Hai qualcosa da dirci? Non vediamo l’ora di leggerti.

Partecipa al nostro questionario e aiutaci a immaginare il futuro di questa rivista. Bastano pochi minuti per dare la tua opinione.

Il tuo tempo è prezioso, i tuoi suggerimenti ancora di più.

Da Tiepolo a Tik Tok. I fantasmi della realtà

13 Marzo 2025

Nella prefazione all’edizione italiana di Giochi d’ombra. Preistoria curiosa della realtà virtuale l’autore Massimo Riva cita due opere letterarie che appartengono a un genere particolare: L’ombra di Hans Christian Andersen del 1847 e La storia meravigliosa di Peter Schlemhil di Chamisso del 1814; la prima è una fiaba, la seconda una favola che anticipa il Faust di Goethe. L’occasione è offerta da un’intervista al New York Times di Salman Rushdie che cita il favolista danese per spiegare «come le nostre ombre possano distaccarsi da noi, vivere di una vita propria e persino usurpare il nostro posto nel mondo: “La gente crede all’ombra e non più al sé”». Il volume di Riva, docente di Studi italiani alla Brown University, è un saggio interessante per una lunga serie di ragioni: la prima è che non si tratta di un saggio divulgativo “all’americana”. Contiene citazioni molto articolate, si insinua interdisciplinarmente in dettagli minimi e rivelatori, e si riferisce a un arco temporale abbastanza ristretto per via delle motivazioni accademiche alla base (si concentra tra Sette e Novecento), eppure. Eppure queste ombre che si aggirano lungo tutto il lavoro di ricerca dello studioso sono la parte più accattivante del suo ragionamento, volto a ricordarci – in estrema sintesi – che la realtà virtuale è realtà, che la virtualizzazione della realtà parte da molto lontano, almeno da quando l’uomo ha cercato di realizzare il virtuale, di estendere quella realtà, e di farlo attraverso quello che possiamo definire “imperialismo ottico”, ovvero tutte quelle tecnologie della visione che oggi abitualmente abitiamo e che ormai ci abitano. È un saggio che si può leggere in termini molteplici: storici – di storia della civiltà, della tecnologia, dell’intrattenimento – o pedagogici o artistico-letterari. Dal “mondo novo” di grandi dimensioni dei Selva a Goldoni e Casanova che mettono in scena spettacoli fondati su giochi di specchi e di ombre che quasi prefigurano la lanterna magica (dispositivo che entrerà presto anche nelle aule scolastiche e nel Giannettino di Carlo Collodi) passando per gli spettacoli immersivi di Giovanni Battista Belzoni e al panorama mobile sulla vita di Garibaldi acquisito e digitalizzato proprio dalla Brown University, giungendo infine, con la fotografia, ai Gran Tour virtuali in stereoscopio.

