Non è colpa dello specchio se il naso è storto
Leonardo Sciascia nella presentazione a Quel regno, questa repubblica osservava che la retorica di un’identità in frantumi e di una nazione in costante dissolvenza ha radici lontanissime. Da sempre, gli italiani “ossessivamente si interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nella consapevolezza che non è colpa dello specchio se i loro nasi sono storti”. Al disfattismo di chi è costantemente impegnato nella proclamazione del provincialismo e delle immaturità del nostro Paese, che si accompagna spesso con il dibattito sul crepuscolo letterario e artistico contemporaneo, si oppone la linea di chi invece decanta l’italiana eccellenza culinaria, il sole, il mare, una millenaria storia artistica e letteraria sotto gli occhi di tutti. A chi l’Italia appare troppo piccola e chiusa secondo una tendenza diffusa di mostrarsi pateticamente internazionali e cosmopoliti, risponde chi la vede anche troppo grande e aperta al punto da sentire l’esigenza di innalzare barriere invalicabili per proteggere il proprio orticello e chiudersi astiosamente nella propria cerchia immediata.
I sondaggi, a distanza di decenni, confermano che la percentuale di cittadini italiani che si dichiarano orgogliosi di esserlo è molto ampia. Eppure quando agli intervistati viene chiesto di motivare le ragioni del loro orgoglio, sono davvero pochi quelli che riescono a dare una risposta che vada al di là dei soliti, logori luoghi comuni. Ci si sente italiani a giorni alterni, a seconda dell’umore, o dell’ora, o delle notizie trasmesse dal tg. Ci si sente italiani, “in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso”, come diceva Garboli, in un momento particolare, dopo un titolo mondiale, dopo la morte di un nostro soldato in “missione di pace” in un paese straniero, quando vediamo attuata una punizione esemplare verso il delinquente extra-comunitario di turno. Ci si sente italiani all’autogrill, come scrive Antonio Scurati, attorno al movimento pulsante di “questa gente tornata proletaria sotto la spinta compulsiva all’esodo di Ferragosto”, sotto “l’inveterata inclinazione plebea a sentire, in compagnia degli umili, «farsi più puro il cammino dove più turpe è la via»”, aggrappandosi “a tutto ciò che nel carattere nazionale ci allontana dalle istituzioni e ci spinge verso il sentimento o senso comune (a cominciare dall’arte di arrangiarsi) perché ciò ci esenta dal senso civico o da quello dello stato”. Ci si sente italiani al cinema, in televisione, nella canzonetta, nell’arte, nella moda, nel made in Italy. Ci si sente italiani, insomma, in qualunque situazione il Paese venga celebrato senza tirare in ballo le istituzioni. Ma ci si sente italiani anche nella sfiducia civile, nella mafia, nella monnezza, nei difettucci e nelle storture, aspetti che riescono ancora a mantenere una (in)decorosa levitas, se accompagnati da una buona dose di autocompiacimento, furbizie, ironia e cinismo. L’italiano è simpatico, per definizione: può essere mira di qualsiasi critica ma è quasi impossibile odiarlo davvero.
Alla radice della situazione di difficoltà e imbarazzo nel definire la propria italianità sta la questione di un’identità sofferta, minata, mai raggiunta pienamente sul piano della consapevolezza storica e sociale. Il mercato editoriale 2010/2011 è tutto un profluvio di fervide pubblicazioni sulla storia appassionata del nostro Risorgimento, delle nostre tradizioni comuni e particolari. Ma è certo che i cittadini italiani non hanno mai avuto il sentimento comune di un passato di glorie e di sofferenze. Proprio il Risorgimento viene studiato per accenni sommari e semplicemente come una serie di momenti temporali e geografici da ripetere a memoria; si riesce addirittura a far odiare agli studenti i Promessi Sposi, il nostro romanzo nazionale, una delle opere più acute, ironiche e divertenti che il genio letterario italiano abbia mai prodotto. Ci si sente italiani davanti all’immagine della bara di un militare italiano ucciso in Iraq, ma il fatto che centinaia di giovani abbiano sacrificato la propria vita e la propria gioventù per riunire il nostro Paese in nome del grande ideale risorgimentale, quasi non ci tocca.
