Ai Weiwei, Legocentrismo

2 Maggio 2024

Un giorno d’estate di cinque anni fa mi viene regalata – non ricordo se per un compleanno o per puro dono – una piccola scatola rossa infiocchettata. Scartandola, scopro tre piccoli Lego che riproducevano tre uomini, tutti con un cappello: uno suonava la tromba, il secondo aveva una grossa radio in mano, il terzo un microfono. In buona sostanza tre me, che rappresentavano anche tre meme: ero io quei Lego, rispettivamente tra sogno, realtà e rappresentazione. Un esempio che oggi direi lampante di Legocentrismo: la definizione non è mia, ma ho chiesto a colei che in un lampo l’ha coniata di usarla perché s’incastona perfettamente – proprio come i mattoncini colorati – con la possibilità ludica e creativa di questo gioco identitario di essere molti: un costruttore (una sorta di narratore extradiegetico), un protagonista della scena (narratore intradiegetico) e un critico-osservatore (vedasi alla voce: umarell). Il Legocentrismo si distingue dall’egocentrismo: non ci siamo semplicemente noi sempre e dovunque, ma sempre e dovunque siamo noi. Questo concetto Ai Weiwei lo ha esposto anche nella conferenza stampa di inaugurazione della sua mostra alla galleria Continua di San Gimignano: «In certi luoghi io esisto, anche se non posso sempre dimostrare che esisto». Neither… nor, che resterà visitabile fino al 15 settembre 2024, parla sì della polarizzazione al centro della nostra contemporaneità, ma anche di questo stato sfuggente dell’essere. È Alice che alla domanda del Bruco «Chi sei tu?», vacilla, e non può che candidamente ammettere: «Veramente non saprei, signore, almeno per ora... cioè, stamattina quando mi sono alzata lo sapevo, ma da allora credo di essere cambiata diverse volte». 

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Quando mi capita di osservare mio nipote decenne scartare con impazienza una scatola di mattoncini Lego, provo un sentimento che non è né invidia né incomprensione (neithernor): è entrambe le cose e allo stesso tempo nessuna delle due. Non ho la pazienza dei pezzi e sento che non riuscirei a ricomporre quella struttura scomponibile in unità modularmente uguali – mi è sempre riuscito male anche con i puzzle, lego bidimensionali, e persino con certe soluzioni Ikea che, al pari di Lego, fornisce istruzioni di montaggio del tutto particolari, quasi sottoforma di fumetto. Forse mi manca il centro, il punto da cui partire, da cui avere origine. Con tutta probabilità il bambino, invece, non si cura minimamente di questo disordine, dal momento che la sua vera natura non sta tanto nel porre domande, ma nel cercare – continuamente, disperatamente – risposte, risposte sempre nuove, risposte che costruiscano una struttura, non importa se reale o immaginaria. Quel bambino s’interessa solo a qualcosa che vede non-finito: la sua energia è creatrice e ricreativa, come quella di un artista. E come quella di Ai Weiwei, che difatti, nella vertiginosa retrospettiva che gli dedica Galleria Continua a San Gimignano non nasconde il legame tra i Lego e la sua infanzia, la sua educazione. Ma nemmeno l’ego nei Lego: ecco l’artista sostituirsi a Giuda nell’Ultima cena di Leonardo, o in primo piano nella Ronda dei carcerati di Van Gogh, due esempi di opere esposte nel borgo toscano che l’artivista – artista e attivista – cinese ha realizzato con i famosi mattoncini scandinavi. Costruire con i Lego ha molto a che fare con la costruzione di sé e con la costrizione di sé, due condizioni assolutamente necessarie nel gioco e nell’arte: la capacità di mettersi alla prova è anche la volontà di assumere su di sé la prova. Oggi sono Giuda, perché mi presto al grande gioco mercantile dell’arte, domani sono il detenuto: né questo né quello m’identificano univocamente.

