Addio a Masaki Iwana / Half demon. Un uomo in viaggio

20 Novembre 2020

Poche parole annunciano il trapasso di Masaki Iwana, danzatore butoh, performer, autore e regista cinematografico, nato nel 1945 a Tokyo. La sua esistenza libera, opera non disgiunta dalla sua arte, non ha mai smesso l’invenzione, non ha cercato allineamenti, né temuto marginalità.

Masaki passed away peacefully at home in Normandy, France on 11th November 2020.

La pace che sembra avere avvolto il suo commiato è il sigillo, il segno tacito di un’appartenenza, di un’alleanza, riconosciuta, praticata, mai tradita: il rapporto con la materia. Engagé avec les substances era il titolo di una sua performance e in un certo senso un manifesto per la danza come stato emergente, evento esperibile a condizione che il corpo divenga manifestazione epifanica di tempo e spazio.

Il corpo della danza – il corpo in stato di danza di Masaki – è corpo metamorfico, unità e pluralità, identità costitutivamente aperta al divenire, divenire stesso che si attua in entità e forme che il concetto stenta a tenere insieme: simultaneamente oscurità e luce, femminile e maschile, fragilità e forza, orizzontalità e verticalità, morte e nascita. La danza è accadimento, attuazione di una origine, esposizione assoluta dell’essere, svelamento della sottostante unità, legame, immanenza, paesaggio (inner o internal landscape, original landscape). Ciò che l’intelletto separa in antinomie nella combustione performativa torna all’ambiguità del volto originario. Gli ordini travasano l’uno nell’altro, si appartengono, consistono, tramonta il discernimento e con esso il giudizio. Nel corpo soglia il daimon si manifesta. Un senso panico accomuna esseri ed enti, organico e inorganico, nature e natura, dinamica e quiete, the Secret Agreement with Matter.

 

Masaki Iwana

Masaki Iwana


Quando ho conosciuto Masaki – stabilitosi in Francia nel 1988 e invitato per la prima volta in Italia nel 1989 da Marcello Sambati – la sua lingua articolava il dicibile in aggregati di senso che la nostra lingua non prevede. La parola che squarcia, l’intraducibilità, lo scarto era un ingresso all’esperienza senza mediazione. Nulla in lui era riferibile ad altro e la sua presenza composta e numinosa sembrava potenza di altri mondi. Il nero inchiostro del suo pennello era il nero lucente dei suoi lunghi capelli. Masaki aveva lasciato il suo paese, non apparteneva e non possedeva. Pochi anni dopo riuscì ad acquistare una casa di campagna fatiscente e bellissima nel sud della Normandia, una casa che con le sue crepe e le rondini nelle stanze, portava il segno del tempo e nel tempo divenne il fulcro della sua pratica e luogo di conoscenza per persone di ogni provenienza. Chi ha incontrato Masaki attraverso il rigoroso sistema di esercizi che infallibilmente proponeva, nel fuoco del suo sguardo generativo, ha incontrato sé stesso o ne ha avuto la possibilità. Masaki diceva di non avere nulla da insegnare. Maestro – diceva – è chi opera un taglio, permettendo a ciò che già è di manifestarsi.

Per tutti Masaki è stato un maestro.


Masaki Iwana, immagine del film Vermilion Souls, 2008.


Nei suoi primi anni in Europa l’attrito, la purezza, la non esaustività delle parole, unita all’esattezza delle proposte, apriva luoghi di attraversamento, spazi di esperienza, episodi metamorfici, la cui evidenza era percepibile. Nella durata di un laboratorio i corpi si spaccavano come frutti, ne uscivano sguardi nuovi. La discesa al corpo – il ritorno alla sorgente – talvolta ostacolato e impervio, altrove immediato, era inevitabilmente uno specchio duro in grado di riflettere il visibile e l’invisibile, di mettere in stallo l’equivoco della volontà. Chi si fosse avvicinato ne avrebbe ricevuto in ogni caso un’esperienza trasformativa.