Sappiamo anche che la costruzione del processo unitario nazionale nel nostro paese è un fenomeno recente - non facciamo che ripeterlo in questi giorni, quanto siamo giovani! -, basato sull’adozione del modello centralizzatore illuministico e giacobino francese, totalmente incoerente con la storia vissuta e sentita nel profondo che ci parla di una realtà territoriale policentrica e poliedrica, regionale, cittadina, municipale, addirittura familiare. Questo è forse, dal punto di vista storico, il principale ostacolo da affrontare quando si parla di una “identità italiana”. L’identità - parola certamente abusata, e quindi svalutata, in molti ambiti della società, tanto che Francesco Remotti l’ha definita “parola avvelenata”, perché promette ciò che non c’è e ci illude su ciò che non siamo - è coscienza di se stessi, è un diritto inviolabile dell’individuo sancito dalla Costituzione, e non può essere semplicemente “sentita”, né può sacrificare la sua complessità a proposte riduttive che intendano semplificarla, bensì necessita di un lungo processo di acquisizione di razionale consapevolezza. Ma la frammentazione identitaria che caratterizza dall’interno il nostro paese è solo una prima questione da risolvere.
“La conoscenza di noi stessi passa attraverso quella dell’altro”, ricorda Todorov. L’identità, quindi, che è coscienza della propria specificità, nasce attraverso il confronto con l’altro, con il diverso, con lo straniero. Niente agisce meglio del termine di paragone per farci comprendere quello che ci distingue dall’altro, attraverso criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità. Ora, l’avventura disastrosa e vergognosa del colonialismo italiano - un movimento di brevissima durata, se paragonato alle storie colonialiste delle altre potenze europee ed extra-europee - soffre di un curioso fenomeno di negazione e rimozione. È stato un fenomeno svantaggioso a causa del resoconto economico in perdita che le colonie hanno lasciato; è stato un evento negativo perché psicologicamente devastante, sia a livello individuale che collettivo; è finito di colpo, così come era iniziato, senza un fenomeno di decolonizzazione, e non ha lasciato tracce culturali. Anche per questo, la costruzione identitaria nazionale che ci deriva dal colonialismo è molto meno incisiva che in altri paesi. Ma “l’altro”, abbiamo visto, non è solo l’extra-comunitario, bensì l’italiano stesso, quello che proviene da una delle tante identità regionali diverse dalla nostra. L’orgoglio per le differenze, a quanto pare, è una delle acquisizioni più difficili da raggiungere, come dimostrano le divisioni inconciliabili tra Nord e Sud, Est e Ovest, nel nostro Paese. E inevitabilmente c’è sempre qualcuno che fa della differenza e, soprattutto, della debolezza e della paura della nazione intera un pungolo di ostilità intestina.
Una frattura fondamentale - per concludere questo discorso introduttivo - dal punto della costruzione dell’identità nazionale è rintracciabile nel periodo che va dal dopoguerra fino agli anni Novanta. Tra il crescente ipertrofizzarsi dell’identità individuale e l’omologazione all’ideologia neoliberale e consumistica, abbiamo perduto la consapevolezza delle nostre tradizioni e della loro complessità. Con una leggerezza inquietante abbiamo rifiutato, deriso, rimosso usanze che proteggevano come una seconda pelle valori profondi ritenuti ormai inutili, retrogradi, sconvenienti per una nazione che avanzava a grandi passi verso l’Europa.
