Georges Bensoussan / Parigi vale ancora una messa

10 Aprile 2017

Va forse aggiunta qualche parola sulla vicenda giudiziaria occorsa allo storico e sociologo Georges Bensoussan. Sembra infatti essere più l’ouverture di un conflitto di lunga durata che non una sgradevole ma occasionale effervescenza in una contrapposizione, altrimenti momentanea, di giudizi. Comunque la si intenda leggere nella sua specificità. Intanto, qualche parola su chi sia la persona in questione può aiutare il lettore italiano. Nato in Marocco, da famiglia ebraica (e quindi appartenente all’ebraismo maghrebino), si forma intellettualmente nella Parigi a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, dove poi insegna storia in un liceo. Dall’inizio del decennio successivo è direttore di quella che oggi è conosciuta come l’autorevole «Revue d’histoire de la Shoah», espressione del Mémorial de la Shoah, l’istituzione più attiva, in Francia, sui temi della deportazione e dello sterminio degli ebrei e delle minoranze perseguitate dai nazifascisti. Negli anni successivi si adopera sul versante della didattica storica, fino ad assumere ruoli di primo piano sia nella ricerca che nella divulgazione. 

 

Più in generale, in quanto storico della modernità ebraica in tutte le sue sfaccettature, Bensoussan si interroga sugli effetti dell’incontro e del confronto tra le identità tradizionali (o comunque ciò che costituisce il rimando collettivo ad esse) e il mutamento sociale e culturale. La storia dell’ebraismo è, dal suo punto di vista, una cartina di tornasole per comprendere le dinamiche irrisolte tra particolarismi e universalismi. La storia del sionismo, quella degli ebrei sefarditi provenienti dai paesi arabi, ma anche l’analisi dell’antisemitismo e lo stesso sterminio nazista si inseriscono all’interno di questa complessa intelaiatura epocale. Già nel 2002, usando lo pseudonimo di Emmanuel Brenner, aveva coordinato e diretto la redazione di un testo, composto perlopiù da testimonianze e verifiche sul campo, tra cui le voci di molti insegnanti, dedicato a Les territoires perdus de la République: antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire. A conti fatti, il volume costituisce a tutt’oggi un rilevante passaggio nella discussione sull’Islam dell’immigrazione in terra francese. Il ritratto che emerge di una parte della gioventù maghrebina, a quel punto già di seconda o terza generazione, è spesso preoccupante. Al riproporsi dei temi antisemitici, rielaborati all’interno di un contesto socioculturale che è quello delle periferie urbane come dei grandi agglomerati metropolitani, dove la marginalità economica si incontra con il disincanto e un aggressivo cinismo, si accompagnano sessismo e misoginia, «francofobia» (Alain Finkielkraut) e un' aggressività alla ricerca di una partitura politica da recitare. 

 

Il testo (e il suo titolo, ripreso poi da diversi uomini politici francesi per descrivere la condizione di crescente entropia delle banlieue) ha diviso, polarizzandoli, i lettori. «Le Monde diplomatique», per parte di Alain Gresh, una delle voci più autorevoli del collettivo redazionale, ha sollevato dubbi e perplessità sulle conclusioni generalizzanti dell’inchiesta. Ciò che maggiormente lascia perplessi i critici è la formulazione da parte di Bensoussan di un’ipotesi, che andrà poi rafforzando nel tempo, per la quale sussisterebbe un nuovo antisemitismo di origine prevalentemente maghrebina, fondato su basi perlopiù etniche e culturali. Per lo storico non si tratta solo di un fenomeno di traslazione del vecchio pregiudizio antisemitico, comunque fortemente innervato in Francia, ma di un’inedita miscela. In essa si raccolgono le pulsioni provenienti da nuovi soggetti (i giovani), fortemente identificati con la segmentazione sociale e culturale che deriva dalle trasformazioni indotte dalla globalizzazione nello spazio europeo e mediterraneo. I giovani maghrebini sono, per Bensoussan, al centro di questo mutamento, trovando nei temi dell’antisemitismo (e dell’antisionismo) una radice d’identità che permette loro di contrattare un fisionomia sociale altrimenti assente. 

