Models Matter. La scala delle idee
Potere e rappresentazione
Nel quinto episodio della serie distopica The Peripheral (2022) Grace chiede alla sua ex-compagna Aelita se ha ancora l’hobby delle case di bambola. Alla risposta negativa di Aelita, Grace le ricorda come “i mondi in miniatura” le servissero a esprimere l’ordine e il controllo che all’epoca le mancavano nella vita reale. In effetti, coerentemente con quanto afferma il primo personaggio, i primi due aspetti che vengono in mente se si pensa ai modelli (di architettura e non solo) sono quelli del potere generato dalla differenza di scala e dalla rappresentazione.
Il primo, peraltro, sembra precedere il secondo. Fin dalla prima infanzia la nostra vita è infatti popolata di oggetti in scala ridotta: modellini di automobili, trenini, case di bambola, Lego, soldatini(!). La situazione non è stata molto cambiata dall’invasione digitale e dalla molta maggior possibilità di eccitazione da controllo offerta dai videogiochi. Forse è per questa atavica dimestichezza che nelle mostre di architettura, come vedremo più avanti, il visitatore non specialista tira sempre un sospiro di sollievo quando invece di doversi sforzare a interpretare la grafica astratta di un disegno può avvicinarsi a un modello. Non è un caso che artisti e scrittori abbiano sempre amato addentrarsi nelle implicazioni psicopolitiche di queste manifestazioni di infanzia, ingenuità, potere, sproporzione. Per Jonathan Swift la dismisura di Gulliver è l’occasione di un’inversione spiazzante (Inverso è il titolo italiano della serie di cui sopra) nella quale è la moltitudine dei piccoli che cattura l’umano a scala maggiore. L’Alice ad altezza regolabile di Lewis Carroll non fa che amplificare il potere spiazzante e allucinogeno del cambio di scala. L’assunto non vale certo solo per gli scrittori o gli autori storici: per Heather Benning, artista canadese in attività, il meccanismo di disvelamento consiste nell’ingrandire la dollhouse fino a portarla alle dimensioni di un edificio normale e di collocarla naturalmente nel paesaggio, in un contesto visivo che non permette di indovinarne le dimensioni.
Volendo cercare un esempio lampante in architettura, unico degli argomenti tra i quali devo districarmi oggi del quale ho un po’ di esperienza, è impossibile non notare come, pink-power a parte, si possa passare quasi senza accorgersene dalla casa di Barbie ai sorprendenti modelli degli architetti giapponesi. Realizzati con cura maniacale e a scale spesso molto grandi, rappresentano non solo la struttura architettonica e spaziale dell’edificio, ma includono anche mobili, elettrodomestici, accessori, piante, cibo, biancheria sporca e pulita, biciclette e automobili.
Tutti dettagli che ci portano a tornare all’altra caratteristica fondante del modello, quella della rappresentazione, di volta in volta definita da materiali, tecniche, livelli di sintesi, ambientazione eccetera. Non esiste infatti opera (quale che sia l’arte in gioco) senza la sua rappresentazione, scritta, disegnata, scolpita, raffigurata, filmata. Privata di una rappresentazione (disegni, immagini, modelli) capace di connetterla al sistema di valori interno alla sua disciplina e al mondo un’architettura è solo un edificio, un prodotto edilizio funzionale.
Architettura
È ovvio comunque che se il modello compare in molti ambiti della produzione e della comunicazione, è in architettura che la sua agency raggiunge la massima intensità. Non si tratta infatti solo di un dispositivo ulteriore, e molto accattivante, per rappresentare un’idea di progetto al committente, a un soprintendente sospettoso, al visitatore di un museo, quanto piuttosto di uno strumento che entra nel processo progettuale in fasi e modi molto diversi e che ogni autore usa a modo suo. Tre esempi veloci possono aiutare a comprenderne l’incredibile duttilità.
Il primo è un caso canonico di full exploitation della produzione di modelli, vale a dire quello di Frank O. Gehry. È una storia molto nota, ma ci serve qui per marcare l’ampiezza delle possibilità del modello e la capacità dell’architetto californiano di farne un marchio di fabbrica. Il metodo Gehry divenne chiaro a tutti quando le riviste di architettura, nella seconda metà degli anni ’90, cominciarono a pubblicare paginate di immagini in cui erano messe a confronto, ravvicinate e viste dall’alto, decine e decine di modellini di cartone raffiguranti le possibili soluzioni alternative per la sala principale della Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. Leggendo gli articoli, e a un certo punto anche guardando un episodio dei Simpson, si capiva come lo studio affrontasse il processo creativo proprio a partire dal modello, o da moltissimi modelli di carta messi a confronto. Modelli che poi venivano studiati con scanner e microtelecamere, e che solo quando arrivavano alla soluzione preferita venivano tradotti in informazioni grafiche digitali, disegni, algoritmi, programmi capaci di portare direttamente alla fase di costruzione. Si può quindi dire che l’architettura di Gehry, così come la conosciamo, non potrebbe esistere senza la presenza dominante dei modelli nella fase creativa e di impostazione del progetto.
