Sally Rooney e l’architettura delle relazioni
Peter ha trentadue anni, Ivan ventidue. Peter è un avvocato, Ivan un campione di scacchi. Peter è disinvolto, spigliato, e piace alle donne; Ivan è goffo, impacciato, e intimidito dall’altro sesso. Peter elargisce denaro a chi lo circonda, Ivan fatica a pagare l’affitto. Peter è diventato adulto molto presto, Ivan non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta di fratello minore. Peter frequenta due donne, Ivan nessuna. Sia Peter che Ivan hanno appena perso il padre. Peter e Ivan sono fratelli. Peter e Ivan sono i due protagonisti di Intermezzo, tradotto per Einaudi da Norman Gobetti.
Nelle differenze tra Peter e Ivan risiede il motore narrativo dei romanzi di Sally Rooney. Che non è l’amore, non è il sesso, non è l’amicizia, e non sono nemmeno i personaggi. Il motore narrativo dei romanzi di Sally Rooney è lo squilibrio – di classe, potere, età, ricchezza. Uno squilibrio che a un tratto raggiunge un punto di rottura, e fa implodere l’architettura delle relazioni. Il rapporto tra Ivan e Peter, che avevano fatto dell’asimmetria una forma di equilibrio, con ruoli e funzioni ormai consolidati all’interno del copione famigliare, viene improvvisamente stravolto: la morte del padre sposta il baricentro della loro relazione, obbligandoli a rinegoziare le rispettive posizioni per accomodare lo spazio dell’assenza. Il lutto è il catalizzatore del cambiamento – un cambiamento che per Ivan ha il sapore della rinascita e per Peter quello del disordine.
Nei giorni immediatamente successivi al funerale, Ivan e Peter vivono la propria vita su binari paralleli, spartendosi i capitoli del romanzo in una sorta di duetto a distanza: anziché unirli, il lutto diventa una questione privata che li porta ad allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, e che fa dell’alienazione uno dei temi del romanzo. Così, Peter non sa che, durante un’esibizione scacchistica in uno sperduto paesino della campagna irlandese, Ivan ha conosciuto Margaret; non sa che Ivan ha smesso di fare la parte del fratello minore, del ragazzino insicuro e “un po’ autistico”; non sa che tra le braccia di Margaret Ivan ha imparato a non essere schiavo del proprio talento, ha scoperto che la vita può anche non avere senso, e che in fondo va bene così. E Ivan, a sua volta, non sa che Peter non è l’uomo irreprensibile, tutto d’un pezzo e vagamente altezzoso che credeva di conoscere; non sa che Peter cerca di barcamenarsi tra due relazioni, non sa che tira avanti con un mix di alcol e benzodiazepine, non sa niente della sua vita sgangherata, non sa che Peter è sospeso su un baratro spaventoso. O meglio, nessuno sa niente finché i due fratelli non si ritrovano faccia a faccia nello stesso capitolo.
C’è una teoria, in chimica, che si chiama teoria degli urti. Dice che affinché si verifichi una reazione, i reagenti devono urtare tra loro. Ed è esattamente quello che succede a Ivan e Peter, che più che incontrarsi si scontrano, e lo fanno perché lo scontro è per loro l’unico modo di prendere atto del gradiente di potere che li separa. Peter e Ivan, quando si trovano faccia a faccia nello stesso capitolo, faticano a riconoscersi, scoprono di essere usciti dai ruoli che avevano sempre interpretato, ed è qui che arriva il punto di rottura del loro rapporto: lo squilibrio sprigiona tutta la violenza e la crudeltà che scorrevano carsicamente nel sottosuolo del loro rapporto. All’improvviso emergono in maniera dirompente i non detti di una vita, che Rooney – vera maestra delle giustapposizioni – liofilizza in un unico, cristallino scambio di battute. Il primo affondo viene da Ivan: “Perché non dici mai la verità? Pensi sempre di essere bravo in tutto ma non è così. La gente ti adula perché non ha il coraggio di criticarti. Ma io il coraggio ce l’ho. E tu non fai altro che dire bugie e banalità per tutto il tempo”. Peter sorride, un sorriso inquietante accompagnato da una sensazione di calore, mentre un’energia violentissima s’impossessa di lui. Ivan gli ha chiesto la verità, e Peter gliela sputa addosso: gli rinfaccia di essersi sempre voltato dall’altra parte, di non averlo mai aiutato quando era lui, Peter, ad aver bisogno di aiuto per uscire dalla depressione, e invece Ivan era scappato, se l’era filata come fa sempre quando le cose si mettono male. “Vuoi sapere perché ti tratto come un bambino? Perché sei un bambino, cazzo”. Da questo momento, tutto può finalmente cambiare: i loro ruoli sono stati esplicitati, rivelandosi per quello che sono, null’altro che vestiti di scena, e adesso che i due fratelli si sono smascherati a vicenda, possono ricominciare a guardarsi – e vedersi – per ciò che realmente sono diventati. La reazione, come insegna la teoria chimica, è resa possibile dalla violenza dell’urto, che in questo caso è anche una forma di liberazione – dai risentimenti, dalle vecchie sovrastrutture, dal gioco delle parti.
