Speciale
Modernità, epidemia, e il corpo inaccessibile / Senza mano nella tua mano
E d’un tratto un gesto è venuto a mancare nel nostro lessico quotidiano. Disperso nello spazio tra i corpi, non ne resta che una traccia sospesa.
Non si stringono più le mani, incontrandosi. Sebbene di rado, fuori ci si incontra ancora, chi per lavoro, per quei lavori rimasti aperti, chi nelle uscite fugaci dalla tana, per le provviste e le necessità. Ma il movimento della mano, che pure si protende in saluto verso l’altro come per moto proprio, si frena a mezz’aria, esita, poi si prolunga solo nell’intenzione, e fisicamente recede.
La stretta di mano è il primo ingresso nella sfera di un altro corpo, in quell’involucro invisibile ma pulsante che lo circonda, in certi casi appena più trasparente, soffuso di luce fioca. È diventato un gesto formale, quello della diplomazia, degli incontri al vertice, degli affari conclusi, della parola data, della liturgia. Ma conserva intatta la sua semplicità antichissima. Certo, non siamo nell’ordine dell’automatismo istintivo ma del linguaggio. Molte culture non prevedono che ci si tocchi nell’incontrarsi, ma che si saluti, per esempio, con un inchino, a volte con le mani giunte, o con la mano destra sul petto, o con un semplice cenno del capo. Ma per noi, a partire dal Mediterraneo e per l’Occidente tutto, stringere la mano è gesto onnipresente e stratificato sia nelle varianti segniche sia nei significati.
I bambini cercano la mano rassicurante dell’adulto, che li guida e protegge. E ancora si tengono per mano gli amici, gli innamorati. Si stringono mani nell’affrontare prove, per comunicare vicinanza, conferma, incoraggiamento. Ma è nella sua ordinaria funzione di saluto che la stretta di mano presenta aspetti sorprendenti, soprattutto nel saluto tra sconosciuti che si presentano (o vengono presentati) per la prima volta. Perché la presentazione inaugura la possibilità di conoscersi, dunque di riconoscersi. Superata questa soglia non si è più semplicemente sconosciuti, ma iniziano le peripezie dei conoscenti. L’estraneo diventa consuetudine. Introdotto, come si dice in inglese, all’altro e nell’altro.
Per questo la stretta di mano segna un passaggio irto di pericoli, esposizione a incognite non controllabili. Senza conoscerci, diamo la nostra mano all’altro, prendiamo la sua, espressione e riconoscimento insieme, ci allacciamo per un momento. Questo salto quantico è una coreografia della fiducia. È inerme la mano che ne stringe un’altra, non può impugnare armi. E allora dire “piacere” per il nuovo incontro è quasi un rito propiziatorio, metamorfosi dello straniero in presenza grata, così come dirsi “incantati” (come si fa in alcune lingue) rivela che siamo entrati nella sfera d’influenza esercitata dall’altro, nel suo incanto.
Oppure non diciamo niente, e ci guardiamo. Ci si guarda sempre, necessariamente, nel dare la mano, anche con apprensione. Pelle contro pelle, secca, morbida, sottile, spessa, di quale temperatura… Contatto immediato. Il tatto è il più primitivo dei sensi. I greci pensarono che gli altri sensi non fossero che un progressivo ampliamento di questo primo toccare (e sempre, al contempo, essere toccati): contatto con il nutrimento in bocca (gusto), con l’aria odorosa nelle narici (olfatto), con l’aria mossa da onde sonore (udito). Perfino la vista sembrò ai greci un’elaborazione del tatto, in cui la luce interna all’occhio esce e va a toccare la luce delle cose. Due luci si toccano, e il mondo si accende.
Nello stringere la mano, allora, la mano si arrende all’altro. Le mani, creative, capaci di gesti potenti, libere perché liberate grazie alla stazione eretta, si danno, si lasciano toccare, sentire, stringere, senza fare altro che toccare, sentire, stringere. E, insieme alle mani, lo sguardo. Così che, nell’incontro suggellato dalla stretta di mano, sono riassunti tutti i canali percettivi che variamente ci legano al mondo e ci aprono ad esso, al di là di noi, dal contatto più prossimo alle più remote regioni del cosmo. È stato detto che la vista, specialmente quando si guarda da vicino, assomiglia al toccare, all’esperienza tattile della materia nella sua granularità. Però per i greci essa ha carattere tattile indipendentemente dalle distanze brevi o lunghe. In quanto canale percettivo massimamente agile, la vista tocca il lontano al punto da renderlo non solo contiguo, ma addirittura interiore. Da cui un contatto con il cielo stellato così diretto da essere allo stesso tempo riconoscimento e rispecchiamento. Io sono quello, sono fuori di me, e lo porto in me. Da Platone a Kant, a noi, di questo si tratta.
L’iconografia più antica della stretta di mano risale a circa 3000 anni fa, in Mesopotamia (per esempio il rilievo che raffigura il re assiro Shalmaneser III e un anonimo babilonese). Ma l’usanza fu molto diffusa nel mondo greco, più volte menzionata nei cicli omerici. Dexiosis, chiamavano questo saluto, ovvero, dare la (mano) destra. Offrirla in ostaggio, proprio la destra, tipicamente la più abile e astuta. La più temibile. Si tratta di un gesto egualitario, ma proprio per questo nell’antichità veniva usato per esibire concordia e pari dignità anche tra individui incommensurabili quanto a statura o natura (per esempio mortali e immortali). Come a colmare un insanabile iato, a connettere mondi radicalmente discontinui.