All’estremo opposto si colloca Aldo Rossi. Interprete massimo dell’architectura picta, lo immaginiamo concentrato su facciate, disegni, grandi tavole a colori, dipinti. L’iter progettuale di Rossi era l’esempio che i nostri docenti ci incoraggiavano a seguire negli anni settanta/ottanta del secolo scorso: schizzi, disegni geometrici, tavole a colori, prospettive. Rossi aggiungeva il talento artistico, e la facilità nel tradurre le sue architetture in soggetti pittorici, dipinti o affrescati. I modelli venivano prodotti solo quando il progetto era ben definito, generalmente per le mostre o per presentarli a responsabili e committenti, spesso grazie all’apporto di artigiani sublimi, come il modellista milanese Giovanni Sacchi (1913-2005). Escluso dalla fase pragmatica del progetto architettonico, il modello ricompare però nel lavoro di Rossi sotto altri aspetti, più eterodossi e cognitivi, vicini all’area imperscrutabile dell’ispirazione. È il caso del modello a grande scala del duomo di Milano, da lui più volte raffigurato e sempre presente nel suo immaginario progettuale.
Oppure la presenza ricorrente nel suo studio (e in quelli di quasi tutti gli architetti che gli erano vicini) di piccoli modelli di teatrini, collezionati presso mercatini o antiquari, o prodotti da lui stesso. Ne vediamo comparire qualcuno, in secondo piano, anche nei ben noti ritratti che Luigi Ghirri fa del maestro e del suo studio, a ricordarci che il teatro, per quella generazione illustre dell’architettura italiana, è il simbolo e il cuore dell’architettura stessa e della città. Per loro, l’intero scibile del progetto di città poteva in fondo considerarsi come un’emanazione diretta del teatro palladiano di Vicenza, scenografia e modello a scala [ir]reale dell’incontro tra spazio architettonico e scena urbana. Di Palladio (e di Canaletto) Rossi è convinto di essere l’avatar contemporaneo, e infatti realizza il suo effimero capolavoro in occasione della Biennale Teatro del 1979 proprio costruendo un modello in scala reale di un piccolo teatro galleggiante da lasciar fluttuare lungo il Canal Grande (Teatro del Mondo, 1979). Sarà la prima di molte “piccole architetture” veneziane sospese tra modello e installazione (spesso portali per la Biennale Architettura), che contribuiranno ad alimentare uno spazio di ricerca nuovo – a un tempo edifici e modelli di edifici – che col tempo è diventato quasi dominante in un’architettura fortemente “musealizzata”.
Tornando un po’ indietro nel tempo troviamo l’ultimo esempio, Luigi Moretti, e un uso ancora diverso e più radicale del modello. Per l’architetto romano il plastico è uno strumento per indagare lo spazio, per dare sostanza a quello che in architettura non ne ha e che quindi è difficile raffigurare. Il suo studio dello spazio architettonico si basa quindi sulla produzione di modelli dello spazio interno degli edifici, soprattutto chiese e monumenti classici. Moretti inverte quindi pieno e vuoto e pubblica ripetutamente le sue analisi tridimensionali sulla sua rivista (“Spazio”, appunto), presentandole come un dispositivo essenziale per comprendere la potenzialità dell’architettura di configurare non solo la materia (sostanza, struttura, stile) ma ciò che la materia genera e racchiude, lo spazio.
Display
Se il modello di architettura ha grande importanza all’interno del processo progettuale, la sua centralità è ovviamente ancora maggiore quando lo collochiamo in un contesto espositivo o museale. Come accennato all’inizio, la sua efficacia all’interno di una mostra di architettura (ma non solo) è certificata e perdurante. In tempi di realtà virtuale o aumentata, metaversi e dispositivi interattivi di ogni genere l’item preferito dai visitatori sembra essere ancora la maquette, probabilmente perché convince l’osservatore di avere accesso a un canale di comunicazione più veloce tra rappresentazione e realtà, e di poter essere lui a decidere a che scala far lavorare il suo sguardo. Naturalmente non è l’uso canonico dei modelli nelle mostre che ci interessa oggi. Molto più interessante, in questo contesto, indagare le situazioni in cui il modello è realizzato/esposto in modi e proporzioni inusuali, tanto da mettere in discussione la natura e i requisiti stessi del suo essere solo una rappresentazione.