 

Lo riafferma in un secondo libro, uscito nel 2004, France prends garde de perdre ton âme, dove il fattore della discendenza del pregiudizio antigiudaico dal substrato originario, quello musulmano, arabo e quindi maghrebino (le tre cose non sono necessariamente omologhe, anche se si incontrano e si miscelano a modo loro nei luoghi dell’immigrazione), si traduce nel ribadire in maniera sempre più decisa il concetto che l’odierno antisemitismo non sia tanto una risposta regressiva alle avversità sociali quanto l’eco profonda di una radicata tradizione differenzialista e separazionista, mutuata dalle culture d’origine: le minoranze sono in sé e di per sé inferiori; gli ebrei, in quanto minoranza densa e manipolatrice, sono al medesimo tempo prevaricatori, diabolici e, quindi, causa delle sofferenze che i musulmani dell’emigrazione stanno vivendo. Bensoussan rileva come il pregiudizio così riformulato si possa legare ad altri atteggiamenti dichiaratamente volti a idealizzare l’assoggettamento di una parte della società europea, a partire dalle donne, passando per l’omofobia e arrivando a una visione non solo sessista ma intrinsecamente prevaricatoria delle relazioni di genere. In discussione non c’è solo la condizione delle minoranze ma anche e soprattutto le pratiche di cittadinanza repubblicana. Non a caso sono le scuole delle grandi periferie a costituire per l’appunto i «territori perduti della Repubblica».

 

Queste, quindi, le premesse. Dopo di che, dalla critica intellettuale si è passati alla polemica astiosa e, infine, alle aule di tribunale. I fatti rimandano a tempi a noi più prossimi. Il 10 ottobre del 2015, durante il programma radiofonico «Répliques», condotto da Alain Finkielkraut per la rete «France Culture», intervenendo nel merito del libro di Patrick Weil «Le sens de la République», Bensoussan a un certo punto afferma: «oggi ci troviamo in presenza di un altro popolo che si costituisce nel seno della nazione francese, che sta facendo regredire un certo numero di valori democratici che ci hanno accompagnato». In un passaggio successivo aggiunge: «non ci sarà integrazione finché non ci si sarà sbarazzati di questo antisemitismo atavico». Citando poi il sociologo algerino Smaïn Laacher, Bensoussan aggiunge, attribuendo a questi le parole che lascia intendere di ripetere testualmente: «è un’offesa che si mantenga questo tabù, sapendo che nelle famiglie arabe, in Francia – e tutto il mondo lo sa ma nessuno lo vuole dire – l’antisemitismo lo si succhia con il latte dalla madre».

 


 

Alla piccata risposta di Patrick Weil (presente in trasmissione, il quale controbatte che «è una offesa che tu possa dire una tale cosa, poiché ciò condanna quattro milioni di nostri compatrioti») segue la smentita di Laacher al senso attribuito da Bensoussan alle parole da lui pronunciate. Una quindicina di giorni dopo, infatti, lo studioso algerino parla, al riguardo, «di deformazione oltraggiosa delle mie intenzioni ma anche del mio pensiero. Non ho mai suggerito né supposto che l’antisemitismo di certe famiglie arabe si spieghi per una causa biologica. Una tale tesi che suggerisce l’idea di un razzismo naturale è precisamente agli antipodi dei miei lavori di sociologo. Questa teoria è totalmente estranea da ciò che io sono e dal mio pensiero». In realtà le affermazioni di quest’ultimo (espresse in un documentario proiettato sul canale France 3) richiamano, tra le altre cose, al fatto che: «Questo antisemitismo è già sedimentato nello spazio domestico. È presente nello spazio domestico e quasi naturalmente sedimentato sulla lingua,nella lingua. […] Non vedere che questo antisemitismo è prima di tutto domestico e, che, in tutta evidenza, viene senza dubbio rafforzato, indurito, legittimato, e quasi naturalizzato mediate un certo numero di distinzione all’esterno, è un’ipocrisia monumentale.»

 

Qualche mese dopo, nel gennaio del 2016, lo stesso Laacher ritornerà sulla questione con un articolo per «Le Monde». In realtà, al di là del confronto sul merito delle parole stesse, il conflitto non è tra quest’ultimo e Bensoussan. Infatti, è semmai una galassia di associazioni che si pronuncia contro ciò che viene definito come un esercizio di «razzismo biologico, che condanna alla colpa, senza distinzione, una parte della popolazione francese fin dalla nascita». A sostegno di Bensoussan, in una vicenda che si sta avvolgendo a spirale, intervengono su «Le Figaro» del 4 dicembre 2015 un gruppo di storici e sociologi. Prendendone la difesa mettono in rilievo come egli non sia certo il primo a indicare la presenza di un «antisemitismo culturale». Attribuire alle sue parole uno slittamento («glissement») dalla dimensione culturale a quella biologica, è segno di «stupidità quanto di cattiva fede». L’intero lavoro dello storico, peraltro, testimonia della «inanità e [del]la perversione di queste accuse». 

