Speciale
Cime tempestose
Calvino scrive in Perché leggere i classici che i classici sono quei libri di cui di solito si sente dire "sto rileggendo..." e mai "sto leggendo...."
Da quando ho smesso di studiare materie scientifiche per dedicarmi alla letteratura, ho cominciato gradualmente a dimenticare ciò che sapevo. Il tempo ha semplificato parecchio la mia comprensione di certi fenomeni scientifici, ma non l’ha erosa del tutto: una volta dimenticate formule e procedimenti, mi sono rimaste nozioni isolate, che l’azione della letteratura hanno trasformato – forse riciclato – in metafore. Potrei dire che la metafora è la risacca umanistica della mia vecchia memoria scientifica. Così, non ricordo più come si calcoli la variazione di entropia all’interno di un sistema, eppure colgo l’enorme potenziale metaforico insito nella possibilità di misurare il disordine; ho dimenticato come calcolare l’errore assoluto, ma trovo commovente l’illusione di sapere in anticipo di quanto sto sbagliando. Allo stesso modo, non ricordo più come si calcoli il punto di rottura di un sistema, ma ho capito che per far precipitare Cime Tempestose basta il peso di una virgola.
Sarebbe inutile tentare di riassumere Cime tempestose, ambizioso proporne un’analisi, pedante elencarne i temi; sin troppo è già stato scritto di questo romanzo. Perciò ho deciso di parlare della storia di quella virgola, a pagina cinquantotto della traduzione di Monica Pareschi pubblicata da Einaudi, in un’esclamazione di Catherine Earnshaw appena tornata a Wuthering Heights dopo un periodo di convalescenza a Thrushcross Grange.
Ma riavvolgiamo per un attimo il filo: sullo sfondo della brughiera dello Yorkshire si stagliano due edifici, Thrushcross Grange e Wuthering Heights, il primo dimora dei Linton, il secondo degli Earnshaw. Le due case sono contenitori di due opposti prototipi emotivi: se i Linton sono epitome di quiete e raffinatezza, persino di repressione, gli Earnshaw sono perturbanti e passionali, quasi selvaggi. Tutto il romanzo si gioca sulla tensione derivante da questa perfetta architettura narrativa, e sull’idea che le case siano per i loro abitanti delle specie di luoghi naturali, che ne rispecchiano natura e inclinazioni, e li attirano a sé con la forza di un magnete. Quando Catherine Earnshaw – feritasi durante una delle sue scorribande col fratellastro Heathcliff – trascorre cinque settimane a Thrushcross Grange, presso la famiglia Linton, ne torna profondamente cambiata: «Invece di una piccola selvaggia senza cappello che correva all’impazzata ad abbracciare tutti quanti fino a toglierci il fiato, ecco scendere da un bellissimo pony nero una personcina tutta sussiegosa, con i boccoli castani che spuntavano da sotto un berretto di castoro ornato di piume». Catherine subito chiede di Heathcliff, fino a quel momento il suo inseparabile compagno di avventure, ma appena i due si rincontrano, capiamo che tra loro si è rotto qualcosa. Ed eccoci a pagina cinquantotto: Catherine rivede Heathcliff, e dopo averlo abbracciato e coperto di baci, lo osserva ed esclama, «Oddio, come sei nero! E che broncio! E… che aria losca e buffa che hai! Ma è perché ormai mi sono abituata a Edgar, e a Isabella Linton».
La virgola che segue il nome di Edgar segnala una pausa, e a quella virgola sta appeso il seme della gelosia di Heathcliff nei confronti di Edgar Linton: è qui che si spezza l’equilibrio di Cime tempestose, è questo il punto di rottura all’interno del romanzo – il brevissimo intervallo che, richiamando l’attenzione su Edgar, accende in Heathcliff la fiamma della rivalità. Se la virgola è la scintilla del romanzo, i propositi di vendetta di Heathcliff – che in quella virgola si annidano – ne costituiscono l’apparato propulsore. Dapprima Heathcliff è schiacciato dal senso di inferiorità che lo vede uscire sempre sconfitto dal confronto col suo rivale: «il contrasto era tale da ricordare il passaggio da una regione di brulle colline carbonifere a una splendida fertile vallata», ci dice Nelly Dean, la governante-narratrice. Edgar è bello, ha gli occhi azzurri, i capelli biondi e la carnagione chiara; Heathcliff ha i capelli neri, gli occhi e la carnagione scuri. Edgar è gentile e gioviale; Heathcliff brusco e scontroso. Edgar è educato, conosce le buone maniere, è sempre ben vestito; Heathcliff è rozzo, selvaggio, a tratti diabolico. Ma soprattutto – e questa sarà la considerazione decisiva per Catherine, che sembra aver imparato la lezione di Jane Austen – Edgar è ricco, Heathcliff no. «Non ti è mai venuto in mente», chiede Catherine alla governante, «che se io e Heathcliff ci sposassimo saremmo due poveracci?». Ecco perché Catherine sposa Edgar. Ecco il baratro su cui oscilla quella virgola. Superata la frustrazione derivante dal senso d’inferiorità, Heathcliff farà della vendetta la propria ragione di vita: una vendetta che non guarderà in faccia nessuno – non i fratelli, non le cognate, non i figli – e lo porterà a una degradazione morale che solo nella morte troverà una forma di quiete. E non è forse sorprendente pensare che l’avvisaglia emotiva di questo sconquasso stia nello spazio di una virgola, nel tempo di una pausa?
Ancor più sorprendente, tuttavia, è scoprire che stiamo parlando di una virgola che non tutte le edizioni riportano. Cime tempestose venne pubblicato per la prima volta nel 1847 da Thomas Newby, editore e stampatore con sede a Londra; il romanzo passò quasi inosservato, offuscato dal successo di Jane Eyre, che la sorella Charlotte aveva dato alle stampe due mesi prima. Fu la stessa Charlotte che, a distanza di tre anni, decise di rimettere mano al romanzo di Emily: scrisse una prefazione in cui svelava la reale identità dell’autrice, ed editò personalmente il romanzo per fare ammenda alla poca cura dedicatagli da Newby. Nell’edizione che ne derivò, e che vide la luce nel 1850, la virgola sparisce: fa parte delle modifiche apportate da Charlotte alla punteggiatura – spesso troppo generosa – della sorella. Si trattò chiaramente di una svista, tant’è vero che le edizioni critiche moderne, basate sul confronto tra le due edizioni, non esitarono a reintrodurla, rendendo giustizia al talento di un’autrice che usa il dettaglio come argine narrativo alle passioni. Se Emily Brontë riesce a tenere le redini del suo romanzo, è proprio per via della sua capacità di dominarne gli aspetti minimi: la scelta degli epiteti, le pause nei discorsi, il ritmo narrativo, i fiori della brughiera, il vento che sfoglia le pagine di un libro aperto sul davanzale – e la virgola dopo un nome.
Non ricordo l’equazione del carico di rottura, ma non credo ci fossero virgole. Non conosco l’equazione del romanzo perfetto, ma sono certa che, da qualche parte, forse al numeratore, è sempre conteggiato il peso di una virgola.
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