Speciale
Nessuno me lo aveva detto. Un vuoto
Voltandosi a considerare il XX secolo sembra che la storia predominante riguardo al continente africano sia una storia immaginata. Dagli esploratori ai missionari, dai colonizzatori ai giornalisti, la documentazione sull’Africa (e per documentazione intendo il modo in cui il pensiero occidentale è solito registrare la storia: libri, diari, giornali, archivi ecc.) è stata scritta, fotografata e interpretata da osservatori esterni. Bofa da Cara (Pere Ortín & Nástio Mosquito) ha mostrato, questo storico monopolio nel definire il “Continente nero” nel montaggio video My African Mind (“La mia mente Africana”, 2010).
Bofa Da Cara, My African Mind, 2010, still da video, 6’11’’. Courtesy Bofa Da Cara
Ma noi oggi siamo illuminati, non è vero? Noi – a chiunque pensiamo quando dico “noi” – siamo educati alla sensibilità culturale e all’inclusività. Noi siamo il mondo post-Magiciens de la Terre! In realtà, però, ci sono altri livelli di complessità da considerare per valutare il percorso degli artisti africani.
Per quanto gli ambienti artistici abbiano fatto grandi passi in avanti nel rappresentare ed esporre artisti di origine africana – da un crescente numero di mostre personali (Ibrahim El-Salahi alla Tate Modern, El Hadji Sy al Weltkulturen Museum, Zanele Muholi al Brooklyn Museum), alla prolifica presenza africana alle biennali di tutto il mondo (compresa la cruciale partecipazione a All the World’s Futures di Okwui Enwezor per la Biennale di Venezia 2015) – esiste un gruppo di persone per le quali l’Africa è ancora un luogo immaginario.
Zanele Muholi, Isibonelo/Evidence, installazione, Brooklyn Museum, 2015. Ph. Joseph Underwood
Parlando da americano, vedo che esiste una maggioranza incolta, insensibile non soltanto alle discussioni sollevate dagli artisti/attivisti contemporanei, ma anche ai temi che riguardano il Sud del mondo in generale. Per chiunque non chieda, non indaghi, l’Africa rappresenta la testimonianza persistente della povertà, della malattia e della violenza. Nonostante i progressi tecnologici e i terabyte di informazione disponibili, gli utenti medi di Instagram o di Twitter di oggi non sanno, dell’Africa contemporanea, molto più di quanto ne sapesse un cittadino del XIX secolo. La loro percezione si basa sulle storie strazianti delle ONG che esistono per “sensibilizzare”, o sui paesani del musical Book of Mormon, o su un qualsiasi video virale che li metta in guardia nei confronti di Joseph Kony. Sebbene alcuni artisti trattino questi temi – come la serie di Sam Hopkins sui loghi di ONG reali e fittizie operanti in Kenia – le nostre biennali, gli articoli e le conferenze raramente incontrano il pubblico generico e, di conseguenza, non aiutano a riallineare questa dispercezione.
Sam Hopkins, Logos of Non-Profit Organisations Working in Kenya (Some of Which Are Imaginary), 2010- in progress. Ph. Sam Hopkins
Nel sistema scolastico degli Stati Uniti, l’Africa è un buco nero. Dalla politica all’arte, passando per tutto quello che c’è nel mezzo, gli studenti interagiscono con il corpus degli antenati occidentali, imparando di monarchi francesi, riformatori olandesi, patrioti americani. Leggono testi sulla Seconda guerra mondiale, studiano l’astronomia greca, leggono la letteratura inglese. L’unica introduzione all’Africa avviene attraverso notizie sugli animali esotici o sommarie lezioni di geografia che comprendono le foto di alcune capanne di fango che stanno lì a rappresentare un intero continente. Che cosa colma questo vuoto? Sebbene nel continente africano esistano più di un miliardo di individui, il pensiero medio occidentale riesce a figurarsene solo alcuni tipi – per queste immagini rimando di nuovo agli africani caricaturali del video di Mosquito – il signore della guerra, la donna di campagna, il bambino denutrito, il vecchio guerriero, l’indigeno nudo.