Si diceva che l’identità è coscienza della propria specificità. L’argomento all’ordine del giorno - non solo oggi che abbiamo celebrato i nostri 150 anni - è l’identità minacciata. Pensiamo alle parole di Bauman: “L’identità viene evocata quando la comunità crolla”. Uniamoci il fatto che la sociologia e l’antropologia culturale insegnano che le identità possono essere combattute e represse con la violenza, ma esse sono minate solo dal loro interno, quando l’autocoscienza manca o è carente. Per questo siamo costretti a riconoscere con amarezza che l’unica identità minacciata oggi in Italia è proprio la nostra. Consapevoli di non essere in grado di elaborare un progetto di identità comune chiediamo da anni agli immigrati di integrarsi. Ma integrarsi in cosa?
Che fare? Gli italiani non sono un popolo di rivoluzionari. Ciò che più temono è probabilmente il pensiero di sottoporre a una penosa critica personale i propri costumi e le proprie azioni e di risvegliare la coscienza sopita o, meglio, rimbecillita, in cui beatamente si crogiuolano. La coscienza non si tocca: meglio metterla a tacere, insieme al conformistico moralismo delle buone cause, magari con una martellata, come fa Pinocchio con il Grillo Parlante.
Per questo è difficile oggi rispondere alla domanda: “che fare?”. Certamente un primo passo sta nell’accettare il fatto che un’autentica identità italiana è ancora da costruire. Non tutto è da buttare, non tutto il passato è da rifiutare in blocco, ma una rilettura storica faticosa e profonda è più che mai necessaria.
Ora, dalla consapevolezza dei padri di avere sbagliato, i figli dovrebbero trovare la forza di ripartire. Quei padri, quelli che appartengono alle generazioni nate dopo gli anni Trenta, si sono resi colpevoli di non aver consegnato nessun testimone ai loro figli, ma solo un benessere (fragile) e una cultura del consumo e della spettacolarizzazione. In tale deserto di valori è cresciuta l’indifferenza, il disimpegno sociale, la diseducazione civica. Oggi camminiamo sulle macerie di una società malata a tanti livelli, devastata nell’immaginario, che legittima modi ambigui di fare carriera e far valere le proprie capacità, che non ha fiducia nella giustizia, che non sente di avere dei doveri nei confronti di nessuno. Decenni di indifferenza, disinteresse, corruzione, menefreghismo, scorciatoie, sotterfugi, maleducazione, ci hanno ridotti a un paese zimbello, dove si comincia a credere che l’unica soluzione sia tornare a essere noi stessi emigranti.
Da qualche parte bisognerà pur iniziare perché non possiamo ignorare il fatto che qualcosa di importante è già in marcia. Lo conferma la critica situazione geopolitica del nostro Mediterraneo, l’olocausto ambientale che si consuma quotidianamente, le risorse che cominciano a scarseggiare drammaticamente. È arrivato il momento in cui non ci si può più nascondere nell’ipoteca del futuro dei nostri figli o dietro il fantasma dello sviluppo sostenibile.
Quale sarà il ruolo della cultura in questo processo? Se lo chiedono in molti, tra cui Carla Benedetti nel saggio Disumane lettere, edito da Laterza. La risposta sta forse nel genio e nella forza rigenerante dell’arte? Non lo sappiamo, eppure si percepisce un desiderio sempre più diffuso di dialogo, a tutti i livelli. E allora ripartiamo dal dialogo e dall’unione. Quando tutto è perduto tutto può essere ricostruito. Recuperiamo il linguaggio, l’identità regionale e nazionale di cui esso è portatore, le tradizioni e i valori dimenticati. Ripensiamo questi elementi con la curiosità di scoprire nuovi contenuti culturali affini e differenti, in grado di collaborare alla costruzione di una “identità comunitaria” che si fa sempre più necessaria. Facciamo sì che la letteratura di chi viene da fuori e di chi è nato nel nostro paese ma è figlio di immigrati possa partecipare al processo di ricostruzione. Ricordiamoci che la nostra idea di nazione si fonda prima di tutto su base letteraria, a partire da Dante, sul suo modello di lingua e koiné comune. Forse qui sta il punto, forse l’Italia può rinascere nuovamente a partire dalla lingua e dalla letteratura.