Tutto ha origine a Venezia. Luogo di scambi, di incontri, di ingegni. Nel settecentesco “mondo novo” di Tiepolo incrociamo la prima innovazione “ottica” di questo viaggio: nella serie di affreschi realizzata nella villa di famiglia a Zianigo, il Mondo novo è il più celebre del gruppo anche perché raffigura questo manipolo di persone di spalle, intente a vedere qualcosa. A noi non è dato osservare ciò che il gruppo sta guardando, ma solo questo atto del vedere che si fa così prominente nella storia delle civiltà. «Negandoci la veduta che promette – chiosa Riva – l’utopica profezia di un Mondo Nuovo e di un altrove nel tempo, questa poetica in minore prefigura una critica di quell’ideologia che mesmerizzerà l’immaginazione popolare per i secoli a venire […]. Venezia stessa, occhio e teatro del mondo, si riduce a quello che è divenuta nella sua lunga decadenza: attrazione turistica e copia virtuale, caricatura di se stessa, un cosmorama, in questo perfetta immagine del mondo intero, culmine di un’intera civiltà dell’immagine. Il futuro che Il Mondo novo annuncerebbe è dunque un ipotetico futuro senza storia, una farsa o una fantasmagoria fine a se stessa». Nel dipinto, oltre a scorgere la presenza di Pulcinella, la gente si accalca per guardare in una sorta di casotto di legno, un diorama o cosmorama o pantoscopio, un dispositivo che offriva meraviglie visive, un’idea di futuro, il mondo nuovo che verrà. Il popolo non chiede altro che vedere di più. All’interno di questa Preistoria curiosa della realtà virtuale inizia a farsi evidente il legame con la fiaba e conseguentemente con l’intrattenimento de li peccirille (così il sottotitolo dell’opera di Basile), più in generale direi con l’educazione dei fanciulli, un’educazione anche all’immaginazione. Non è ancora un caso se Giandomenico Tiepolo è anche l’autore di centoquattro disegni intitolati Divertimento per li regazzi in cui Pulcinella è il protagonista di avventure e racconti, figura che incarna il «congegno carnevalesco per eccellenza che, con un trucco ottico, un gioco di lenti, mostra il mondo a testa in giù». Un mondo al contrario, proprio come nella tradizione fiabesca e nella migliore tradizione della letteratura per ragazzi dal Settecento in avanti, ma soprattutto dopo l’opera che apre una nuova stagione artistica, la Alice underground di Lewis Carroll (1864): «Pulcinella annuncia un futuro che sarà dominio del nonsenso e della danza spensierata (Tik Tok, un altro divertimento per li regazzi, ne farà un’insensata coazione a ripetere)».

j

Queste vicende principiano in un certo senso con il primo interprete della globalizzazione, Marco Polo, con la consapevolezza che la Terra è uno spazio percorribile da ciascun uomo in lungo e in largo, e questa percezione, tramite il racconto di Il Milione, si democratizza, si espande, si diffonde tra la gente trovando il suo culmine nella scoperta (e invenzione) del Nuovo Mondo. Come precisa Riva, «la stessa espressione “mondo nuovo” può essere ricondotta all’edizione cinquecentesca della lettera di Amerigo Vespucci a Lorenzo di Piefrancesco de’ Medici, appunto intitolata Mundus novus. E vari studiosi hanno sottolineato il collegamento tra la scatola ottica raffigurata nel dipinto di Giandomenico [Tiepolo] e l’immaginazione delle Americhe». Marco Polo era, non a caso, veneziano, e Venezia incarna lo spazio degli sguardi, l’isola delle visioni, il luogo della luce. Un’invenzione più di tutte ha accelerato lo sviluppo dei dispositivi dello sguardo, ed è certamente lo specchio, un oggetto che si perfeziona, ancora una volta, tra le calli veneziane. Il viaggio di Marco Polo genera (e usa la) narrazione, e tra il miroir e il racconto c’è un filo inestricabile: come quest’ultimo porta fuori di noi la parola, lo specchio porta fuori l’immagine di noi. Estensioni, ancora una volta, che hanno luogo sempre a Venezia. Venezia è anche in quegli anni il porto che accoglie l’approdo della fiaba nella cultura europea. Prima Giovanni Francesco Straparola con Le piacevoli notti, poi Giambattista Basile con Lo Cunto de li cunti: se Straparola era il nom de plume di un letterato veneziano del Cinquecento, Basile aveva origini partenopee, ma a Venezia si arruolò agli inizi del Seicento e da lì parte prese parte a campagne navali della Repubblica di Venezia. È da queste esperienze di viaggio che raccoglie racconti in cui si specchia una società che comincia a desiderare il mutamento. Realtà virtuale anche quella della fiaba, in cui ogni cosa è possibile, il rovesciamento soprattutto. Come spiega bene Michele Rak in La logica della fiaba, «Basile metteva in forma di racconto la più efficace e terribile delle macchine della Modernità usato come fonte di meditazione: lo specchio. Lo specchio segnala una delle formule ricorrenti della cultura barocca: la duplicità dell'essere, la conturbante prossimità della bellezza e della bruttezza, della ricchezza e della povertà, della vita e della morte. Il fiabesco racconta della superficie fragile che separa questi due mondi paralleli. […] È una delle scoperte e delle ossessioni della Modernità».