 

Non finisce tuttavia così. Invece che rimanere una tempesta in un bicchiere d’acqua, con il trascorrere dei mesi la vicenda cresce di rilevanza. Nel novembre del 2016, a un anno dai fatti, il Collettivo contro l’islamofobia in Francia (l’ADDH-CCIF, Association de défense des droits de l'Homme Collectif contre l'islamophobie en France), da più parti indicato come associazione in qualche modo prossima ai Fratelli musulmani, o comunque non estranea ad alcuni dei loro motivi di fondo, dichiara pubblicamente che ha provveduto a denunciare le parole di Bensoussan alle autorità parigine e che, a seguito di ciò, lo storico sarebbe stato convocato di lì a non molto davanti al tribunale correzionale. L’accusa è di «istigazione all’odio razziale», quasi un contrappasso per uno studioso che, per tutta la durata della sua attività professionale e intellettuale, ha lavorato contro il razzismo e l’antisemitismo. Diverse associazioni si costituiscono quindi parte civile nella causa in atto, attaccando Bensoussan. Tra di queste, oltre al Collettivo, anche la Licra (la Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo), il cui presidente, l’avvocato Alain Jakubowicz, redige e pubblica su l’Huffington Post una secca replica intitolata: «Monsieur Bensoussan, non ci sono antisemiti di nascita», ma anche SOS Racisme così come la Lega dei diritti dell’uomo. La spaccatura che si determina è quindi nettissima. 

 

Se Alain Finkielkraut, insieme a studiosi e intellettuali come Boualem Sansal e Yves Ternon, rileva come l’associazionismo antirazzista, storicamente vivace in Francia, abbia oramai perso di vista il suo scopo originario, adoperandosi semmai per «impedire di pensare» poiché si tratta di «sottrarre la realtà all’indagine e i musulmani alla critica», per altri autori la musica è ben diversa. Spiccano, al riguardo, le prese di posizioni di Michèle Sibony, già vicepresidente dell’Unione ebraica francese per la pace, su posizioni dichiaratamente polemiche nei confronti delle politiche dei governi di Gerusalemme, che imputa a Georges Bensoussan un dire «degno di un Drumont» (quest’ultimo esponente delle più accese posizioni antisemite espressesi nella Francia dell’affaire Dreyfus). Non è peraltro l’unico, essendo chiamata in causa l’intellettualità franco-musulmana che, almeno in parte, si esprime duramente contro l’accusato, imputandogli sia l’intenzione di causare fratture tra le comunità arabo-islamiche e quelle ebraiche sia di fomentare una lettura a sua volta “razzista” delle prime. 

 

La sentenza, che viene emessa il 7 marzo di quest’anno dalla diciassettesima Camera del tribunale correzionale di Parigi, proscioglie Bensoussan dalle accuse, rilevando come: «infine e soprattutto, l’infrazione di provocazione all’odio, alla violenza o alla discriminazione presuppone, per essere tale, un elemento intenzionale», assente invece nel caso dell’accusato. Se le parole di Laacher sono state citate in maniera in parte inesatta è non meno vero che il senso delle medesime risulta aderente al loro significato originario, così come il contesto in cui sono state pronunciate, un dibattito radiofonico, «nel fuoco della conversazione», fa sì che a fronte di un inesistente travisamento di fondo si ponga la questione di capire che il contesto può invece accentuare il tono enfatico e quindi polemico, ma non ostile e neanche intenzionalmente manipolatorio, di certe citazioni. 

 

Fin qui la vicenda che, per molti aspetti, parrebbe meritare un’attenzione secondaria. In realtà, tuttavia, rischia di essere la spia di un processo sociale e culturale ben più diffuso, dove in gioco non è solo quel che resta dei difficili rapporti tra l’ebraismo francese e le comunità musulmane ma, più in generale, la questione spinosissima dei percorsi di cittadinanza in Francia così come in Europa. Non è un caso, infatti, se ad essere attaccato sia stato lo stesso Bensoussan. Il quale da tempo si occupa, tra le diverse cose, anche dei fondamenti ideologici di un approccio antropologico ai legami sociali, quest’ultimo particolarmente caro ai differenzialisti, ai sovranisti, agli identitaristi che affollano sempre di più, un po’ ovunque, il proscenio politico non solo parigino. Sull’antirazzismo non vi è più una convergenza di opinioni e, quindi, di azioni, essendo divenuto a sua volta un territorio di divisioni e di contrapposizioni. In Francia, la spaccatura tra la società ebraica e una parte del mondo musulmano è evidente. Riflette, nelle sue specificità, il più generale conflitto tra autoctonia e immigrazione, esasperando linee di differenziazione che si stanno trasformando in fenditure incolmabili. Il ruolo dell’associazionismo che, a vario nome, si richiama alla lotta contro il razzismo, è stato dirimente in tutta la sgradevole vicenda giudiziaria. Di esso, dal suo costituirsi perlopiù negli anni Ottanta ad oggi, si registra un mutamento di statuto pubblico. Sembrano infatti lontane anni luce le mobilitazioni che avevano caratterizzato i decenni trascorsi, quando al motto di «touche pas à mon pote», coniato da SOS Racisme, centinaia di migliaia di persone marciavano per le strade e le piazze delle grandi città francesi. In mezzo ci stanno scissioni, divisioni, contrapposizioni proprio sul merito di ciò che debba intendersi con il rimando alla lotta contro il pregiudizio. Così come le spaccature sui conflitti mediorientali, sul confronto tra israeliani e palestinesi, sulla natura dei processi migratori, sulle politiche di accoglienza, sui caratteri di una società che si vorrebbe «multiculturale» e che invece rivela, sempre più spesso, il ritorno al comunitarismo dei gruppi che si riconoscono come etnicamente omogenei. 

