Oltre un confine dove nessuno

6 Marzo 2015

Paul Thomas Anderson è stato fedelissimo a Pynchon nella sua trasposizione cinematografica di Vizio di forma: i dialoghi, la trama, i personaggi del film sono ripresi quasi letteralmente, la sensazione è quella di un libro che si fa immagine come se una mano ne girasse le pagine, passo dopo passo, strato dopo strato.

 

Basta prendere l’inizio di entrambi, libro e film, e sovrapporli, con la vista del mare stretta fra due case, i surfisti sullo sfondo, la voce over della narratrice Sortilege che riprende le parole del narratore, il detective Doc Sportello e l’ex fidanzata Shasta che si incontrano dopo anni nella casa di lui: sembra che Anderson reinterpreti Pynchon a occhi chiusi, andando a memoria, by heart come dicono gli americani, lo ricalchi e lo riscriva, facendolo proprio, trasformandolo in qualcos’altro, in materia cinematografica pura, grazie a pochi stacchi di montaggio, a pochi tocchi di luce e colore. La luce è pastosa, i colori soffusi eppure pienissimi, blu da una parte e rosso-arancione dall’altro; il tono è sussurrato, quasi rassegnato, i due personaggi un tempo si sono amati, forse si amano ancora ma sono distanti; sono immersi nella luce incerta di una sera che non è ancora notte, in una casa che è povera ma sembra un nido confortevole, isola le due figure dal mondo.

 

Se esiste un aspetto visionario e lisergico, in questo film di spinelli, di cocaina, di allucinogeni, di sguardi strafatti sulla deriva paranoica di una nazione, è proprio lo stato da veglia, da sonnambulismo da svegli con cui si apre; uno stato ipnagogico tutto interiore, negli occhi dei suoi protagonisti e nello sguardo di Anderson, che non ha nulla della fuoriuscita fisica e mentale tipica dell’allucinazione da stupefacenti.

 

Anderson non è mai stato così poco visionario come in Vizio di forma; anzi, mai così preciso ed essenziale. Tutto sta nell’espressione sperduta e attonita di Joaquin Phoenix, nei suoi occhi offuscati e increduli, e di rimando nella gentile presenza della macchina da presa, che sta pure lei lì a guardare, e non si muove più frenetica e complessa come un tempo: primi piani, campi e controcampi, piani fissi, carrelli in avanti e carrelli indietro sullo stesso asse, dissolvenze lente, precise, immagini che semplici e cadenzate si danno il cambio… E tutt’attorno, fuori dalla casa di Doc, un solo californiano biancastro e abbacinante, un’atmosfera d’inizio anni ‘70 disadorna e sciatta, come il décor alle spalle dei soggetti in una fotografia d’epoca, un’ambientazione che non è modernariato, non è scenografica, ma semplicemente spazio rappresentato nello scorrere del proprio tempo...

 

 

Vizio di forma non ricostruisce il passato: non è e non potrebbe essere Boogie Nights, che come scrisse un critico a suo tempo, «almost literally blows the brain ouf of the Seventies». Vizio di forma dal passato è travolto, nel passato è sommerso, e di conseguenza è un film su cosa significhi vivere dentro un mondo e dentro un’epoca; e più ancora su come quell’epoca, che ha segnato il tramonto dell’era hippie, l’esplodere della violenza anarchica di Charles Manson, l’incedere della manie di controllo nixoniane, abbia coinciso con la definitiva trasformazione del sogno in incubo e con l’accettazione della paranoia e dell’allucinazione come inevitabili forme di sguardo e pensiero sulla realtà contemporanea.

 

E se la percezione dello spazio e del tempo è già di per sé allucinata, non ha senso che il cinema vi si sovrapponga: cosa ce ne faremmo, in fondo, di un cinema che ripeta un immaginario trasformato in consuetudine, in pensiero, in totalità? Il cinema – questo cinema – sta perciò a guardare, attonito come il suo protagonista, nemmeno più galleggiante sulla superficie del reale, come il Grande Lebowski dei Coen, ma inghiottito dalla luce, dalla geografia, dalla persistente sensazione di morte, di violenza, di piacere a fine se stesso, di isteria collettiva.