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Nei Lego non esistono istruzioni nel senso a cui siamo stati abituati nel tempo con altri tipi di oggetti d’uso comune, ed è curioso a dispetto della evidente capacità istruttiva di questa materia ludica che ha conquistato successo da una parte all’altra del pianeta. I mattoncini funzionano alla stregua della lingua che ciascuno di noi comincia a parlare senza istruzioni, come riordinando un caos, certamente attratti dalle infinite possibilità combinatorie. I Lego sono un linguaggio, e in quanto linguaggio, sono media. L’origine del nome promana dal suo fondatore danese, eppure in italiano vi è una interessante coincidenza para-etimologica: “lego” è prima persona del verbo “legare”, “mettere insieme”, che è esattamente quanto bisogna fare con le piccole innumerevoli forme geometriche colorate prodotte da questa azienda sin dalla fine degli anni Trenta del Novecento. “Lego”, peraltro, è anche il verbo latino da cui si fa derivare il verbo “legere”. Come ha spiegato la neuroscienziata Maryanne Wolf, noi “non siamo nati per leggere”: la lettura è un atto assolutamente non naturale che noi abbiamo inventato per tradurre in segni riconoscibili l’esperienza, tanto è vero che abbiamo dovuto – e continuiamo a dovere – imparare sempre daccapo. E leggere un testo significa, parafrasando Eco, leggere quasi la stessa cosa: ciascuno di noi mette insieme le lettere (nella maggior parte dei casi) nella stessa maniera, eppure quell’atto non produce il medesimo risultato interpretativo. Ogni atto di lettura è personale, ogni atto di lettura è anche un gesto politico in cui ci s’impossessa di un significato che siamo pronti a difendere e a diffondere. Scomposizione e frammentazione che sono alla base anche dell’invenzione della stampa a caratteri mobili in legno della dinastia Song intorno all’anno Mille. Weiwei stesso, nel tentativo di parlare di sé e del suo lavoro (non si possono non scorgere lego- ed ego-centrismo nel suo percorso di artista totale), fa notare che “i metodi e i mezzi di produzione hanno sostituito il controllo manuale e ciò ha portato a un elevato livello di accuratezza e precisione delle immagini completate. Questo è il vantaggio linguistico della tecnologia informatica e una presentazione figurata di un sistema logico intelligente per l’era digitale”.

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Le opere di Ai Weiwei che Galleria Continua espone nella sua prestigiosa, raffinatissima e labirintica sede di San Gimignano destano perplessità e stupore. Non soltanto Lego, ma anche ceramiche, opere storiche che ripercorrono il suo percorso artistico dal 1995 a oggi. Se ci soffermiamo ancora su questi “mosaici plastici”, viene da chiedersi: cosa stiamo guardando? Cosa stiamo leggendo? È la Gioconda di Leonardo o quella di Weiwei? È l’ultima cena di Raffaello o una “ri-produzione” con i Lego? Esattamente le stesse questioni poste dall’epoca della riproducibilità tecnica e che abbiamo – forse – smesso di porci con la stessa urgenza di qualche tempo fa, ma ora rinfocolate dai timori, infondati e infantili, questi sì, di un’intelligenza artificiale capace di prendere il nostro posto in molti ambiti della conoscenza e della produzione culturale. L’artivista cinese ha le stesse iniziali di Intelligenza Artificiale e di Andy Wharol, due “menti” in cui risiede tutta la luce della contraddizione (Weiwei ha quotazioni frastornanti, mentre dileggia il mercato) dell’arte contemporanea e dell’impiego di nuove tecnologie e nuovi linguaggi. Così ho chiesto a Chat Gpt cosa ne “pensasse” del lavoro di Weiwei: “se un'opera come quella di Ai Weiwei realizzata con i LEGO sia considerata ‘vera arte’ dipende in larga misura dalle convinzioni individuali su cosa l'arte dovrebbe essere e fare. La sua accettazione nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo, e il dibattito che suscita, suggeriscono comunque che molti la vedono come un contributo valido e potente al discorso artistico”. 

