I vestiti nuovi della fiaba

11 Febbraio 2023

A Pontecagnano, in provincia di Salerno, ha sede uno dei più ricchi musei italiani dedicati al mondo etrusco. Tra le opere conservate al suo interno, spicca un pezzo davvero singolare, noto come il vaso del pittore del Lupo cattivo. Si tratta di una coppa tipica dell’artigianato etrusco, risalente al VI secolo a. C., che “emigra” nel territorio campano. Così recita la didascalia, che ci ragguaglia anche sul dettaglio relativo al disegno ornamentale, raffigurante – come suggerisce il nome del reperto – un lupo “cattivo” e una figura, «una Gorgone che vuole spaventarci». Non possedendo alcuna competenza in materia di archeologia, ogni qual volta entro in un museo, mi fido ciecamente. In questo caso gli occhi si sono sbarrati. Ma quella figura rappresentata sul vaso somiglia a Cappuccetto Rosso! Ha persino lo chaperon rouge di cui parlava Charles Perrault, colui che per primo raccolse una versione della celeberrima fiaba alla fine del Seicento. 

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Pittore del lupo cattivo (etrusco-corinzio), kotyle con gorgone, da 600-585 ac ca., pontecagnano (MAN pontecagnano).

Tuttavia la didascalia contraddice l’intuizione: quella “bambina” è la Gorgone, e in effetti quelli vicini al suo corpo somigliano a serpenti. Poco male. Il nome dell’autore resta fiabesco: il pittore del Lupo cattivo. La raffigurazione somiglia molto anche a una recente versione della fiaba disegnata da Marjolaine Leray in cui Un Piccolo Cappuccetto rosso si prende gioco del temibile animale. In fondo mito e fiaba hanno una origine comune, come ha spiegato Vladimir Propp in Le radici storiche dei racconti di fate (Bollati Boringhieri, 1985): «Il momento del distacco dal rito è anche l’inizio della storia del racconto di fate, mentre il suo sincretismo col rito ne costituisce la preistoria. […] Ma la fiaba, già spoglia di funzioni religiose, non rappresenta di per sé nulla che sia inferiore al mito dal quale è derivata. Al contrario, liberata dai convenzionalismi religiosi, essa evade nella libera atmosfera della creazione artistica che riceve il suo impulso da fattori sociali già diversi, e incomincia a vivere una vita rigogliosa». La fiaba, le cui origini si perdono nella notte dei tempi (e di cui certamente pure gli etruschi erano narratori), sarebbe però sorta all’interno di una sorta di secolarizzazione dei racconti mitologici e dei riti iniziatici a essi legati, conferendoni validità artistica. Propp stesso ammette che non esistono prove di questa teoria, sebbene appaia evidente la vicinanza tra racconto religioso e racconto fiabesco; si pensi anche solo a un dato: i due libri più tradotti e diffusi al mondo sono la Bibbia e Pinocchio di Carlo Collodi.

Assistiamo negli ultimi tempi, sulla scia dell’enorme successo (anche editoriale) della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, a una vera proliferazione di racconti dal sapore fiabesco. Forse perché la vera fiaba è, a ben guardare, il mondo stesso che oggi abitiamo, che supera di gran lunga – o perlomeno eguaglia – le visioni della fantascienza che fino a un secolo fa attraevano anche per un desiderio di possibilità misto a impossibilità di realizzazione. È probabile che la letteratura per ragazzi, e in particolare il genere della fiaba, sia tornato a occupare un posto di primaria rilevanza per questa mimesi con la realtà: è quest’ultima a essersi configurata sempre più come surreale, a tratti non-sense, è la vita a porsi il più delle volte come una serie di azioni prive di nessi logico-causali, sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze a incarnare quella ibridazione di cui gli adulti avrebbero bisogno per meglio adattarsi alle esigenze di una quotidianità che fatichiamo a definire. Contemporaneità postmodernità, liquida, digitale: o forse soltanto neo-fiabesca? 

