Autobiografie in movimento di Deborah Levy

26 Febbraio 2025

Decido di giocare a carte scoperte: sono una grande appassionata di Rachel Cusk. Credo che, nella mente di chi legge, i libri costruiscano delle specie di ragnatele, le cui trame sono tanto più fitte quanto più abbiamo interiorizzato un certo libro, le sue immagini, i suoi meccanismi narrativi, le sue architetture formali. Quando le ragnatele sono grandi e robuste, spesso finiscono per catturare animali che normalmente ci passerebbero attraverso – pipistrelli, uccelli, addirittura serpenti. Nella mia mente, la ragnatela di Rachel Cusk è molto fitta, e ho l’impressione che Deborah Levy ci sia finita dentro.

Ma andiamo per ordine. Cose che non voglio sapere (tradotto, come tutta la trilogia, da Gioia Guerzoni) è del 2014 – teniamo a mente questa data, – e si regge su una narrazione cinematografica che incapsula il Sudafrica in una cornice maiorchina, l’infanzia nella vita adulta: è Deborah Levy in purezza, una narrazione sciolta e densa insieme, a tratti commovente, che gioca coi piani temporali come in L’uomo che aveva visto tutto (2022, tradotto sempre da Gioia Guerzoni). Cose che non voglio sapere si può sintetizzare con il concetto freudiano della “dimenticanza motivata”: la rimozione dei ricordi come meccanismo di difesa e autoconservazione. Lo dice la stessa Levy, che in Il costo della vita spiega: «Questo era il tema che avevo affrontato in Cose che non voglio sapere, in cui ipotizzavo che le cose che non vogliamo sapere sono quelle che conosciamo comunque, ma che non vogliamo guardare troppo da vicino». È, insomma, il desiderio di non sapere quello che sappiamo. Levy sa che suo padre era stato in carcere per quattro anni per le sue battaglie contro l’apartheid; sa che in quei quattro anni lei aveva cominciato a parlare a voce così bassa da risultare quasi inudibile; sa di aver vissuto il trasferimento in Inghilterra come una forma di esilio. Sa tutte queste cose, ma preferirebbe non saperle. O meglio, le sa da adulta, mentre da bambina le intuiva: le lacune nella narrazione non vengono colmate, perché sono frutto della comprensione parziale tipica dell’infanzia. È magistrale il cambio di punto di vista tra il primo capitolo, in cui Levy va a Maiorca per cercare di dare un nuovo senso alla sua vita dopo la fine del matrimonio, e il secondo, in cui le redini della narrazione sono in mano a una bambina di cinque anni che in Sudafrica costruisce un pupazzo di neve col padre: Levy passa dalle Baleari a Johannesburg col pretesto, vecchio come l’Odissea ma sempre perfettamente funzionante, di raccontare la sua vita a un’altra persona, in questo caso un negoziante cinese. Poi, quando la bambina è diventata una ragazza di quindici anni che ha capito «di voler diventare una scrittrice più di ogni altra cosa al mondo», la Levy adulta riprende la parola: ha imparato a interrompere e a interrompersi, ad alzare la voce e a passare da un paese all’altro senza perdere la propria identità. Cambia lo sguardo, cambia lo stile, torniamo al capitolo uno e il cerchio si chiude alla perfezione.

Questo nel 2014. Passano quattro anni; arriviamo al 2018, quando Levy scrive Il costo della vita, e poi al 2021, l’anno di Bene immobile. Se Cose che non voglio sapere rispondeva dichiaratamente alla domanda orwelliana “perché scrivo?”, potremmo dire che Il costo della vita risponde a “come scrivo?” e Bene immobile a “dove scrivo?”.

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Il costo della vita comincia da una fine, la fine del matrimonio: insieme alle due figlie, Levy si trasferisce da una confortevole casa di famiglia a «un appartamento al sesto piano di un grande condominio malconcio in cima a una collina nel nord di Londra», dove «la caldaia centrale era rotta, non c’era riscaldamento, non c’era acqua calda e a volte nemmeno quella fredda»: una metafora perfetta, del costo della vita e del fatto che «la libertà non è mai gratuita», e «chiunque abbia lottato per essere libero sa qual è il prezzo da pagare». Un nuovo inizio, in uno spazio domestico in cui a pesare non è tanto la mancanza del riscaldamento e dell’acqua calda, ma di una stanza per scrivere (Woolf, esatto). Levy è costretta a cercarla fuori casa, in un capanno preso in affitto in cui per la prima volta – fuori dal matrimonio, fuori dalla casa di famiglia, quasi fuori dalla maternità ora che le due figlie stanno per andare via di casa, – comincia a scrivere in prima persona. Bene immobile prosegue sulla stessa linea, incentrandosi sulla nozione di spazio domestico come luogo potenziale, che si trasforma in spazio di vita: Levy immagina una casa dopo l’altra, tutte case utopiche, ideali, case al mare, case al lago, grandi case con una miriade di stanze, salvo poi rendersi conto che la sua proprietà, il suo bene immobile, la casa che va costruendo da anni, sono i libri.