 

Allora Masaki era molto attento nel definire l’autonomia del proprio percorso (White Butoh) rispetto ai padri e alle pratiche dell’Ankoku Butoh, il butoh delle tenebre di Tatsumi Hijikata, la singolarità di Kazuo Ohno. In uno scritto del 1995 – “Invito al butoh” (Invitation to Butoh) – riferendosi alle esperienze precedenti, Masaki affermava di non avere niente da insegnare sul butoh come metodo. Il focus del suo specifico lavoro, dinamico e mutevole, era incentrato su come riconoscere ed estrarre dal corpo la vita stessa.

 

As ankoku butoh lies outside my realm, I have nothing to teach about butoh as a method. Rather, I specialise in work which is dynamic and changing; it focuses on how to pinpoint and extract life itself from the body. (http://www.moeno.com/iwanabutoh/butoh.php)

 

Nello stesso scritto Masaki riconosceva nel presente della danza butoh, non solo l’eredità filosofica di Hijikata, ma una tendenza alla ricerca di nuove e diverse vie di espressione, che comportasse la capacità di estrarre la pura vita dormiente nei corpi e il cui risultato non fosse il butoh come genere, ma come elemento essenziale per ogni espressione. In questo senso – scriveva – il butoh è ovunque e non necessariamente nella danza che si autodefinisce butoh.

 

I regard present-day butoh as a 'tendency' that depends not only on Hijikata's philosophical legacy but also on the development of new and diverse modes of expression. The 'tendency' that I speak of involves extracting the pure life which is dormant in our bodies. The result is not butoh as a genre but as the essential element for all expression. In this sense, there is a strong possibility that butoh is ubiquitous, existing not necessarily in every dance that calls itself butoh. (http://www.moeno.com/iwanabutoh/butoh.php)

 

Nel suo vocabolario compariva l’interessante espressione danse direct. La strada era aperta. Masaki consegnava al performer la solitudine e la responsabilità dell’incontro con sé stesso, “il prometeico silenzio, l’irriducibilità di fronte al compito, il rigore e la negligenza, la concretezza, l’oggettività sovrastante” – come si legge in Il corpo insorto nella pratica performativa di Habillé d’eau (Editoria e Spettacolo 2012), a cura di Ada D’Adamo –, l’onere della fondazione di un linguaggio.

Tra il principiante e il professionista non faceva distinzione. A tutti chiedeva la ricerca di una propria via: “your own method”.

 

Finally, the way of expression should not be done by established methods, but should be created by oneself. (Da Going Back to the Origins of Butoh Dance A dialogue with Masaki Iwana Bologna, August 2018, in http://www.moeno.com/iwanabutoh/articles.php)

 

Chi, seguendo il suo insegnamento, si fosse realmente avvicinato alla propria danza, si sarebbe inevitabilmente allontanato dalla forma della danza del maestro. Il giudizio separa ciò che l'esperienza tiene in serbo come manifestazione di una identità, di una nascita.

 

Il danzatore Masaki Iwana sapeva accogliere nell’attesa il passaggio degli esseri e delle ere. L’uomo era indipendenza, anarchia, verità. Non è mia intenzione tentare l’esegesi di un cammino evidentemente unico, straordinariamente ricco e stratificato negli anni. Tantomeno confinare l’artista e l’uomo in una visione parziale. Se volessi parlare della persona che ho conosciuto, forse ricorderei i grandi uccelli notturni che popolavano il cielo buio sopra la casa, le lepri nella bruma, il senso del colore. Il silenzio del corpo, l’oltre.

Da lui ho ricevuto in dono l’eredità del nome: Habillé d’eau.

 

Masaki danzava da 45 anni, stava lavorando al suo quinto film, The Music Box of Nyon. Aveva una moglie e un figlio e su di sé lo sguardo di molte generazioni.

Il giorno del funerale le sue ceneri sono state sparse sulla terra intorno alla casa nella bassa Normandia, La Maison du Butoh Blanc.

 

L’ultima foto è di Chiara Tabaroni

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