Tanto che, uso pervasivo nel mondo greco fin da epoca arcaica, scambiarsi la stretta di mano divenne geroglifico del commiato tra vivi e morti. In un repertorio vastissimo di pitture vascolari e bassorilievi su stele funerarie, si esprime in questo modo l’ultimo contatto tra chi se ne va e chi resta. Sono scene di notevole tensione, gravi eppure delicate, intime, spesso ricche di dettagli caratterizzanti, che definiscono le figure nella loro singolarità. Si tratta quasi sempre di coppie, nelle combinazioni più varie di età, sesso, status: amanti che si toccano teneramente, coniugi attempati, genitori che piangono bambini e bambine, giovani che accompagnano vecchi, amici e congiunti con ornamenti di diverse fogge, sguardi che si incrociano, capo chino, volti offuscati da una mestizia lieve e struggente. E sempre la stretta di mano.
A volte, soprattutto nelle pitture, le braccia sono tese, stiracchiate, come se le mani ancora stentassero a lasciarsi andare, così tirando gli arti, mentre una corrente irrevocabile già risucchia il defunto altrove e lo trascina via. La stretta di mano dovrà essere sciolta per sempre. Per sempre la relazione tra i mortali sarà recisa, eppure nelle immagini, e nell’immaginario, si eterna la compagnia dei vivi e dei morti, di mondi solo apparentemente separati. In realtà è rinsaldato il loro vincolo, eccoli trattenuti insieme, fianco a fianco. Commovente e impeccabile intuizione, questa: il gesto che diede avvio alla relazione, quasi ne fosse l’avanguardia, è lo stesso che ora addolcisce la fine e trasforma gli addii in qualche cosa d’altro.
Nell’intreccio delle mani disarmate si condensano dunque i molti sensi della relazione. In questo mondo sotto la luna, esso segna l’entrata nella relazione e l’uscita che la dissolve. In prospettiva più ampia, indica la tenuta della relazione tra questo mondo e quello, tra la vita e la morte. Un’alleanza perdurante, una compenetrazione. Inutile sottolineare quanto nutrimento, quanto sostegno e significato, questa visuale conferisca ai rapporti individuali come ai vincoli comunitari e politici, alla solidarietà tra le generazioni, ai nessi con l’altro, anche altro dall’umano. Non a caso sopra abbiamo osservato che nell’allungarsi verso l’altro offrendo la mano, accettando la mano, guardandosi, sono già convocati tutti i modi di percezione sensoriale, dal tatto alla vista, che ci intessono nel mondo, in comunione con le sue cose, da quelle toccate con mano fino ai confini del cielo, dai mortali alle stelle, anch’esse mortali, e non più enigmatiche di noi.
Ecco cos’è racchiuso in questo gesto così ordinario. Almeno se ci soffermiamo per un istante sul suo riverbero simbolico. Ecco cosa si addensa in questo contatto tenero con il corpo, nostro e altrui, che ora ci manca. Siamo ora, nei nostri incontri come nei lutti, a mani vuote. Tra vivi, con i morenti, con i morti, il tocco ci è negato. Né possiamo entrare negli spazi di influenza dell’altro.
Chi in questi giorni sta parlando del “ritorno del corpo”, in grado di aprire un varco nell’egemonia tecnologico-liberista che vede il corpo soltanto come un incidente e un’inesattezza, dimostra un certo sense of humour. A meno che non intenda dire che il corpo torna come mancanza. Il corpo ritorna, se oggi torna, come fantasma, perché è nella privazione che ci riviene in mente, inaccessibile, e ci manca. È questo che manca, nei nostri rifugi claustrali, circondati da schermi, tra lenzuolate di immagini intangibili anche alla vista, nella congestione arida e necessaria della tecnologia. Tutto da remoto. Senza toccarsi, senza le mani, lo sguardo, il pezzo di strada fatto insieme. Ci mancano i corpi, ora inavvicinabili, senza i quali è difficile sentire il mondo, sentirsi al mondo. Oppure lo si sente, ma nella modalità della perdita, dell’angoscia. Nel dolore della negazione.
E qui, in questa lontananza forzata, nella rarefazione delle immediate e familiari circostanze, potremmo forse, per paradosso, sentire l’urlo delle vite più distanti risuonare come accanto. Se mai, potremmo sentire che ci manca questo contatto, questa consapevolezza. Che ci fa male questa separazione dal lontano, la contrazione di orizzonti, il rimpicciolimento a cui ci siamo abituati. Magari guardando su uno schermo le fiumane di corpi in fuga dalle grandi città indiane perché non hanno casa in cui “stare a casa”.
O i corpi morti, ugualmente senza casa, per strada e alla luce del sole, in un paese, poniamo, del Sudamerica. O i corpi nel Mediterraneo, sul pelo dell’acqua oppure in fondo, e quelli in un’attesa che sembra senza domani, alle porte del vicino Oriente. O sentendo dell’ordinanza che impone alla polizia filippina di sparare su chi non osservi la prescrizione dell’isolamento, “sparare per uccidere” ha detto il presidente.
Sentire il mondo. Si è detto tanto su Platone autoritario, sulla pericolosità delle metafore biologiche in politica. Ma quando Platone immagina una comunità come un corpo in cui, se il dito di una mano è ferito, assieme alla mano soffrono tutte le altre parti, intende, credo, qualcosa del genere.