Parlano tutti bene del Male

21 Novembre 2024

Mai nessuna epoca come la nostra ha spettacolarizzato il male e al tempo stesso lo ha rimosso: potremmo dire che l'ha messo in scena – nel famoso video dei marines all'interno del carcere di Abu Ghraib, nei true crime, nelle serie TV sui serial killer, nello splatter tarantiniano… – proprio per nasconderlo. Questo il tema di una intensa, partecipe riflessione di Lucrezia Ercoli – Lo spettacolo del male (Ponte alle Grazie) –, che in parte riprendo, ma per declinarla in un’altra direzione. L'autrice, squarciando l'ipocrisia contemporanea ci invita a un viaggio temerario dentro la crudeltà umana, l'unica in natura a non essere meramente adattiva, ma basata sul piacere di veder soffrire qualcuno (Nietzsche: "veder soffrire fa bene").La nostra specie è l'unica ad  aver sviluppato una violenza distruttiva e autodistruttiva che non ha uno scopo biologico. Prenderne coscienza è un modo per fronteggiarla.

Aggiungo però che nell'essere umano abitano gli estremi, della crudeltà insensata ma anche del perdono, altrettanto insensato, della violenza gratuita e dell'amore gratuito. Questi estremi sono entrambi contro natura: rappresentano una dismisura, qualcosa di inspiegabile e specificamente umano. Li hanno diversamente indagati due spiriti liberi, che a Parigi negli anni '30 si frequentarono, attratti reciprocamente ma senza mai piacersi davvero: Simone Weil e Georges Bataille. Così la Weil: "La rivoluzione è per lui [Bataille] il trionfo dell’irrazionale, per me del razionale; per lui una catastrofe, per me un’azione metodica di cui ci si deve sforzare di limitare i guasti; per lui la liberazione degli istinti, e precisamente di quelli che sono correntemente considerati patologici, per me una moralità superiore". Non potrebbe esservi distanza maggiore, benché in entrambi ci sia il gusto "religioso" dell'eccesso. La rivoluzione della Weil dovrà instaurare il regno della giustizia e valorizzare la vita, quella di Bataille, concepita come una festa orgiastica e cruenta, ci ricorda che unico fondamento di ogni comunità è "la gioia davanti alla morte".

Credo che oggi ci troviamo ben oltre la semplice rimozione e l'occultamento del male. Poi tornerò sul saggio della Ercoli, ma intanto vorrei ricordare quanto dice la scrittrice Jamaica Kincaid: "Troppa gente è attratta dal fascino dei criminali". La stessa Ercoli ci ricorda quanto il personaggio di Tony Soprano, della serie TV, fosse affascinante: risoluto e fragile. Bisognerebbe togliere al male, spesso identificato con la grandezza, con il grandioso, con il carisma, qualsiasi elemento di appeal. Il male non è affatto più onesto e vitale, come spesso si ritiene. Anzi, quasi sempre è ovvio, banale, noioso. Per niente immaginativo: "Monotonia del male: niente di nuovo; in esso tutto è EQUIVALENTE" (Simone Weil Quaderni II). La realtà non ci mostra altro che la bruta legge della forza. Ma in virtù dell'immaginazione morale riusciamo a scorgere qualcos'altro, e accanto alla forza pure quella realtà – inconfutabile – che è la struttura del cuore umano.

Soffermiamoci per un momento sul luciferino Bataille, che ha avuto una straordinaria intuizione: c'è nella natura umana una tendenza allo spreco, al consumo improduttivo (la dépense), a una vertiginosa dissipazione (è la stessa intuizione che aveva ispirato le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e più indietro nel tempo il Nipote di Rameau di Diderot). L'Occidente illuministico ha bisogno di questa impietosa indagine sulla propria Ombra. Poi però quella intuizione Bataille non è riuscito a svilupparla adeguatamente, dando origine a una stucchevole retorica culturale. Far coincidere la vertigine con il delitto, l'estasi con il crimine, l'eccesso con l'abiezione, la creatività con la trasgressione, è certamente legittimo – e corrisponde a una esperienza reale – però esprime davvero una idea decadente, e direi macabra dell'esistenza, da scapigliatura lombarda minore. Che Dylan Dog non ne sia l'inveramento pop?

Digressione sul diavolo. È uscito il saggio smagliante di una storica dell'arte medievale, Laura Pasquini – Il diavolo. Storia iconografica del male (Carocci) –, con uno straordinario apparato di immagini, da cui si ricava, tra l'altro, la natura proteiforme del Maligno, il quale non ha mai trovato un'iconografia stabile, da quando si è cominciato a raffigurarlo, assai tardivamente in pittura (a partire da una maschera demoniaca di un mosaico del IV secolo, ad Aquileia). Il diavolo può assumere le sembianze di un maiale, di un serpente, di un leone, etc., come di una donna bellissima, o di un angelo meraviglioso ma con i piedi ferini, o di una figura sfrontata, riccio ribelle sulla fronte e lingua protesa (Aquileia). Il male più temibile è quello travestito da bene, il vizio mascherato da virtù: che so, sul piano privato un amico che "per il tuo bene" ti rivela che la tua compagna ti tradisce, o anche, sul piano pubblico, il politico che dice una bugia " a fin di bene" e per alto senso di responsabilità.