La liberazione è uno dei principali pilastri del romanzo, ed è qui che, a mio avviso, si sente forte l’onnicitata influenza di Joyce, che non sta tanto nel flusso di coscienza – che pure c’è – ma in quelli che Rooney a più riprese definisce “viluppi”. Sono viluppi che in apparenza si discostano da quelli di Joyce, ma solo perché diversi sono gli anni in cui Rooney vive e diversi i libri che sceglie di scrivere. Il primo viluppo riguarda il linguaggio, che tiene Ivan e Peter inchiodati alle rispettive solitudini. Quando Peter telefona a Ivan per chiedergli di pranzare insieme, la conversazione langue, impantanandosi in una miriade di domande, precisazioni, fraintendimenti. I due fratelli sembrano comunicare in due lingue diverse: si parlano ma senza capirsi, senza mai riuscire a sintonizzarsi sulla stessa frequenza. “Non capisci mai bene di cosa sta parlando, vero?”, si chiede Peter. Che poi, non a caso, cita Wittgenstein: “Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo”. Il linguaggio è il primo elemento che li avviluppa, ponendoli su due piani diversi e condannandoli a un’incomunicabilità che inevitabilmente si trasforma in incomprensione, non solo linguistica ma umana, esistenziale. Rooney esamina il linguaggio applicandolo alle relazioni, sempre per evidenziare una distanza, una paralisi, e per dirci che quel che le interessa non sono gli individui, ma lo spazio tra loro.
L’altro viluppo, cruciale nel libro, è rappresentato dalla società, e da quel che la società considera normale – un tema a cui Rooney torna spesso, almeno sin da quando ha deciso di intitolare il suo secondo romanzo Persone normali. La difficoltà, sia per Ivan che per Peter, è capire come integrare le proprie relazioni nel tessuto sociale: è normale che Ivan stia con una donna di quattrodici anni più grande e con un divorzio alle spalle? È normale che Peter abbia una relazione con Naomi, studentessa universitaria molto più giovane di lui e che a tempo perso guadagna qualche soldo come sex worker, ma non riesca a staccarsi da Sylvia, l’amore della sua vita? Chiedersi se è normale significa cercare di capire se, ed eventualmente come, queste relazioni possano essere presentate alla società e inserite nei parametri del mondo. E questo, di nuovo, chiama in causa il linguaggio, il tentativo di trovare le parole per definire le relazioni e, soprattutto, presentarle al resto della società – e in questa, come in molte altre cose, Rooney coglie alla perfezione lo spirito del nostro tempo.
Da ultimo, c’è il grosso tema della religione, difficilmente ignorabile in Irlanda, un paese la cui storia è stata plasmata da un’identità religiosa storicamente conflittuale e dal legame tra religione e istituzioni statali. Nei romanzi di Rooney, in generale, la religione ha a che vedere con la bellezza, con le epifanie e i momenti dell’essere, e più che altro si trova nelle persone – è una religiosità, la sua, adattata al XXI secolo. E forse il vero perno di Intermezzo è proprio il personaggio più eminentemente religioso: Sylvia. Sylvia è dolce, paziente, ragionevole; è circondata da un’aura di grazia, di misericordia, che ne fa una figura mariana. Sylvia è “lei che capisce tutto e sa tutto”. Sylvia spiega a Peter cos’è davvero la vita, gli spiega il suo rapporto con Ivan, gli dice che dà troppa importanza alle conversazioni, e che la vita non è solo parlare. Sylvia anni prima ha avuto un incidente che l’ha lasciata con dolori cronici in tutto il corpo e l’ha costretta a chiudere le porte alla sessualità – o meglio, al tipo di sessualità che la società reputa normale, quella penetrativa, – e ciò fa di lei, agli occhi di Peter, una figura eterea, celeste. Dopo l’incidente, Sylvia ha chiesto a Peter di lasciarla, perché era meglio per entrambi, perché non se la sentiva di tenerlo legato a sé. Eppure Peter continua a cercarla, e Sylvia a farsi trovare; in lei Peter trova una forma di quiete, in lui Sylvia trova il ricordo di una vita passata. E in lei, Peter e Ivan insieme, trovano l’anello che li lega: il primo momento di rottura del loro rapporto risale all’incidente di Sylvia – dopo, dice Ivan, “è cambiato tutto”. Sylvia è una mediatrice, a metà tra cielo e terra, una sorta di moderna Beatrice.
C’è una parola che in Intermezzo ricorre spesso, ed è l’aggettivo reciproco. Reciproco è una parola dall’etimologia poetica. Unisce recus e procus, indietro e avanti. È reciproco ciò che va avanti e torna indietro. La reciprocità ha in sé un atto di fede: che ciò che do mi sia restituito. Per quasi tutto il romanzo, tra Ivan e Peter non c’è praticamente nulla di reciproco. Non c’è una strada che li collega, un terreno comune in cui può avvenire la negoziazione di parole e sentimenti che sta alla base delle relazioni. Quando cercano di avvicinarsi, condividendo lo spazio di un capitolo, finiscono per scontrarsi: la prima forma di reciprocità tra Ivan e Peter è la violenza, l’odio, la rabbia. La loro è una relazione tra due avversari. Ed è significativo, perché una delle poche cose che accomuna i due fratelli è il desiderio di vincere sempre e non perdere mai: probabilmente per tutti è così, riflette Ivan. Ma poi subito si corregge, ammettendo che per lui e Peter quel desiderio è forse stato più importante, più intenso: “l’ingenua convinzione giovanile che vivere una vita così sarebbe stato possibile”. Ecco cosa scoprono Ivan e Peter alla fine del loro intermezzo, ecco la scheggia di verità che Rooney ci consegna: che ai vincitori corrispondono sempre dei vinti, che il desiderio di vincere cela la brama di prevalere sull’altro, e che invece, tra due persone, tra due amici, tra due fratelli, o si vince insieme, o non si vince affatto.
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