Oggetti d'infanzia | Il presepe

25 Dicembre 2013

A fianco del grande camino di arenaria, nel soggiorno della casa di Sarzana dove sono nato e ho vissuto la prima infanzia, c’era una scala interna, di legno scuro, vietata di regola a noi bambini. Abitavamo all’ultimo piano (il terzo); per quegli scalini proibiti e cigolanti si saliva a una mansarda affacciata sui tetti. Lassù, mio padre aveva il suo studio di scultore. Di ex-scultore, dovrei dire: con la nascita di noi tre figli, le sue ambizioni artistiche erano state accantonate per sempre. La stanza si presentava comunque come un atelier in attività: statue e statuette compiute e incompiute, scalpelli, spatole, raspe, attrezzi per modellare, gessetti, stracci, grafite, blocchi di creta. Su tutto, un sentore di carta e di plastilina.

L’accesso allo studio ci era consentito soltanto in rare occasioni, e principalmente con l’approssimarsi del Natale. Nei mesi dell’Avvento, su un grande tavolo a cavalletti montato in un angolo della stanza, mio padre allestiva il presepe (presepio, lo chiamavamo allora).  Noi eravamo ammessi ad assistere.
Innanzitutto, bisognava predisporre il paesaggio: grosse zolle di muschio, brune e verdi, profumatissime; finissima sabbia di fiume per deserti e sentieri; corteccia di quercia da sughero, in larghi tranci rugosi a forma di tegola, per le montagne; per laghi e fiumi, stagnola e ritagli di specchio. Poi le torri lontane, di compensato dipinto; un pozzo, una casupola, tre palme. A poco a poco, la scena si popolava di statuine: uomini e donne, angeli pecore e cammelli (mio padre ci permetteva a volte di aggiungere un’incongrua giraffa, un coccodrillo tolto alla cesta dei giochi).
Nell’ombra della capanna di canne e sassi, laggiù in un angolo, l’asino e il bue ruminavano in solitudine: Maria, Giuseppe e il Bambino li avrebbero raggiunti solo alla fine.

Io guardavo il presepe come si guarda una tavolata piena di cose buone. La sua quiete mi eccitava, mi trascinava; i materiali di cui era fatto (sughero, sabbia, muschio) mi procuravano un intenso piacere fisico anche solo a contemplarli da fuori, senza toccarli.

Del significato religioso di questa rappresentazione ne sapevo quanto ne può sapere un bambino di quattro, cinque anni. Certo, me l’avevano spiegato. L’avevo capito, il gioco, e accettavo di giocarlo, all’occorrenza: Gesù Bambino che nasce, i pastori, i Re Magi... Ma a legarmi a quello spettacolo c’era un gioco più profondo, più difficile da spiegare. Il disordine del mondo, il flusso obliquo e inafferrabile che chiamiamo realtà, nel presepe lo sentivo addomesticarsi, fissarsi finalmente, farsi scena. Quella scena, lo sguardo la dominava, la custodiva, la percorreva liberamente e amorosamente come dall’alto di un cielo inviolabile. La coglieva ora nel suo insieme, nel suo spalancarsi ed essere tutto, ora nell’intimità del singolo personaggio, del singolo aneddoto: la pastorella che sgrida il cane, il mugnaio che si affaccia dal suo mulino.
Quel mondo simulato e irrigidito, in me, era più vero e vivo del suo modello.

Anche il plastico del trenino elettrico, o i soldatini schierati su uno scoglio, si presentavano più o meno allo stesso modo; ma nel presepe le figure –prese in una pace soprannaturale- non potevano muoversi, scontrarsi, cadere. La loro fissità mi ipnotizzava.
A qualcuna mancava un braccio, una gamba: dal povero torso di argilla di un pescivendolo, il fil di ferro dell’anima spuntava minacciosamente; ma la mutilazione non ne alterava il bel sorriso bambolesco.
Quel piedistallo che i talloni dei viventi non avvertono, lì si manifestava come un tratto essenziale del nostro stare al mondo: zolla di creta, suolo che non ci abbandona mai, neppure da sdraiati, o a testa in giù. Sostegno; e insieme zavorra, impaccio, impedimento.

Un altro motivo del fascino che esercitava su di me il presepe (solo più tardi ho cominciato a capirlo) era l’alta impersonalità dei figuranti: l’Acquaiolo, il Fornaio, la Lavandaia… In quel mondo ideale, l’uomo sembrava liberarsi dal vano brulichìo dei nomi e dei cognomi, delle infinite identità, per rivelare la sua natura profonda di esemplare, di tipo, di campione. Anziché imbarazzarmi, lo stereotipo rasserenava il mio piccolo spirito. La convenzionalità di quelle presenze mi raccontava una favola che ancora oggi mi lusinga: noi siamo il Legnaiuolo, la Donzelletta, siamo il Fanciullo nella Piazzola, il Carrettiere; lo Scolaro, il Soldato, il Professore… Nello spettacolo del presepe –tragedia o commedia che sia- non ci sono protagonisti, non ci sono eroi: solo comparse, figuranti, coristi.

E’ vero, il presepe ha un centro: la Mangiatoia, e nella Mangiatoia il Bambino; ma quel centro –simmetricamente opposto alla scaturigine dello sguardo- è un immateriale, impersonale punto di fuga che nella prospettiva del santo diorama colloca le parvenze umane nello spazio: una qui, lungo il fiume di stagnola, una là, sul crinale di sughero dei colli; è una sorgente di luce che genera questa guancia rosata, quella bisaccia. Il presepe è il Luogo dove ognuno viene posato al suo posto. Questo mi piaceva, in quello spettacolo: l’ordine, la compostezza, la docilità con cui ogni figurina abitava nella sua propria distanza, ripeteva il gesto che le competeva nella grande scena del mondo.

E’ forse a questo che pensavo senza saperlo, molti anni più tardi, mentre scrivevo le poesie che poi ho pubblicato. Che cosa sono i miei Passanti, le mie Case, i miei Vigili, i miei Cani, se non figure di un quotidiano, irrequieto Presepe urbano?

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