Questa storia è anche la mia. Meditando sulla domanda “Perché l’Africa?” mi trovo innanzitutto a confrontarmi con la domanda “Perché io?”. Discendente per metà dal Kentuky e per l’altra metà dalla Cina, ho ricevuto un’istruzione tipicamente Americana. Ho frequentato un’eccellente Università di materie umanistiche, dove ho studiato la storia dell’arte e il francese… e la mia esposizione all’Africa è avvenuta soprattutto attraverso la visione di Animal Planet. Negli Stati Uniti non esiste incontro con la storia o la cultura africane che non sia intenzionale. E se gli educatori, a ogni livello, non propongono attivamente le produzioni che provengono dal Sud del mondo, il paradigma non cambierà.
Toguo/Cissé, installazione alla Galerie Le Manège, Biennale Dak'Art, Senegal, 2010. Ph. Joseph Underwood
La mia prima visita a Dakar ha messo a dura prova la disinformazione che avevo assorbito nel corso di una vita. A qualsiasi osservatore dotato di senso critico appare evidente che il Senegal non rappresenta l’intera Africa, che Dakar non rappresenta il Senegal, e che nessuno dei suoi arrondissement rappresenta tutti gli altri. L’omogeneizzazione si frammenta rapidamente in idiosincrasie e specificità. Non esiste un singolo tipo nazionale o regionale di persona, proprio come non esiste uno stile artistico unico e lineare.
Non pretendo di essere illuminato. Non ho intrapreso nessun tipo di ritorno alle origini né scoperto una parte dimenticata di me stesso. Ho solo iniziato ad ascoltare quelle voci che non fanno parte del corpus dilagante dell’informazione occidento-centrica. I prodotti dell’Africa sono sempre stati stimolanti e in dialogo con il resto del mondo. Si deve a uno squilibrio sistemico, però, il fatto che la storia abbia soppresso questi contributi. Se guidato, ogni individuo – proprio come me – può imparare che quelle che appaiono genericamente come danze tribali e arte indigena sono, in realtà, il complesso ballo in maschera Goli dei Baule o le rappresentazioni di un Nommo, lo spirito ancestrale dei Dogon. Possiamo imparare della potente scultura astratta di Ezrom Legae durante l’Apartheid, del contributo di Papa Ibra Tall e Iba N’Diaye al Modernismo africano e alla École de Dakar, o della pioneristica presenza di Chéri Samba al Centre Georges Pompidou nel 1989. E non saremmo più sorpresi dalla presenza dei nuovi media – digitale, video, suono – nell’opera degli artisti africani.
Papa Ibra Tall, Royal Couple, 1965. Ph. Joseph Underwood
Questo è dunque il piccolo angolo da cui parlo. Avendo proceduto a tentoni per imparare la maggior parte delle cose che so, condivido con gioia questa nuova conoscenza (la storia non è nuova, ma è nuova per me) con i miei studenti. Lo specialista in matematica figlio di madre single, lo studente che ha compiuto due giri dell’Afghanistan, lo studente ospite che viene dalla Corea del Sud – ognuno arriva in classe con un proprio background ed esperienze di apprendimento uniche. Il comune denominatore fra di loro? Lo stesso che lega le mie lezioni, i miei colleghi, i miei amici “colti”, i miei libri di testo e le mie notizie su Facebook: alcuni antiquati e fuorvianti stereotipi sull’Africa che determinano la loro conoscenza di un intero continente. E così io insegno… le corti del Benin e la maestria nel lavorare il bronzo, l’Esposizione Coloniale Internazionale di Parigi del 1931 e il trasferimento degli africani occidentali a Parigi, o il letterale dare una forma nuova ai libri di storia nelle tese figure di Wim Botha.
Questa è la mia risposta a “Perché l’Africa?”. Non è una difesa della significatività dell’Africa, o del perché il mondo dovrebbe interessarsene. L’Africa non ha bisogno di essere difesa, è la nostra ignoranza che ha bisogno di difendersi. La mia risposta consiste nel colmare un vuoto. Perché queste cose avrei dovuto saperle già. Perché i miei figli e i loro figli non devono ricevere un’educazione moderna e poi imparare di nuovo le parti che riguardano l’Africa. Perché gli studenti delle università di oggi non dovrebbero laurearsi e continuare a determinare la politica, fare affari, gestire lo spettacolo e la cultura se quello che sanno della ricchezza del patrimonio dell’Africa e dei suoi contributi contemporanei si limita agli elefanti e a Ebola.
Traduzione di Caterina Grimaldi
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