Tra questi giochi d’ombra e giochi di luce c’è qualcosa che ha continuamente a che fare con la fantasmagoria, non intesa solo come dispositivo di precinema, ma come qualcosa che «ha risvolti piscologici e sociali che si rischia di non cogliere, liquidandone semplicemente gli effetti come reazioni infantili o irrazionali». Come hanno evidenziato Terry Castle e Marina Warner, «sia il termine che il fenomeno evolvono per tutto il XIX secolo dal reame dell’’intrattenimento (pseudoscientifico) ai più reconditi meandri della mente, accompagnando quello che potremmo definire l’addomesticamento del supernaturale, parte di una secolarizzazione che lascia tuttavia dietro di sé una scia di spettri, mostri e fantasmi, più o meno psicologici ma non meno “reali”. […] “l’assorbimento dei fantasmi nel mondo del pensiero”, come scrive Castle, è una caratteristica decisiva di questo oggetto prismatico». Insomma, con lo sviluppo di tecnologie sempre più avanzate legate alla visione a distanza ma “immersiva” della realtà, dai panorama ai social media, avremmo assorbito, producendone, sempre più fantasmi, sempre più ombre nel mondo del pensiero. Probabilmente raccontare oggi sempre meno, sebbene al centro di una rivoluzione nella comunicazione e nelle – perdonatemi il termine abusato – narrazioni unica nella storia dell’uomo, ci fa sputare sempre meno fantasmi, che invece continuano ad addensarsi nella mente. Warner, peraltro, è una straordinaria studiosa proprio della fiaba, e dei riti, dei fantasmi delle storie e della nostra «modernità infestata». Riva definisce la sua digressione raccolta di «racconti epistemologici [che] sono espressione di una cultura visiva e letteraria che si può definire squisitamente “italiana”», poiché «l’arte italiana ha contribuito forse più di ogni altra alla genealogia di una realtà virtuale, a scopo sia religioso che profano: per rendere più vere e credibili al popolo analfabeta le storie bibliche o evangeliche; o per dare forma percepibile ai sofisticati sogni della cultura classica, a beneficio di una nuova élite culturale. Il tutto sullo sfondo di città e paesaggi reali ma idealizzati, o virtualizzati, sospesi al confine tra l’aldiquà e l’aldilà». O, più precisamente, sospesi in un altrove, il regno del fiabesco, che è poi il regno del racconto. L’invenzione del “mondo nuovo” segna anche il «passaggio dalla mappa al “tour”, come ha scritto Michel de Certeau, [e] si inaugura un nuovo tipo di pratica dello spazio. Contemporaneamente prende forma un nuovo tipo di osservatore attivo, in movimento, il prototipo del turista virtuale, una figura che per tutto il XIX secolo accompagna il diffondersi del Grand Tour e la nascita del turismo di massa. Il viaggio virtuale è una dimensione imprescindibile e uno degli effetti principali di quelle che Jonathan Crary ha definito “tecniche dell’osservare”, la costruzione dello sguardo all’interfaccia tra corpo e mente, visione e immaginazione. A distanza di quasi due secoli, il turista che viaggia solo per fotografare (o scattare un selfie) è ormai ridotto a un’appendice dell’apparato. Ha sovrapposto la propria immagine alla cognizione e all’emozione dell’altrove».