Torniamo al saggio della Ercoli. Certo, non dissimulare la crudeltà, piuttosto rappresentarla, tenerla sotto osservazione, capirla. Ma in che modo? Forse il teatro della crudeltà di Artaud, concepito per risvegliare lo spettatore, non ha più il potere terapeutico di una volta: lo spettatore attuale è immerso in un universo imbevuto di odio ("Odio universale "si intitola una puntata di Black mirror), dove niente è più trasgressivo della pubblicità (come ci mostrò Forster Wallace), dove la crudeltà viene messa in scena continuamente attraverso i media, generando assuefazione.

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Nella letteratura cyberpunk (e nel film di Cronenberg Crimes of the future, 2022), non saremo più in grado di sentire dolore e quindi "le operazioni chirurgiche sono l'unica possibilità per provare sensazioni forti e diventano una forma perversa di piacere" (si pensi anche a Crash di Ballard, lo scontro automobilistico come variante di questo piacere perverso). Non sempre però è chiaro – in queste opere – dove finisce la lucida rappresentazione della perversione del desiderio e dove comincia la celebrazione estetizzante della stessa (un rischio cui non sfuggiva totalmente neanche Arancia meccanica del grande Kubrick, dove estirpare gli impulsi violenti equivale a estirpare la creatività nel protagonista Alex durante la "rieducazione" coatta). Al contrario, nella sua celebre performance, Cut piece (1964), Yoko Ono con un vestito elegante davanti a un paio di forbici, invita il pubblico a usarle per tagliare pezzi dell'abito: le tagliano quasi tutto, perfino la bretella del reggiseno, mentre lei resta in scena con i vestiti lacerati, seminuda. In quel modo davvero smaschera la violenza (perlopiù maschile), mettendola in scena. Nessun estetismo (o pornografia) del dolore. Siamo poi sicuri che la "natura" liberata di Alex sia così naturale? È stata pur sempre una natura repressa per troppo tempo e dunque già in ciò deformata. Nietzsche diceva che chi evade da una prigione si porta dentro di sé le sbarre per sempre.

Bataille immagina la rivoluzione come mito catastrofico, come festa e massacro, come devastazione di ogni autorità, financo razionale. L'immagine, ammetto, ha una sua corrusca attrattiva, e lampeggia in qualsiasi insurrezione, ma è proprio inevitabile custodire in un modo così rovinosamente autolesionista la nostra idea di emancipazione? Mi viene in mente Alexander Neill – formatosi su Freud e Reich – e la sua pedagogia libertaria legata alla scuola di Summerhill, negli anni '20 (priva di obblighi e punizioni). Credeva nella bontà originaria dell'essere umano e considerava i cattivi comportamenti come conseguenza di una cattiva educazione. Un ingenuo visionario? Può darsi, ma quella scuola antiautoritaria funzionò meravigliosamente, come volle testimoniare anche Paul Goodman, l'anarchico non-violento della rivolta di Berkeley. Se a Summerhill ci fosse entrato l'Alex di Arancia meccanica avrebbe potuto correggere i propri impulsi antisociali senza lobotomizzazione. La sua liberazione non avrebbe coinciso con la "catastrofe" bataillana, vagamente necrofila e fondata sulla sfrenatezza (in nome del "dispendio").

Il merito della Ercoli è farci riflettere sul nostro stato di consumatori di malvagità e invitarci a guardare in faccia l'abisso del male, però accolgo il suo invito alla luce di due considerazioni.

Operazione preliminare è chiamare il bene bene e il male male. Sono intrecciati ma non coincidono. Il bene rimane bene e il male male. Nessuna ingegnosa dialettica potrà convertire l'uno nell'altro. Nell'Inferno dantesco la prima anima peccatrice che incontriamo è quella di Semiramis, che chiama il male bene, e converte in legge di stato il proprio desiderio incestuoso. Da lì discende tutto il nostro caos morale.

Torno sul mio "programma" minimo. Non si tratta di creare narrazioni edificanti ma di togliere sistematicamente al male ogni appeal. Nella Prima radice (1943) Simone Weil scriveva che sconfiggere militarmente Hitler non risolve il problema se non si elabora una idea di grandezza che lo escluda. Nel futuro infatti chiunque potrà affermare che la sofferenza o la crudeltà di Hitler è stata comunque "storica", dunque a suo modo grande. No, Hitler o Napoleone non sono stati "grandi" – in alcun modo –, dato che la loro grandezza è inseparabile dal crimine, così come Toto Riina non si può considerare personaggio tragico shakespeariano (come pure è stato detto).

Infine. Il diavolo per Dante era iperlogico, pedante, sofistico, quando non ridicolo e cialtrone nei lazzi osceni. Non somiglia per niente al successivo Satana di Milton ammirato dai romantici: spietato e creativo, affascinante e libertario. È furbo ma per Dante anche un po' stupido, per la ragione che non crede nella bontà. Nel fondo dell'inferno dantesco Satana produce un vento gelido, che congela e paralizza ogni cosa: desertifica il mondo, lo svuota e derealizza. Il "suo spettacolo del male" non ha niente di festoso e liberatorio. Perché mai dovrebbe affascinarci?

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