 

Già nel 1993 Paul Yonnet, nel suo Voyage au centre du malaise français. L'antiracisme et le roman national, identificava, con notevole anticipo e preveggenza, il rischio che l’associazionismo antirazzista involvesse in una sorta di miscela tra enfatizzazione del vittimismo e glorificazione dell’essenzialismo, ossia di una visione dei caratteri di gruppo come di una sorta di sostanza eterna, intesa come una natura immodificabile. Due ingredienti, per paradosso, propri del razzismo, di cui si dice invece di volerne combattere la persistenza. Il tutto amplificato dalla lunga stagione delle leggi sulla memoria, fertile campo di germinazione di una concorrenza tra figli e nipoti delle vittime dei diversi gruppi perseguitati nel passato, oggi alla ricerca di una sorta di riconoscimento sociale in quanto titolari di un ricordo del dolore che si traduce in legittimazione di status politico e civile. 

Tra il 2005 e il 2008 l’organizzazione e poi la nascita ufficiale del Parti des Indigènes de la République (prossimo al Collectif des musulmans de France e a Tariq Ramadan, così come a una galassia di associazioni comunitariste e “altermondialiste”), sulla base della denuncia sia delle discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche sia dell’affermazione perentoria per cui: «la Francia è stata uno Stato coloniale […]. [E] resta uno Stato coloniale», ha segnato un altro passo nel senso della diasporizzazione del mondo antirazzista. All’interno di una miscellanea di rivendicazioni eterogenee e tra di loro anche in palmare contraddizione, il collante dell’«anticolonialismo», dell’«antimperialismo» e, infine, dell’«antisionismo», è divenuto il filo rosso che tiene unito un antirazzismo sempre più di facciata, ambiguamente prospiciente, in una sorta di irrisolta reciprocità inversa, il sovranismo del Front National.

 

Entrambi trovano infatti due terreni in comune: il discorso ossessivo sull’«identità etnica» come fondamento del proprio campo di appartenenza (“bianchi” contro “neri” così come neri contro bianchi del pari a musulmani contro “crociati” e “sionisti” ma anche viceversa) e ciò che lo storico Gérard Noiriel definisce come l’interiorizzazione del vocabolario della stigmatizzazione, in una logica che, enfatizzando il proprio ruolo di vittime perenni del «sistema», rende non meno perenne «il circuito delle rappresentazioni che li escludono» dal consesso liberale. Da ciò, sia i neolepenisti che gli antirazzisti identitari cercano di coltivare un capitale politico premiante per i tempi a venire.

Il sociologo Pierre-Andre Taguieff, nel suo studio su La Judéophobie des Modernes. Des Lumières au Jihad mondial, del 2008, ha parlato quindi di «islamo-gauchismo». Altri hanno rilevato come l’ideologia di fondo di questo antirazzismo sia tutto fuorché emancipatoria, giocando semmai su una propria scala di pregiudizi di gruppo, ribaltati e quindi proiettati contro le società occidentali, all’interno di una visione sostanzialmente gerarchizzante della guida dei processi sociali, dove alla funzione dirigente del vecchio e declinante movimento operaio viene adesso sostituita quella, del tutto idealizzata, non meno romantica ma anche fortemente autoritaria, dei «movimenti postcoloniali». L’intera vicenda incorsa a Georges Bensoussan, per essere intesa nella sua interezza, richiede quindi di essere ricondotta a queste variegate dimensioni di quadro.

 

Non se ne capisce la rilevanza, altrimenti, derubricandola a uno screzio occasionale. Il commento amaro e pessimista di Alain Finkielkraut, peraltro anch’egli fatto spesso oggetto di polemiche, rileva come: «il paradosso della nostra epoca è di dovere combattere con la medesima determinazione l’antirazzismo così come il razzismo. L’antirazzismo non è più quel principio che sta a fondamento della nostra esistenza, essendo divenuto un velo. Non è più una morale, è una menzogna. L’antirazzismo è diventato la menzogna ufficiale, l’impero del falso. Nulla indica che si sia sulla via d’uscita». Parole forti e non certo generalizzabili a prescindere da molteplici valutazioni di merito. Segno, comunque, che si è entrati da tempo in un’area di forti perturbazioni, dove nulla è destinato a rimanere uguale a se stesso, tanto più nel tempo a venire. 

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