Un decisivo passo verso la realizzazione del virtuale e virtualizzazione del reale – inseparabili come un’ombra – si compie con l’invenzione della camera oscura. Da «Strumento prospettico miniaturizzante e modellizzante, [essa] esalta la realtà percepita con tutte le sue sfumature, incluse le ombre che non occludono più, ma esaltano la vista: “E in ciò consiste quella prospettiva, che chiamasi aerea, quasi che l’aria posta tra l’occhio e le cose, come le adombra un tal poco, così ancora le logori e se le mangi». Come suggerisce Riva a partire da questa citazione del veneziano Algarotti, autore di un importante Saggio sopra la pittura, questa prospettiva detta atmosferica è «la dimensione virtuale, atmosferica appunto, o auratica dell’immagine (imago), qualità che si aggiunge alla capacità “lineare” di mimesi del dispositivo (pictura)». Persino Leopardi si spinge a commentare il “dolce inganno” che la camera produce: «tutto l’effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall’oggetto reale»: «uno degli aspetti di quello che Leopardi chiamava “incivilimento” e noi potremmo chiamare “modernità” – scrive Riva – è una virtualizzazione del reale cui subentra, negli stadi avanzati, un’ancora più ingannevole realizzazione del virtuale, di cui siamo oggi testimoni», perciò «questa verità aumentata dell’immagine ne definisce anche la virtualità, oltre che il fascino che questa esercita sull’osservatore». Ecco allora cosa intendiamo per virtuale, «una combinazione di mimesi e immaginazione, picturae e imagines», in cui «pictura e imago sono ormai fuse, indistinguibili, entrambe interamente virtuali».

j

Siamo ancora a Venezia quando nel 1791 va in scena Il polemoscopio o la calunnia mascherata, che prende di mira l’omonimo dispositivo ottico nato per ragioni militari, poi diffusosi nella società civile e che Casanova, autore della piéce, trasforma in oggetto di scena e da guerriglia erotica. Grazie alla combinazione di specchi in esso contenuta, con il polemoscopio è possibile osservare un oggetto occultato alla vista. E ciò consente a Riva di attualizzare ancora una volta la modernità di questa invenzione all’interno delle tecniche dell’osservare: «nell’età delle reti sociali, la nostra “identità” è una simulazione virtuale affidata a dispositivi che ci rendono l’obiettivo di innumerevoli sguardi di cui non siamo consapevoli. Da una parte ci danno l’illusione di poter giocare impunemente con i nostri avatar, le nostre “ombre”. Dall’altra ci rendono personaggi di una recita di cui ci sfugge completamente la trama». Ma forse la questione più rilevante di questo discorso attorno ai dispositivi visuali riguarda la celebre aura dell’opera d’arte invocata da Benjamin. Secondo Adam Lowe «le nuove tecnologie dell’immagine […] ci consentono di colmare il divario tra un oggetto e la sua riproduzione» perché «digitalità e aura hanno molto in comune, la tecnologia digitale può essere usata per registrare aspetti diversi dell’oggetto. L’aura abita questi spazi». Come precisa Riva, «se per Benjamin l’aura è un’emanazione, ciò che “traspare” nella copia digitale è una rigenerazione della “presenza” come percepita dall’osservatore». Qui ha luogo anche la magia di cui parlava Baudelaire in riferimento all’arte moderna, ovvero «una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto, il mondo esterno all’artista e l’artista nella sua soggettività». In altre parole «l’aura si condensa nello sguardo. Ma in questa rigenerazione è all’opera qualcos’altro. Qualcosa di più inquietante. E fantasmagorico». Ombre, ancora ombre, fantasmi. La disamina di Riva termina con un capitolo intitolato non a caso “Ombre lontane” alle soglie del XX secolo: la nuova tecnologia si chiama stereoscopio, si chiama fotografia e «su questa soglia, il luogo della visione, si condensa il significato del virtuale: attraverso lo stereoscopio le ombre delle cose possono manifestare la loro piena potenza suscitando la nostra riflessione». Con la stereoscopia però siamo a una svolta decisiva, poiché si tratta di una tecnologia che riproduce direttamente il reale, senza rappresentarlo pittoricamente («il facsimile della realtà emana ora dalla cosa stessa, non dalla sua copia» e allora sembra un’esperienza diretta, reale), e questo conduce a «invertire il punto di vista e puntare le lenti dal mondo esteriore verso quello interiore». L’occhio e il dispositivo diventano inseparabili – è l’occhio il dispositivo o il dispositivo a essere un occhio? Entrambe le cose simultaneamente. Così come l’uomo desidera vedere i suoi fantasmi e al contempo li teme.