Parliamo qui di un mutuo avvicinamento: mentre gli architetti spingevano l’architettura verso un’identità sempre più museale, espositiva (Architettura per i musei è il titolo di uno dei testi fondamentali di Aldo Rossi), il modello inteso come item museale assumeva una scala sempre più duttile, non più limitata alla miniatura, ma piuttosto sempre più confondibile e interscambiabile con la realtà, esattamente come nel caso del Teatro del Mondo, delle varie “porte” costruite da Rossi nelle sedi delle Biennali veneziane, o dei molti episodi di ricostruzioni di edifici o porzioni di edifici in scala reale che avvengono oggi nei musei.
Fiction
L’idea dell’exibition copy applicata all’edificio ci fa pensare immediatamente al cinema, e alla sempre più frequente presenza di repliche di architetture e città nel mondo dell’immagine in movimento. Il cinema in questo campo custodisce una legacy leggendaria, ad alto valore storico, artistico e politico. Alcune citazioni sono ovvie, ma forse utili per le generazioni più giovani. Prima di tutto il capolavoro Le mani città (1963) di Francesco Rosi, nel quale un grande plastico dei nuovi quartieri che gli speculatori intendono realizzare troneggia al centro dell’inquadratura per ricordarci come il protagonista principale del film sia in realtà la città, ritratta nel pieno del suo conflitto con un potere economico e politico spietato e corrotto. All’estremo opposto il surrealismo “carrolliano” di Fellini, che in un episodio di Roma (1792) fa muovere una gigantesca Anita Ekberg tra le architetture spettrali dell’EUR, mettendo in luce il carattere irreale e di finzione (fiction) che quella incongrua eredità architettonica del fascismo assumeva nella città “moderna e democratica”.
Interessante notare che i problemi di proporzione della scena di Roma oggi sarebbero certamente risolti con strumenti digitali, animazioni, sovrapposizioni e via dicendo. Nel ’72 si trattava ovviamente di modelli materiali, legno e cartone assemblato con sapienza e velocità, tra i quali la Ekberg e Fellini potevano aggirarsi a volontà, padroni temporanei del destino della città. Il cinema, inevitabilmente, tende a inserire il modello all’interno di un altro modello, che noi chiamiamo scenografia. Sempre verosimile, mai reale, la scenografia è un altro degli archetipi essenziali dell’agency del modello. Per spiegarci vale la pena citare un'altra coppia oppositiva e virtuosa a un tempo, utile anch’essa a mettere in luce il potere (culturale, politico, comunicativo) connesso al tema del modello. Da un lato troviamo il capolavoro di L’Herbier, L’inhumaine (1924), nel quale le scenografie ipermoderne di Mallet-Stevens servono a propugnare uno stile architettonico cubista e futurista inseparabile dallo stile di vita moderno. Simmetricamente l’indimenticabile modello in scala reale di Villa Arpel di Mon Oncle (1958) è essenziale per la critica che Jacques Tati e il suo alter ego Monsieur Hulot formulano al modernismo tecnocratico così dominante all’epoca in Europa.
Dal film il modello è scivolato velocemente verso il prodotto televisivo, sia nella versione fiction esemplificata nella serie citata all’inizio, tutto sommato con una funzione simile a quanto avviene nel cinema, sia in quella più giornalistica ed esplicativa. Sono anni per esempio che Bruno Vespa usa i modelli di edifici nelle sue trasmissioni come un materiale forense, utilizzato per visualizzare delitti, azioni militari, altri eventi. Ovvio ricordare, come fa da anni il gruppo Forensic Architecture con le sue ricostruzioni in scala, che modi e scelte che si compiono nella realizzazione della replica possono avere un ruolo cruciale nell’attribuzione delle responsabilità.
Fotografia/arte
La casa di bambola della Benning, la spettacolare installazione dei Kabakov (Where is Our Place, 2003) incentrata sulla sproporzione tra visitatore e opera, le scenografie di Fellini e Tati, insieme ad altri progetti che ancora non abbiamo citato, come la bellissima Haus di Fischli & Weiss (1987), danno modo di avvicinarsi al tema che fa sfondo a questa presentazione, vale a dire il parco riminese con L’Italia in miniatura e la rappresentazione che ne fa Ghirri con le sue fotografie. I modelli citati e i luoghi in cui sono collocati ci aiutano a identificare uno spazio intermedio tra il modello come oggetto contenuto in uno spazio, scultura da interno, e il modello come volume che si avventura nello spazio aperto, affrontando il rischio di essere sopraffatto dalla scala del contesto reale. In questo spazio ambiguo e un po’ inquietante si colloca l’Italia in miniatura, i cui elementi – studiati e proporzionati individualmente – devono poi comporre un paesaggio coerente a cielo aperto, basato su relazioni e risonanze che nella realtà non esistono. Il modello-scultura di Fischli & Weiss è in questo caso un esempio cristallino, non a caso un’opera d’arte. La maquette in scala 1:5, alta quasi sei metri, di una anonima casa moderna ha viaggiato attraverso diverse gallerie museali (scultura) per poi “atterrare” come collocazione definitiva in uno spazio urbano di Monaco (urbanistica), affrontando “a viso aperto” il confronto con la scala e la funzione degli edifici reali, suscitando ansia e curiosità tra i passanti.
