Festival Contemporanea Prato / Milo Rau e gli altri

Racconti nella Terra dei Feaci

 

Nel romanzo di Vladimir Makanin, Underground. Un eroe del nostro tempo, Petrovic è uno scrittore che ha attraversato la stagione della letteratura sovietica non ufficiale ed è approdato nella Russia post-comunista in veste di custode di appartamenti: ha smesso di scrivere (ma il suo unico bagaglio è una macchina da scrivere di fabbricazione jugoslava che si porta appresso legata alle spalle a mo’ di zaino), tutta la sua attività letteraria consiste nell’invitare gli amici nelle cucine delle case che occupa occasionalmente e lì scambiarsi con loro confessioni e racconti. Anche in Empire di Milo Rau, il terzo capitolo della trilogia europea del regista svizzero presentato in prima nazionale al Festival Contemporanea di Prato, tutto si svolge in una cucina; all’inizio, a dire il vero, gli spettatori del Fabbricone si trovano davanti a un’altra ingombrante scenografia, è la riproduzione di una casa diroccata immersa nella penombra – la porta a vetri illuminata le dà un bagliore da Presepe – ma gli attori la girano e, aperta verso il pubblico, appare la sezione di una cucina, piccola, ristretta, concentrata, arredata con una scrupolosità naturalistica e piena di oggetti: fornelli, pentole, mensole, un tavolo, le sedie, ma anche un mappamondo, una statuina della Madonna, degli ingenui acquarelli appesi alla parete e persino una branda coperta da una stoffa di fattura orientale (o greca, o balcanica, o sarda, una diplopia mediterranea, nell’accezione ampia che a questo aggettivo ha dato Predrag Matvejevic, sfuma contorni e distanze nella geopoetica di Rau). 

 

Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


È in questa intimità squadernata che gli attori narrano le proprie storie, poiché Empire, volendo, non è che questo: quattro attori, di età diverse e di diverse provenienze, che riuniti in una cucina raccontano la propria vita dall’infanzia fino al momento che li ritrova lì, su quel palcoscenico, tra quella gente, in una continua torsione del presente nel passato. Solo che raccontano in una babelica confusione delle lingue, perché Ramo Ali, un simpatico ragazzo allampanato con la barba nera e foltissima, è un kurdo siriano, che per la prima volta, dice, può finalmente parlare la propria lingua su un palcoscenico, Rami Khalaf, che geograficamente e culturalmente è il più vicino a lui, viene anch’egli dalla Siria, ma è arabo, Maia Morgestern, una bella signora dai tratti vibranti, è un’ebrea rumena che ha mosso i suoi primi passi nel teatro yiddish di Bucarest (e molti spettatori riconoscono in lei, non subito, ma nella lenta agnizione del suo volto, l’attrice che interpretò Maria di Nazareth nella Passione di Mel Gibson), mentre Akillas Karazissis  è un accattivante affabulatore greco nato a Salonicco da una famiglia che veniva da Odessa. Ciascuno di loro intona il racconto nella propria lingua madre e i sottotitoli traducono gli idiomi, ma senza omologare quella sonorità intraducibile – la parte sensibile, la più interna, di ogni lingua – che, assieme a un breve motivo musicale più volte ripetuto, resta fino alla fine il sottofondo melodico dello spettacolo, la segreta tessitura, dolce o gutturale, morbida o cantilenante, della grana della voce senza la quale, nessuna narrazione, e nessuna singolarità, sarebbe possibile. 

 

Quando uno degli attori prende la parola, ce n’è un altro che lo inquadra in una videocamera e su un grande schermo sistemato sopra la scenografia appare l’immagine del rapsodo di turno, un primo piano in bianco e nero, stretto e allungato come una fiamma. La scena è immobile, il racconto e l’immagine si spostano in quella che, in capo ad alcuni minuti, è un’odissea che si allontana nel tempo e nello spazio, lungo le direttrici di un esilio frastagliato, che batte e ribatte sulle rive di un approdo impossibile, di una patria infedele. Rifugiato in Francia, Rami Kalo ritorna clandestinamente sulle rivi del Tigri – filmate con una telecamera nascosta – nella cittadina semi-distrutta dai bombardamenti dove ha vissuto la sua infanzia, nel paese che lo ha imprigionato nella giovinezza, ma è tardi per seppellire il padre (è tardi per tutti i padri e le madri di questi racconti in cui gli uomini e la terra invecchiano di colpo nella ruggente accelerazione della Guerra e della Storia): si limiterà a leggergli un biglietto tra le lapidi bianche di un cimitero, e poi a vomitare, perché da sempre la sua è una tristezza senza pianto. Rami Khalaf ha trascorso le sue nottate parigine a cercare il volto del fratello tra le immagini di un sito internet dove sono raccolte le fotografie dei dodicimila giovani assassinati dal regime di Bashar El Assad: sullo schermo passano le foto di teste fasciate e volti tumefatti – alcuni sembra che dormano, che finalmente riposino dopo giorni e giorni di torture – ma restano il tempo strettamente necessario, a fare in modo che non si volti lo sguardo da un'altra parte o che non si indugi nella compiacenza dell’orrore. 

 

Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


Come già in Five Easy Pieces, è nell’equilibrio del montaggio, cioè nel rigore di una forma, che Milo Rau asciuga la violenza che i suoi spettacoli rivelano – e nell’ordito di una recitazione auratica e introspettiva, senza un urlo, senza una lacrima, se non quelle che il pubblico non riesce a non immaginare in certi trasalimenti del volto (che è uno sterminato paesaggio di sentimenti) di Maia Morgenstern, quando parla del padre o della figlia che le è stata tolta. Lei e Akillas Karazzisis vengono da ancora più lontano: dall’esilio interiore dell’essere ebrea (con un padre comunista sfegatato) nella Romania antisemita di Caeusescu e dal disorientamento di un giovane greco che, in fuga dal regime dei colonnelli, sbarca a Francoforte negli anni settanta, confuso alle ondate migranti dei gastarbaiter che hanno scandito la storia del suo paese. 

 

Tutti si fanno attori, per volontà o per caso, come il picaresco Karazzisis, teorizzatore in gioventù del “minimalismo depressivo” che si ritrova ad amare quello che considerava insopportabile, pur restando, da interprete, al di qua dell’immedesimazione, un narratore che prima di ogni battuta apre i due punti – tutti si fanno attori perché il teatro è l’unico luogo in cui l’infranto può essere provvisoriamente ricomposto nella flagranza di una condivisione, un luogo di liberazione nell’impero in cui la libertà, sempre agognata, finisce per spiaggiarsi (dice sconsolatamente la Morgenstern), nella solitudine più acuta. 

Ma il modo in cui le bolle di queste memorie private e singolari riescono a non sbriciolarsi in se stesse, e nei loro approdi fallimentari, bensì a issarsi sull’aerostato di una leggenda collettiva – che è la nostra non meno che la loro – è il vero miracolo della messinscena di Empire. E viene dagli echi, dai riverberi che ogni storia, proprio come nell’universo dell’epos, ritrova e depone nell’altra, sia nei monologhi interni che nella circolazione extracorporea delle immagini: così l’incredibile amore che il musulmano kurdo Ramo Ali vota alla figura della Vergine Maria, spingendosi fino a custodirne una medaglietta persino nella cupa prigione di Palmira, si riapre nel racconto che l’ebrea Morgestern fa della sua interpretazione della Madre di Cristo nel controverso film di Gibson, disegnando un’altra linea – materna – di una devozione senza integralismo (la religione delle cucine, se volete). 

 

Così, tra le immagini proiettate sullo schermo, ne appare una di un’ampiezza inusitata che corre su un fiume: una grande chiatta trasporta un colosso bianco fatto a pezzi e imprigionato dalle corde, solo la sua testa si alza dalle spalle, e una mano aperta che sembra quella di un santo anchilosato nello sforzo di un’ultima benedizione. È una statua di Lenin nel piano sequenza di un vecchio film di Theo Angelopoulos, Lo sguardo di Ulisse (ah, come era lento e sovrano quello sguardo capace di abbracciare l’indugiare di più tempi in una sola frase, come era ampia e generosa, benché già immersa nella nebbia dell’Ade, l’Europa senza proclami di Angelopoulos, di Tonino Guerra, di Petros Markaris che, in piena guerra dei Balcani, spingevano Harvey Keitel sulle tracce delle “immagini viventi” del cinema primordiale dei fratelli Manakis…). 

 

Nel “teatrofilm” di Empire, quell’immagine non è solo un omaggio, è l’origine di un’irradiazione musicale (nelle note del “tema di Ulisse” di Eleni Kalaindrou, infatti, è anzitutto cristallizzata) che pervade ogni accento del sommesso, dolente conversare tra stranieri nella terra dei Feaci. E non deve ingannare – o allora deve supremamente ingannare – il dispositivo che sdoppia nel cielo del visivo la terra sottostante degli attori, non solo perché è sulla scena che questa contemporaneità può essere e viene comunque celebrata (e Milo Rau è un regista fortemente rituale). Ma perché quello spirito in bianco e nero che si solleva sui corpi a colori seduti in cucina, proprio come le ombre degli inferi omerici, può vaticinare solo alimentandosi del sangue vivo della loro presenza (è verso il cielo che sale, al cielo che parla, è vero, ma al cielo e contro il cielo bisogna di nuovo saper parlare: ci aveva avvertito George Steiner molti anni fa). 

Quando Akillas Karazzissis, che più volte è stato Giasone, e Maia Morgenstern, che è stata un’indimenticabile Medea, duettano sulla partitura di Euripide, uno in greco e l’altra in rumeno, hanno l’aria di capirsi alla perfezione, come in un giorno di pentecoste. E anche il pubblico sembra capirli perfettamente. 

 

(Attilio Scarpellini)

 

Se sentir vivant, Yasmine Hugonnet, ph. Ilaria Costanzo.


Dante, rap e stracci di identità

 

Movimento immobile. Chirurgico e passionale, il gesto di Yasmine Hugonnet sa fermare il tempo. Se sentir vivant / Canto primo, al debutto nazionale a Contemporanea Festival 2017, è un magnetico solo con e del corpo, una preghiera muta che rende grazie a muscoli, tendini, giunture. Sogno, pensiero, allucinazione o trance, l’impercettibile, l’attimo sfuggente è visibile nel suo passo. È il suo passo. Allora, sentirsi vivo – questo significa il titolo – è avere il pieno controllo di sé, in scienza, coscienza e immaginazione.

Un rettangolo bianco, un libro al limite del lato destro. La danzatrice svizzera, maglia bianca e pantaloni blu, scalza, comincia di profilo, il sinistro. Alza lentissimamente il braccio e la mano destra e questi ‘guidano’ il piede e la gamba corrispondenti. Un filo intangibile pare legarli nel più assoluto silenzio, rotto soltanto dal ronzio dei fari accesi e dalla realtà esterna. La dipendenza degli arti è totale, il suo volto è serio, ma disteso.

 

Adesso con entrambe le mani prende ‘possesso’ del piede, si gira frontalmente, si abbraccia e anche le gambe fanno lo stesso. Scompone il moto a tal punto da immobilizzarlo, come nella ‘fotografia stroboscopica’ di Harold Eugene Edgerton o nel ‘paradosso della freccia’ di Zenone: il movimento è la perfetta padronanza su punti e istanti indivisibili di immobilità.

Il busto, prima inanimato, prende vita attraverso il respiro, sempre più pronunciato, che comprime e rilascia il ventre, percorrendolo come una vibrazione. Un suono soffocato risale dalle viscere: gli urli ordinari e dimostrativi delle gradazioni della paura in Bang! del francese Herman Diephuis, altra prima nazionale al festival pratese, sono qui ingoiati in una contorsione di membra. Se sentir vivant, infatti, è anche una discesa agli inferi della corporeità vocale.

 

Va a prendere il libro, poi si siede, le gambe divaricate, una mano tra di esse, l’altra a tenere aperte le pagine. “Mi ritrovai per una selva oscura”. Risuona il canto I della Divina Commedia – a questo si riferisce il sottotitolo –, eppure Yasmine Hugonnet ha le labbra serrate. Perché, approfondendo la comprensione del movimento in rapporto all’attenzione, della germinazione di figure e dell’idea delle posture come contenitori, ha sviluppato la pratica del ventriloquismo.

È la porta verso un altro mondo, il braccio destro, indipendente, alieno con una sua propria intelligenza, pare il serpente tentatore, il diavolo all’Inferno. Ripete il canto in francese, in inglese e la selva oscura si ripercuote su di lei in spasmi, tic, è come se si svegliasse e addormentasse continuamente.

Se sentir vivant / Canto primo non ha bisogno di musica, ‘suona’ quella voce interiore che la danzatrice ‘dirige’ con le dita della mano nell’aria. Accenti che partono dai piedi e arrivano fino in cielo. Così, la testa ‘tirata’ su dall’ennesimo filo invisibile, oscilla come un fuscello al vento, la ‘canna’ di cui parla Pascal. Fragile, ma pensante.

 

Mash, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán, ph. Ilaria Costanzo.


Da una premessa tutta musicale deriva, invece, Mash di e con l’italiana Annamaria Ajmone e la cilena Marcela Santander Corvalán. Con il termine mash-up, infatti, si intende una canzone o composizione realizzata unendo due o più brani, spesso sovrapponendo la parte vocale di una traccia a quella strumentale di un’altra. Mash intende, diciamo, adattare il medesimo processo all’arte coreutica.

Un rettangolo nero, per terra due vestiti colorati, a destra e a sinistra, insieme a due paia di scarpe. Inizia Santander Corvalán in platea, su un rap arabeggiante fa una sorta di danza del ventre, dinoccolata e ammiccante, finché non va sul palco, le gambe che fanno giacomo giacomo, la lingua di fuori, le sopracciglia su e giù. Quando entra, Ajmone esegue movimenti che ricordano l’altra, ma sono rallentati, la qualità è più riflessiva, controllata.

 

Si accompagnano a specchio, squadrate, marziali, la musica è un loop asfissiante, i corpi virgole di un discorso in affanno, preso, perso e ripreso all’infinto. Tentano di dare un’identità fisica, individuale e comune, ai brani che mixano, campionano provenienze e generi diversi: sono ora animalesche, ora eteree, ora suadenti, ma la sensazione rimane quella di stare assistendo a un esercizio di perizia coreografica.

Mash potrebbe finire in qualsiasi momento senza pregiudicarne la riuscita, perché l’esito finale non è che la ripetizione dell’intento iniziale, cioè focalizzarsi “sulla dinamica che scatta quando i frammenti – dichiarano le due danzatrici – si concatenano tra loro generando qualcosa di totalmente nuovo, ricco di significati inediti”. L’esposizione del processo prevale sul raggiungimento del risultato, i “significati inediti” sono prestiti, citazioni, sovrapposizioni di atti già ‘editi’, visti e conosciuti.

Il nodo centrale è che manca un legame scenico che vada al di là dell’immagine riflessa. Paradossalmente, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán incontrano una presenza e un ascolto reciproco nei rari istanti in cui la musica si ferma, e restano in luce i passi e i respiri. Ma è solo una pausa per poter alzare i volumi e i gesti ancora più forti e identici.

 

Good Lack, Francesca Foscarini, ph. Laura Farneti.


Il peso che ci portiamo dietro è il Tetris di un trasloco perenne: Back Pack (Zaino) è il primo dei tre soli, con l’asettico John Tube e l’estenuante Let’s Sky, del progetto Good Lack di Francesca Foscarini, un trittico giocato sull’ambiguità buona fortuna/buona mancanza.

Una teoria di scatole sul fondo, come nello sgombero de La vita ferma di Lucia Calamaro. La danzatrice di Bassano del Grappa, in nero, entra con uno zainetto vintage, regola le spalle, il busto, le gambe, i piedi. Cerca di resistere meglio che può a quel carico, finché non cade all’indietro, tartaruga sul suo guscio.

Si rialza, viene avanti, svuota per terra una palla di vestiti che, trovandoci a Prato, non possono non ricordarci i cenci, gli stracci della Plutocrazia di Archivio Zeta. Reggiseni, pantaloni, maglie, manicotti, giacche, un giubbotto di salvataggio: indossa un capo sopra l’altro, si mette l’intero contenuto dello zaino. Lo gonfia anche quel giubbotto, ma non c’è acqua intorno: evidentemente si sta preparando al peggio. Ha più gomme da masticare in bocca, i cerotti alle mani, le infradito con i calzettoni.

Back Pack pare burlarsi delle astrazioni concettuali di certa danza contemporanea (per poi esserne preda, a sua volta, nei capitoli John Tube e Let’s Sky). Francesca Foscarini assomiglia a una bimba birichina, scoppia le bolle fatte con i chewing gum, gioca a volare senza ali, correndo in tondo.

 

Alla fine, però, si spoglia di questa specie di ‘armatura’ da buffo, bizzarro, scalcagnato supereroe. Si abbassa perfino i primi pantaloni e si leva la maglietta nera: i sé che è stata nel tempo l’hanno lusingata e poi dopo l’hanno lasciata in mutande e reggiseno.

Oltre lo scotto della solitudine, la sorte ci mette dell’ironia amara: quel cumulo di roba è molto più ingombrante ora che è fuori dallo zainetto. Indossare chi eravamo ieri non ci aiuta a diventare chi saremo domani. Crescere è scegliere. Essere tutto, invece, equivale a essere niente.

 

(Matteo Brighenti)

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