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Dieci anni fa, all’interno di una mostra di Weiwei al Pirez Art Museum di Miami in Florida, un uomo, Maximo Caminero, si avvicina alla serie di vasi cinesi colorati dell’artista cinese, ne prende uno e lo lascia cadere. Tra le opere esposte (in Florida e oggi alla galleria Continua), vi era anche la serie di tre fotografie «Dropping a Han Dynasty Urn» in cui l’artista cinese manda in frantumi un vaso della dinastia Han. Un bel cortocircuito. Pensiamo al gesto contrario nelle opere realizzate con i mattoncini colorati: di colpo l’“Ultima cena” si frantuma fino al più minuscolo tassello di Lego, come la lingua implode in ogni nuova generazione, incomprensibile – anche idiomaticamente e foneticamente parlando – alle precedenti. L’arte torna nella sua componente ludica ed educativa, e lo sguardo è messo alla prova. Se di fronte a una di queste opere si socchiudono gli occhi come quando la sera possiamo trasformare con uno sguardo rarefatto le luci delle macchine e della città in scie luminose, l’incantesimo accade: il sorriso della Gioconda torna a essere ineffabile, indagatorio, ha la stessa potenza criptica. Secondo Emanuele Bevilacqua, autore di un saggio su un concetto centrale da qui ai prossimi anni, Attenzione e potere (Luiss University Press, 2024), «gli artisti hanno molto spesso stimolato l’attenzione e curiosità del pubblico posizionando dettagli marginali o occultati, ma che alla fine colpiscono lo spettatore più avvertito». Bevilacqua cita il dipinto Il sogno di Sant’Orsola di Carpaccio in cui l’artista fissa un particolare nella sezione inferiore del quadro: delle pantofole turchesi ai piedi del letto. Personalmente non le avevo mai notate. Ma Bevilacqua fa notare che i dettagli di quell’opera, tra cui le pantofole, fungono da “notifica”: una metafora molto utile, perché ormai così pervasiva nel nostro quotidiano, da farcene subito comprendere la portata e l’effetto. Senti una notifica anche quando osservi la Venere dormiente di Giorgione nella versione legotica di Weiwei: l’artivista cinese ha posizionato in basso nell’opera una gruccia. Cosa ci fa una gruccia in quel quadro? L’intentio auctoris vuole rievocare la brutale pratica degli aborti autoindotti, ma non intendo celare la personale lettura di questo dettaglio. Guardiamo la seducente fanciulla che riposa coprendosi con la mano sinistra il pube: quel gesto è ineffabile tanto quanto il sorriso della Gioconda. Sta sognando quella Venere? Davvero si copre per vergogna le pudenda? O forse trova calore e conforto in quella posizione così naturale e al contempo plastica? Allora la gruccia di Weiwei – un object trouvé che l’artista aveva già utilizzato nel 1983 per l’opera ready made Hanging man, in cui ricalcava il profilo di Duchamp – è allora il tempo in una immagine, è anche la cristallizzazione del gesto di Venere che ha smesso i suoi panni, è il nostro ferreo desiderio di attendere che si svegli e si accorga del nostro sguardo. Giorgione ci era riuscito ponendo al centro dell’opera un tronco d’albero mozzato da cui è possibile intuire il tempo immemore da cui quella fanciulla dorme sotto i nostri occhi. Non l’avevo mai notato prima: è collocato esattamente all’altezza del delta di Venere, del delta di questa Venere che ci spinge fuori, che ci spinge a restare a fissarla. Così la nudità non è né solo il suo corpo né solo i drappi sotto di lei, è la carne senza veli e i veli senza carne.

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In Rompere le regole, appena pubblicato da “Il Saggiatore”, il funambolico Salvador Dalì scrive: «Nessuno sforzo collettivo è arrivato a creare un mondo di sogno così puro e conturbante come questi edifici modern style, i quali, in margine all’architettura, costituiscono, da soli, autentiche realizzazioni di desideri solidificati, dove il più violento e crudele automatismo tradisce dolorosamente l’odio della realtà e il bisogno di rifugiarsi in un mondo ideale, analogamente a quanto avviene in una nevrosi d’infanzia». Se giochiamo pensando quegli edifici modern style come le costruzioni legocentriche “in margine all’architettura”, eccoci nella nevrosi d’infanzia, tra il desiderio di rivivere quella stagione e di allontanarsene per raccontarla. È evidente che molta dell’attenzione, a dispetto di una retrospettiva che indaga buona parte della produzione di Weiwei degli ultimi trent’anni (tra ceramiche, bambù, sgabelli di legno, fotografie-installazioni), è stata catturata dalle opere realizzate con i Lego. Per un guardatore è difficile ignorare l’egocentrismo dell’occhio, che sempre vuole le sue parti e insieme vuole ricomporle in una mente-materia visuale. In fondo “Guardare è inventare”, dice Dalì, mentre ci cava gli occhi come nel suo chien andalou per rifondare la grammatica dello sguardo.

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