Riva cita in conclusione Susan Sontag che, riferendosi all’idea di Platone delle immagini come ombre, ritiene la forza delle fotografie provenire «dall’essere realtà materiali a loro pieno diritto, depositi riccamente informativi lasciati nella scia di ciò che li ha emessi, mezzi potenti per rovesciare le cose e trasformare la realtà in un’ombra». Ma anche per trasformare le ombre in realtà, proprio come hanno finito per fare la realtà virtuale e quella aumentata, per non parlare dell’intelligenza artificiale. Mi viene alla mente un’opera che più di tutte inaugura il Novecento come il secolo dell’ombra (o delle ombre o dei doppi: da Whitman a Carroll a Freud e Schnitzler, passando per Pessoa), ed è il Peter Pan di James Matthew Barrie, dove forse passa troppo sotto traccia una scena che dà avvio all’azione: la perdita dell’ombra del ragazzo che non voleva crescere, la sua incapacità di ricucirla pur riconoscendola e la conseguente necessità dell’altro per riaverla e riaversi. Se la figura di Peter Pan compare per la prima volta nel 1902 nell’inclassificabile romanzo L’uccellino bianco e poi “cresce” nella versione teatrale del 1904 (prima di finire nel libro Peter Pan nei giardini di Kensington), non è un dettaglio secondario il fatto che la storia cominci con un libro fotografico. È il 1901 e Barrie, un uomo che ha molto sofferto la perdita precoce di suo fratello appena quattordicenne, accoglie nella sua dimora inglese in campagna i fratellini Llewelyn Davies, tra i quali figura anche il piccolo Peter. Per loro lui diventa lo “zio Jim”: li fa travestire, divertire, passeggiare nella natura, li incita a costruire storie. E li fotografa: nasce così uno strano libro intitolato The boy castaways of Black Lake island con testi e immagini fotografiche. Barrie ne stampa due sole copie: una sarà perduta, l’altra è conservata alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University. Provate a guardare quelle fotografie: quell’ombra si annida lì, in quell’aura generata e una storia “aerea” comincia. Il volo, che in quegli anni è in fase di sperimentazione e grazie al quale Peter Pan fuggirà dalla sua casa materna, porta a staccare l’ombra da terra, per usare un’espressione di Daniele Del Giudice. Ma l’ombra non si dissolve, riappare in forme molteplici, e molteplici allora diventiamo anche noi, senza più distinguere la mimesi dall’immaginazione di noi stessi. «La tecnologia digitale promette di rendere il tempo reversibile [Peter Pan!]: tramite una simulazione possiamo recuperare un artefatto irrimediabilmente perduto, o meglio il suo fantasma virtuale, la sua ombra il suo simulacro». Qui Riva accosta due termini, simulazione e simulacro che hanno evidente origine comune anche con il “simile”, la cui radice in sanscrito significava “eguale, medesimo”: come distinguere allora l’ombra dalla luce? Come resistere alla «inavvicinabile lontananza» delle ombre nel tempo dell’IA? Come spiega Sergio Benvenuto, «Ciò che ci perturba, in fin dei conti, è l’irrompere del significante là dove non ce l’aspetteremmo, nel reale stesso. Freud dice nel saggio che l’effetto unheimlich ci rivela un modo di pensare primitivo, magico e sovrannaturale, che pensavamo di aver superato». Eccoci ancora all’irrompere del virtuale nella realtà e del reale nella virtualità. Nel recente volume L’intelligenza artificiale e i suoi fantasmi Moriggi e Pireddu ammettono che «è difficile tenere i fantasmi lontani da un discorso sull’intelligenza artificiale. E, in generale, da qualsiasi discorso graviti attorno alle tecnologie», come in fondo testimoniava anche la serie di conferenze che Calvino tenne negli anni Sessanta dal titolo Cibernetica e fantasmi. Non ci liberemo facilmente di queste ombre, perché ci piace guardare dove vanno e dove ci guidano questi fantasmi che abbiamo portato alla luce.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO