Oscar Giaconia: Bestie stellari
Una prima stesura del copione di quello che divenne il film ALIEN, capolavoro del cinema di fantascienza di Ridley Scott, venne scritta da Dan O'Bannon e Ronald Shusett con il titolo di STAR BEAST, bestia stellare: la lotta di un organismo ostile e ostinato, il cui unico scopo è sopravvivere per vivere.
Il connubio tra l’ambiente filmico e la ricerca pittorica è centrale nella pratica di Oscar Giaconia, in cui gli elementi sono destinati ad essere ciclici, ricorsivi e compulsivi.
In Parasite Soufflé, mostra personale dell’artista allestita presso la galleria MONITOR di Roma, è stato messo in scena un ecosistema infestato da simbionti.
Lo spazio è stato rivestito: alterando il preesistente, si crea così un ambiente ex novo in cui innestare le opere, come se queste necessitassero di una ricostruzione in vitro per essere fruite, alla stregua di attori dentro ad un set.
Il materiale usato per la foderatura del pavimento è salpa, un composto di cuoio rigenerato generalmente adoperato in pelletteria per la realizzazione di componenti che poi restano invisibili nell’artefatto finale: è proprio l’occultazione cui è destinata, il suo essere una sorta di elemento fantasma e pelle sotto copertura, ad interessare l’artista.
Al centro della galleria campeggia la simulazione di un organismo xenomorfo, una pianta-animale che evoca gli studi di J. Keeble in “Plant-Animals”: un anemone, una piovra, un corallo, un pupazzo tentacolare, un organo riproduttivo rivestito da budello per insaccati, una pianta carnivora la cui incoerente presenza confonde e disturba.
Alle pareti, le presenze della serie Parasite Soufflé appaiono come sentinelle, infiltrati speciali, forse appostati allo scopo di sorvegliare questo organismo plastico, immortalati prima che sferrino il loro attacco.
Lo staging elaborato che l’artista propone autorizza una serie di fantasticazioni.
Questi cinque cacciatori, il cui genere resta ambiguo, possiedono corpi vagamente riconducibili a quello umano; indossano armature ed abiti che rimandano a battute di pesca, ma le loro teste sono sproporzionate e deformi.
I colori acidi, associabili ai marker di contrasto utilizzati in microbiologia, che costituiscono e vestono questi mostri, rendono impossibile il loro camuffamento all’interno dell’ambiente, la cui foderatura è carne: diventa quindi possibile anche supporre che stiano vigilando sulla riproduzione dell’organismo, sebbene non risulti del tutto chiaro se esso sia vivo o meno.
E se quella cui assistiamo fosse invece una cerimonia funebre? Questo risolverebbe la presenza di una serie di oggetti disposti sul pavimento, apparentemente incongrui tra loro: una tuta da disinfestatore, degli occhiali da saldatore, una tavoletta di cera, due paia di stivali di gomma gialla; due assi di nylon sorrette da altrettanti treppiedi, un secchio di plastica sulla cui superficie esterna sono state fissate delle dita di gomma della tipologia utilizzata per gli spiumatori meccanici, un paio di guanti di gomma gialla, un paio di guanti manichetta.
E se invece stessimo osservando il preludio di un rituale, il fermo-immagine dell’istante prima che inizi il sacrificio, o la disinfestazione?
Altre due piccole creature, di cui una pare un pene imprecante dotato di braccia e l’altra un blob, appaiono da dei pezzami di carta fritta.
Nessuna delle creature bidimensionali qui presenti ci guarda, nessuna addirittura possiede occhi, eppure resta la spaesante impressione d’essere controllati.
In mostra c’è una zona buia, dove alcune opere sono state illuminate in maniera specifica avvalendosi di apparecchiature cinematografiche. Queste opere, dipinti ad olio realizzati con piglio maniacalmente fiammingo, sono bocche spalancate di esseri, anche questa volta, non decodificabili, stracci di materia balbuziente. Potenzialmente, si tratta della traslazione bidimensionale dell’organismo scultoreo, delle veroniche mostruose.
Il loro stesso titolo, Troll, il cui etimo proteiforme respinge la lettura univoca e ne offre molteplici: vagabondare, rotolare, intralciare, sabotare, disturbare… declinazioni dell’impossibilità di comprendere, ascrivere, avere precise recinzioni tassonomiche.
Viene in mente la teoria della sacca di Ursula Le Guin, un’idea in cui il raccoglitore si dispiega e si decompone, si sfalda e ricompone, rendendo difficile la distinzione tra contenitore e contenuto.
Nel lavoro dell’artista questa compenetrazione e contiguità si manifesta anche nel rapporto tra cornice e opera, dove il dispositivo esterno è da intendersi componente essenziale dell’opera, una condizione che consente di recepirla.
In questa geometria informe, memoria di forma del proprio habitat, ogni speculazione è valida: magari questa materia brulicante, questo sformato, non vive in antitesi alle immagini che la circondano, ma esse sono possibilità in cui può mutare: “la materia ha una sua agency, una sua intenzionalità vivente, indipendente dall’appropriazione umana? Le cose vibrano di vita propria?”, come si chiede Jane Bennet in Vibrant Matter.
Lo studio di Oscar Giaconia è una sala d’attesa dove ha luogo un casting perpetuo: fotografie, documenti, trappole, tassidermie, abiti di scena e prototipi sono schierati ed archiviati, pronti ad essere attivati e precipitare nella superficie pittorica.
Questa operazione può accadere molteplici volte, dare vita a scale dimensionali e mutazioni materiche, in uno scambio tra dentro e fuori che include lo stesso artefice, protagonista di una serie di sessioni di trucco prostetico che l’hanno reso controfigura e doppiatore di se stesso (Hoysteria, GAMeC, Bergamo – 2019).
Quello che sembra una forma astratta, ma sarebbe meglio dire estratta, usando le parole di Luciana Parisi, “si deve intendere comunque materia, ma mutante, e anche macchinica nel senso di composta da diversi corpi coinvolti nella produzione”.