Mentre abbiamo immaginato un mondo come avrebbe dovuto essere, il mondo come oggi è venuto a mostrarsi, ci costringe a immaginare una realtà alternativa – aumentata, virtuale – che sbrogli il disordine. Al contempo il mondo è venuto a dotarsi di una patina che è di per sé fiabesca, magica, cosmica, per cui per guarire dal veleno occorre anche assumerne: nutrire quella fiaba con altri elementi fiabeschi, la magia di effetti magici, il caos cosmico della cosmesi cosmogonica. Questo disordine, questa non-linearità, questa incoerenza noi abbiamo cercato di risputarla nella letteratura, tranne che nel verismo, nel realismo, neo- o iper-, e adesso sembra che la richiesta – senza che l’utilizzo di questo termine sia di per sé indice di analisi di consumo – sia verso un ultrarealismo, un metaverso dell’oltre, del possibile. La campagna promozionale lanciata da Meta sostiene che il metaverso è uno spazio virtuale, ma il suo impatto sarà reale. Italo Calvino, nella prefazione alle Fiabe italiane che aveva raccolto nei primi Anni Cinquanta del secolo scorso, scriveva: «Ora che il libro è finito, posso dire che non è stata un’allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell’unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere». E non è un caso che la struttura fiabesca sarà al centro della produzione calviniana, del quale peraltro quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Dopo aver sposato (e spostato) appieno nelle questioni sociali il motto pubblicitario Impossible is nothing, avvertiamo la necessità che Impossible is fabling, che l’impossibile a cui siamo chiamati ogni giorno sia fiabesco. 

Tornando alle origini del nostro discorso sulla fiaba, Lykaion era il bosco sacro che circondava il tempio di Apollo Lykos ad Atene: in questo “territorio del lupo” teneva le sue lezioni Aristotele ed è da qui che nasce anche il termine “liceo”. Il lupo è dunque connesso alla sapienza, tanto che in molti miti è uno psicopompo, accompagna le anime nell’aldilà, offrendosi in un certo senso come guida tra le tenebre: la radice del suo nome lyk è in effetti la medesima della luce. Oggi, certo, «Il bosco si è ristretto ancora», il lupo ha cambiato forma, Cappuccetto abito. Se mi è consentito citare un bambino di cui non ricordo nome ed età (non più di 9 anni), «il tempo è un filo che diventa vestito»: così era scritto nell’esposizione che il Festival “Tuttestorie” aveva dedicato al tema dell’edizione 2022, il tempo. Il lupo non è che una maschera, Cappuccetto non è che una veste. 

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Questo accade nel conturbante Le ragazze. Sette fiabe (La Nuova Frontiera, 2022, trad. di Anna Patrucco Becchi) di Annet Schaap, illustratrice olandese che qui è alla seconda prova da scrittrice, pur conservando nel testo illustrazioni che richiamano i più grandi maestri, tra i quali certamente Gustave Doré. Nel suo racconto la belva finisce delimitata in uno spazio preciso: «“Allora ancora una firma qui. Anche un’impronta della zampa va bene lo stesso” aveva detto il guardaboschi sorridendo. E lui ubbidiente aveva dato la propria zampa. Era diventato uno schiavo. Un leccapiedi. Un lupo giocattolo». La nuova Capuccetto rosso conserva i tratti originali in un impermeabile rosso fuoco con le strisce riflettenti. Va ancora a piedi dalla nonna, ma usa il navigatore sul cellulare, anche se conosce la strada. È attratta dal bosco, è attratta da quella bestia. Il lupo è attratto da quanto è fuori il bosco, oltre il filo spinato.  «Infilati tra il filo spinato, cattura la preda! Non puoi sbagliare, il tuo stomaco sarà pieno, la tua testa sarà compiaciuta, saresti pazzo a lasciartela scappare... Sì, ma il fischio. Sì, ma il guardaboschi. Sì, ma la puntura, la paglia, il materiale educativo… La sua testa sta per impazzire, si ripiega su se stesso. Lui è lì e lei è lì e la recinzione è fra loro». È lei a sedurlo, a chiamarlo, a invitarlo. «“Ehi?” La ragazza scuote il filo spinato. “Allora vieni o no?”».

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Bambina - copyright e courtesy di Rossana Bossu.