 

Anderson è sempre stato dalla parte dei suoi personaggi, fin dai lontani, esaltanti piani sequenza di Boogie Nights e Magnolia, che inseguivano, osservavano, attendevano in modo febbrile, desiderosi di intervenire, di salvare o condannare. Un po’ alla volta quella vicinanza si è fatta alienazione, l’aderenza al personaggio è diventata sguardo totale, plainview come il nome del petroliere, addirittura cecità di fronte ai giganteschi primi piani in 70mm di The Master, che era un film di forma pura, umanista in senso quasi paradossale, cioè concreto e grezzo, disumano laddove ogni forma di controllo dell’anima e della mente, ogni forma di ideologia, di credo, o anche di sguardo in profondità del cinema stesso, è un atto di violenza e una disumana invasione dell’intimità. In quel film Anderson ce la faceva a penetrare nella mente malata del suo protagonista, il violento, gretto ex soldato Freddie Quell, ma solo dopo una strenua lotta contro il suo corpo, il suo volto, il suo primo piano, e le visioni della sua mente – una casa, una ragazza, un amore perduto – erano estremamente intime e private, visionarie in quanto sguardo privilegiato su un mondo proibito.

 

In Vizio di forma quella stessa dimensione intima del personaggio e dell’immagine è come gettata nella realtà, quel senso di galleggiamento proprio dei flashback è diventato forma unica di racconto, sola possibilità di sguardo libero e umano su una realtà al contrario svuotata di ogni logica. La classicità dello stile di Anderson è sfociata in una forma di sbigottimento: da qui i piani fissi lunghi e stupefatti, come quello bellissimo della scena d’amore fra Shasta e Doc (che a un certo punto cambia improvvisamente di registro, come in fondo il film stesso, che passa dalla sonnolenza alla comicità, dall’ironia distaccata alla violenza); da qui la trama gialla pressoché incomprensibile, come in fondo sempre nel noir, una trama che si può giusto osservare mentre si srotola verso la conclusione; da qui, ancora, la gentile, resistente moralità del detective protagonista, che è ovviamente chandleriano, che rimanda altrettanto ovviamente al Lungo addio, a Poodle Springs, qualcuno ha fatto giustamente notare anche al Moses Wine Detective dell’omonimo film di Jeremy Kagan: Doc non è né cinico né rassegnato, solo vorrebbe liberarsi dal peso di un realtà sempre più distante, con la sua voce nasale, quasi lamentosa, con le sue improvvise esplosioni di urla, con i suoi occhi sgranati e increduli, con il suo sguardo di sottecchi e ammutolito.

 

 

La forma di resistenza di Doc, che per lui significa tornare ad amare una donna, barattare un carico di droga con la liberazione di un uomo, opporre all’arroganza di un miliardario le sue parole più buffe (e qui sta uno dei pochissimi cambi di sceneggiatura di Anderson, perché nel romanzo Doc risponde per le rime a un insulto classista di Fenway, mentre nel film si limita a fare una faccia da scemo e a mimare il rumore di una pistola…), per Anderson coincide con una concentrazione e una condensazione visiva cha ha del sublime, uno stile pulito e precisissimo che nella sua classica, distillata precisione è la risposta all’inevitabile consapevolezza della caducità delle cose, della tendenza di ogni forma di realtà a dissolversi, ad andare in pezzi, ad arrendersi al proprio vizio di forma.

 

Lo stile di Anderson è ciò che resta del cinema e delle immagini nell’eterno presente di questa continua forma di alienazione dalla realtà, di questa persistente allucinazione collettiva. È una specie di consapevolezza, quella che Doc dimostra di aver acquisito nello sguardo finale; la sintesi dello scontro fra cultura e natura che attraversa il cinema di Anderson dal Petroliere in poi e, soprattutto, il sostanziale annullamento – espresso nella straordinaria sequenza (assente nel romanzo) in cui Doc e il suo nemico Larsen Bigfoot, integerrimo e strambo poliziotto della LAPD, si sdoppiano l’uno nell’altro, uno hippie e l’altro conservatore, uno che l’erba la fuma, l’altro che l’erba la mangia – dell’opposizione fra anima e corpo impostata da The Master e qui portata altrove, oltre anzi – «oltre un confine dove nessuno, nella nebbia, avrebbe più distinto chi era messicano, chi anglosassone, chi era chicchessia» scrive Pynchon nell’ultima pagina del romanzo – e verso nuove forme di discorso, di felicità, di amore, di cinema anche, dove la luce non è più gatsbianamente verde, ma continua ad illuminare fioca i campi oscuri della Repubblica.

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