Leggendo, ho avuto l’impressione di uno scarto tra il primo libro e gli altri due: Cose che non voglio sapere guarda più che altro all’infanzia, mentre Il costo della vita e Bene immobile raccontano la vita man mano che si dipana. Tra Cose che non voglio sapere e Il costo della vita (e Bene immobile) passano quattro anni (2014-2018), e il modo di narrare di Levy cambia: il presente non è più una cornice per il passato, ma è il tempo esistenziale in cui la voce narrante si muove. Le vere “autobiografie in movimento”, come Levy le ha definite, sono le ultime due, più che la prima. Proprio in quei quattro anni, sul palcoscenico della letteratura fa il suo ingresso la trilogia dell’ascolto di Cusk, che cambia le carte sulla tavola della narrativa contemporanea: Resoconto, il primo libro, è del 2014; Transiti e Onori, usciti rispettivamente nel 2016 e nel 2018, non fanno che corroborare le innovazioni presentate da Resoconto, reiterandole. Nel corso dei tre libri, Levy cita e riconosce l’influenza di molte donne (de Beauvoir, Duras, Woolf, Steinem, eccetera) e uomini (Perec, Nietzsche, Orwell, Baldwin, eccetera), portando alla luce con scanzonata metodicità l’impianto teorico che sorregge il suo modo di scrivere e di vivere. All’interno di questa genealogia di pensiero, mi ha sorpresa non leggere mai il nome di Rachel Cusk. Me l’aspettavo dopo certe osservazioni, pensavo di vederla citata dopo certe metafore, in associazione a certi argomenti, invece Levy non la menziona mai. Ed è proprio quel non menzionarla a renderla – quanto meno nella mia mente – una presenza piuttosto scomoda. Penso sia per questo che leggere la trilogia di Deborah Levy, per me, ha significato combattere contro la presenza di Cusk. Dopo aver cercato di spingerla fuori dalla porta per parecchie pagine, vedendola puntualmente rientrare dalla finestra, ho capito che dovevo accordarle il permesso di rimanere: credo che Cusk non sia solo nella mia, di stanza, ma anche in quella di Levy. È nella postura della voce narrante di Levy; è in molte sue metafore – il matrimonio come edificio, il nuoto come surrogato della libertà, il cambio di casa come cambio di vita; è negli ingranaggi di alcuni blocchi narrativi – gli episodi in apparenza insignificanti di cui l’io narrante smaschera i sottintesi attraverso un «mi chiedevo se…», che introduce il nocciolo di verità dietro il velo della narrazione (il “gioco” narrativo su cui Cusk basa tutta la trilogia); è nell’io «che mi era vicino ma che non ero io»; negli altri che fanno incursione nella vita di ognuno con le loro storie, i loro vissuti e i loro punti di vista. La differenza è che Cusk disloca tutto questo – metafore, temi, giri di frase – sui personaggi incontrati dalla voce narrante, mentre Levy generalmente non li disloca: è lei a preoccuparsi di cos’è una donna quando smette di essere moglie e madre; è lei a paragonare il matrimonio a una casa, a parlare del senso d’irrealtà che deriva dai bivi esistenziali, a portare in primo piano i desideri delle donne, a smascherare la protervia maschile.

Certo, sarebbe riduttivo sovrapporre Levy a Cusk. Levy riesce a essere più calda, più ospitale, meno tagliente. Levy è una scrittrice generosa: è generosa con se stessa – senza sfociare nell’indulgenza, – è generosa con gli animali, soprattutto cavalli e volatili, veri e propri personaggi sul palcoscenico dei tre libri; è generosa con gli altri – memorabile la scena in cui cucina per le figlie; ma soprattutto è generosa con gli oggetti. Levy vede la vita dei dettagli e la illumina; sa quali sono le piccole cose che fanno una vita – un ombrello a righe verdi e gialle, una candela a forma di cactus, una sedia di legno blu, una radio, un congelatore, una moquette grigia, un banano da innaffiare, i ghiaccioli che compra per la madre morente. È a partire dagli oggetti che riesce a raggiungere vette di calore umano, a passare con scioltezza dalle cose alle persone. E lo fa dichiarando apertamente l’impianto che la sorregge. È per questo che, quando parla del capanno come spazio per sé, in cui finalmente ricostituirsi in quanto persona e scrittrice, si riesce a convivere con l’eco, pure fortissima, di Virginia Woolf; è per questo che, quando si interroga su come vivere una vita creativa durante la vecchiaia, non ci dà fastidio sentire in filigrana L’età forte di Simone De Beauvoir; o che quando si sofferma sulla vita materiale, Marguerite Duras ci fa da guida e non da intralcio. Perché Levy lo dice: li nomina, i suoi riferimenti, e nominandoli crea per sé uno spazio libero dalle ombre.

L’impressione che a me resta, e che probabilmente è viziata dalle ragnatele di cui parlavo prima, è che a quell’elenco manchi un nome, e che quel nome, a forza di essere ignorato, si faccia via via più ingombrante. Insomma, a volte le cose basterebbe dirle per renderle inoffensive, per fugare ogni dubbio e dissipare le ombre. Il rischio, altrimenti, è che la reticenza sia scambiata per malizia.

Ma d’altra parte ogni lettura è sempre un’autobiografia di chi legge. Forse, lo è anche questa.

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