui.
«Accanto alla tomba di mio padre hanno scavato un’altra tomba. Ci calano la bara di mio fratello, ci piantano la croce con scritto il mio nome con una diversa ortografia».
Anche il nome di Agota è scritto, in un certo senso, con una “diversa ortografia”.
Anche lei questa volta è tornata per restare, per sempre, anche se da morta.
Il treno per la Città di S. ormai è ripartito.
Quando torniamo a Budapest, la Grande Città, ormai è buio.