La fotografia, tanto per tornare alla ragione di questo testo, ha a un certo punto scoperto di poter costruire con la rappresentazione spaziale dell’architettura un rapporto fertile e creativo, fatto di un’alternanza spiazzante di ambiguità e disvelamento. Basta forse citare tre esempi che abbiamo sfiorato in questo testo e che ben rappresentano posizioni diverse e complementari nel ricorso al modello come elemento di definizione del rapporto tra fotografia e realtà. Il primo è Thomas Demand, forse quello che ha profuso maggiore sforzo teorico nel chiarire interesse e ruolo dei modelli nel processo creativo fotografico. Demand, che al tema ha dedicato anche un libro e una mostra (House of Cards, 2020), introduce alcuni elementi importanti per chiarire perché consideri il modello un soggetto più efficace dell’edificio reale. Prima di tutto spiega come gli unici aspetti di realtà delle immagini prodotte con modellini da lui stesso costruiti sono quelli immateriali: in particolare il progetto e il contenuto espressivo della fotografia. Poi introduce una variante temporale cruciale: il modello esiste solo per il tempo necessario alla produzione fotografica (o della mostra) per poi esser distrutto. Il lavoro di Olivo Barbieri ha in comune con Demand un aspetto cruciale, vale a dire l’interrogazione sul potere e la natura del medium fotografico.
Il suo è però un approccio inverso. Le visioni urbane e architettoniche vengono prese dalla realtà e trasfigurate in simulacri irreali, che lasciano l’osservatore interdetto e incapace di comprendere se le immagini di Las Vegas, Roma, Pechino che vede siano fotogrammi di spazi reali o di repliche grafiche o tridimensionali. La sequenza più che decennale dei Site_Specific, che [non] raccontano quaranta ricognizioni urbane effettuate dall’elicottero, è la spina dorsale del lavoro di Barbieri. Città ed edifici come “modelli di studio” che gli consentono di testare la possibilità della fotografia non di riprodurre, ma di costruire e distorcere una possibile percezione della realtà. L’intento di dissimulazione della realtà di Barbieri ha un’assonanza importante in una famosa fotografia di Luigi Ghirri, scattata a Versailles nel 1985. Non la stessa tecnica dei primi voli di Barbieri, con la scoperta del fuoco selettivo, ma una tecnica diversa, che però arriva allo stesso risultato di diluire l’effetto di rappresentazione e di riportare così il fuoco verso l’interno, vale a dire la fotografia stessa.
Più interessante in questo contesto tornare alla miniatura riminese, dove Ghirri spinge su un tasto che oggi ci sta molto a cuore: il realismo della rappresentazione tridimensionale di spazi ed edifici. Il bel lavoro svolto per la mostra di Reggio Emilia dai ragazzi dell’ISIA di Urbino dimostra come a ogni modello, attraverso calcoli accurati su proporzione, percezione, livello di dettaglio, venga assegnata una scala precisa, non alterabile. La fotografia, come sanno bene Ghirri, Barbieri, Demand, ha il potere di riportare il modello a una condizione bidimensionale e di far scomparire la scala, spingendo la maquette verso una condizione più “astratta”. Ghirri fa un passo ulteriore, ammette “i turisti” nelle immagini dell’Italia in miniatura, rivelandoci le dimensioni reali delle riproduzioni (una scala precisa), e mettendo nel mirino dell’obiettivo non più il grande plastico nazionale e nemmeno i visitatori ma proprio lo spiazzamento generato dal fatto di potersi muovere – e perfino arrampicare – su un paesaggio irreale e infedele, ma perfettamente efficace.
Questo articolo è il testo di una conferenza tenuta a Reggio Emilia in occasione della mostra In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive, a cura di Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta e Matteo Guidi al Palazzo dei Musei, per il trentennale della scomparsa del grande fotografo, da poco chiusa.
In copertina, Luigi Ghirri, Rimini, 1977 @Eredi-Luigi-Ghirri.