L’ambiguità è una delle caratteristiche principali dei protagonisti del racconto fiabesco. Emblematica anche la figura di bambina, di ragazza costantemente tratteggiata nelle neo-fiabe della poetessa Chandra Livia Candiani (Sogni del fiume, illustrazioni di Rossana Bossù, Einaudi 2022). Sono tutte bambine dal destino straordinario, esseri potenti e fragili che amano qualcuno o qualcosa di impossibile; anche quando la protagonista è una rosa, quel fiore è una bambina: di cos’altro son fatti i bambini se non di vento? C’è una pattumiera che si chiama Gemma e racconta della storia danzante della polvere, e persino in Il silenzio di Milano questo suono-nonsuono ha le fattezze di un infante, o di un poeta: non sono forse fatti della stessa impalpabile pasta i bambini e i poeti? Il personaggio che maggiormente richiama Cappuccetto Rosso è la bambina che ama il fiume, che vuole essere il fiume. Che vuole ritornare a essere una cosa del bosco, della natura, che sente di appartenere al bosco, alla natura, al fiume. Forse bambina e lupo sono lo stesso vivente, sono il bene e il male, sono la verità e la menzogna, la benevolenza e la ferocia, la bocca e l’acqua. Il corso d’acqua che la bambina vuole sposare «conosceva l’amore degli esseri umani per il fiume e sapeva che non dura, ma sentiva che la bambina era diversa, la sua ferocia non ammetteva ostacoli ed era così rapita dalle sue voci da non ascoltare alcun consiglio o ribattere più veloce del guizzo di una trota». La figura infantile descritta e raccontata da Candiani è il frutto di una reale capacità di dare la parola a quella voce che resta dentro di sé, e la poetessa ha confermato questa ricerca nella sua produzione, con La bambina pugile, ma anche con Dove vanno le parole, un’antologia che raccoglie versi scritti dai bambini delle periferie milanesi che pure tengono alto il filo del fiabesco. La bambina che ama il fiume confessa al corso d’acqua: «Conosco il tuo nome segreto. Sempremai ti chiami, sei un essere destinato, segui il tuo corso, non posso amare gli uomini perché non hanno più destino, non seguono alcun disegno, sono travolti». “Sempre” e “mai” sono due avverbi che troneggiano nella fiaba, sin da quando questo tipo di racconto ha cominciato la sua avventura orale: il carattere di sospensione temporale si lega a quello della esagerazione, del molto, del troppo, dell’abbondante, dell’assoluto. 

La stessa sospensione restituita pure dalle meravigliose illustrazioni di Rossana Bossù, artista che ha già lavorato a importanti e premiati picturebook e che sembra avere nel blu la sua nota di fondo, come in una fragranza visuale. Un lavoro poetico di scrittura e disegno, parola e immagine, in cui Candiani giunge a una consapevolezza simil-calviniana: «Ora, quello che da giovane cercavo negli esseri umani, l’ho trovato, nel bosco: essere un insieme di briciole di biodiversità». 

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Infine in un volume appena pubblicato dalla casa editrice ateniese “Aiora” sono raccolte una serie di Fiabe dalla Grecia (2022, trad. di Elisabetta Garieri), in una collana che invero propone classici della letteratura “neo-greca”. La premessa al libro, in un’edizione piuttosto elegante e curata, gode anche in questo caso dei disegni di Panagiotis Stavropoulos, certo più radi dei due libri di cui abbiamo poc’anzi parlato, ma che in tal guisa richiamano proprio i primi libri di fiabe illustrati per ragazzi. Si tratta di un corpus di favole, fiabe, proverbi, leggende, provenienti da diverse aree (tra cui l’Italia della Magna Grecia), e il termine greco usato per indicare il genere è “Paramythia”, il che tradisce e conferma la natura comune di miti e fiabe. Tra i vari racconti proposti appare curiosa la presenza di “Cappuccina”, una bambina che un giorno compare tra le braccia di una donna che aveva pregato il dio Sole di diventare madre con una promessa: quando avrà compiuto i dodici anni, la divinità potrà tornare a riprenderla con sé. E così accade: alle soglie della pubertà il dio assume le sembianze di un bellissimo giovane e torna dalla bambina per portarla nella sua fastosa dimora. Ma la lontananza dalla madre si farà sentire, così il Principe acconsentirà a riportare a casa Cappuccina su un carro alato trainato da cervi, non prima di aver superato altre prove, tra cui la terribile Lamia con le sue figlie.

Certo, sarebbe difficile evidenziare un nucleo comune a questa fiaba di area cretese e a quella che conosciamo di Cappuccetto Rosso (specie nelle versioni dei fratelli Grimm), ma alcune tematiche coincidono. Al di là del nome, pensiamo all’età in cui la bambina lascia il nido materno, e consideriamo pure che in altre aree del mondo, come ad esempio in India, la presenza del lupo è in certi casi sostituita da un ragazzo: questo ha portato molti a leggere la vicenda come il passaggio dall’infanzia all’età adulta, e il colore rosso rappresenterebbe la comparsa del menarca. Come riportato ancora nella premessa al volume, la forza di questi racconti, secondo lo studioso greco M. G.  Meraklìs, sta nel fatto che «la fiaba è un genere letterario in cui più si cerca, più si trovano significati». Più si cercano bambine, più si trovano figure, e più si cercano lupi, più si trovano trasfigurazioni: non soltanto degli esseri protagonisti, ma del mondo-bosco che ci accoglie e ci respinge “sempremai”.

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