Late Spring Music Festival

17 Giugno 2023

Ho seguito il fittissimo programma del Late Spring Music Festival di Reggia Venaria – 1,2,3 giugno, quasi "tre giorni di pace, amore e musica" – in qualità di critico letterario e scrittore, con un misto di ammirata devozione e di lieve invidia. L'invidia per la musica – o meglio per i musicisti – nasce secondo Giorgio Manganelli dal fatto che ci promette quella liberazione dalla parola, dalle idee, dal significato stesso, che poi coincide con la segreta, irraggiungibile utopia della letteratura, almeno dal romanticismo in poi (ma ha una genealogia più antica). La musica ci darebbe infatti la certezza quasi fisica – forse anch'essa illusoria – di uno spazio celeste, irrelato, di una metafisica dei suoni che appunto non significa niente, che ci emancipa perfino da quello che Hegel, infatuato di Rossini, definiva il faticoso "lavoro della verità". Viene in mente un aforisma di Cioran: "Perché leggere Platone quando basta un solo di sax a trasferirci nell'iperuranio"(sostituite pure il solo di sax con un brano per violoncello solo o con quello che volete). Personalmente continuo ad aver bisogno di entrambi, del sax e della lettura dei dialoghi di Platone. Ma con questa speranza di poter accedere per un attimo all'iperuranio ho seguito il programma del festival, fatto di concerti (mattutini e serali), momenti didattici, conversazioni, etc.

I suoni nascosti nei luoghi

Ma qual è l'idea-forza che ne è alla base, messa a punto dal direttore artistico, e artist in residence, Claudio Pasceri (presente come violoncellista in vari concerti) e condivisa con Francesco Bosso, responsabile dell'Area Programmazione e Valorizzazione della Reggia (aggiungo anche che il festival è stato voluto dal presidente Michele Briamonte e dal direttore Guido Curto). Credo che uno dei meriti del festival consista nel mostrarci, tangibilmente, una verità a proposito delle origini della musica. Di che si tratta? La musica non tanto è stata "inventata" dall'uomo quanto da lui "scoperta". Come del resto la matematica, la quale si trova fuori di noi, e coincide con il linguaggio della natura (i teoremi sono nostre annotazioni), la musica esisteva già da sempre, nelle frequenze di suoni del mondo naturale, ed esisterà anche dopo la scomparsa degli umani. I suoni che abbiamo ascoltato negli spazi della Reggia erano lì da tempo immemorabile – appena nascosti negli angoli delle sale (abbandonate prima del recente restauro) o perfino rifugiati dentro i sontuosi dipinti –: appartengono a quei luoghi, emanazione sensibile del genius loci. Da sempre quella sonata di Bach per violoncello abita la cappella della chiesa barocca di Sant'Uberto, così come fin dall'età post-rinascimentale la Fanciulla e la Morte del quartetto di Schubert dialogano tra loro nella solenne Sala di Diana, tra le scene mitologiche e le scene di caccia dei grandi quadri. Come è stato possibile questo sortilegio evocativo, negromantico, e cioè l'affiorare dei suoni alla luce del castello e all'ascolto dei tantissimi spettatori delle giornate? Ogni concerto partiva da una idea precisa della musica che si voleva proporre: una scelta meditata, fatta in relazione a quei luoghi. Solo così il festival ha permesso a quei suoni di ritrovare la propria "patria" ideale, lontano dalle convenzionali sale da concerto, perché ha saputo rispettarne le ragioni più profonde. Inoltre: i bis al termine delle esecuzioni musicali sono stati evitati proprio perché estranei a una "sintassi" del progetto: sarebbero stati "dissonanze" non volute, avrebbero costretto quei suoni a una replica incongrua, snaturandoli.

Interiorizzare l'esterno

Le "sculture fluide" e installazioni di Giuseppe Penone, "artista povero" che lavora con materiali naturali, entrano coerentemente entro una idea del genere, giocando tra interno ed esterno. Fine dell'artista è unrelazionarsi al contesto cercando di interiorizzarlo dialetticamente"(Celant, fondatore dell'Arte Povera). La musica nelle giornate del festival non solo si ascoltava, ma si respirava, si attraversava fisicamente, così come attraversavamo le opere di Penone, entro un universo fluido che tutto metteva in relazione. L'artista è attentissimo alle tracce dell'umano nel paesaggio: "arbusti spostati da una forza diversa dal vento, le foglie staccate…". Le sette grotte dove sono collocati i nuovi lavori in marmo, collegate al giardino con una scritta, guidano la passeggiata dei visitatori. 

Il violino parla italiano

"il carattere puerile della fonetica italiana, la sua stupenda infantilità… qui tutto rima con tutto, ogni parola chiede di mutarsi in concordanza" (Osip Mandel'stam)

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Nell'incontro con uno dei maggiori liutai viventi, Bernard Neumann (canadese di padre tedesco), che ha il suo negozio nel centro di Cremona, ho imparato tra le molte cose che i violini italiani – anzitutto gli Amati del '500 e poi i celebri Stradivari – hanno un suono purissimo che un poco somiglia alla lingua italiana, con quelle cinque vocali rotonde, ben scandite, con le note che chiedono di concordare tra loro. Quando infatti un francese ha cominciato, temerariamente, a fabbricare violini il suono infatti era pregevole ma sensibilmente diverso. I costruttori italiani di violino nel '500 e '600 hanno realizzato tantissimi strumenti (Stradivari fino a 1.100), in abete e acero (legni leggerissimi), e ognuno era un pezzo unico! Davvero oggi quegli artigiani ci appaiono come dei mistici innamorati di Dio, per loro la purezza del suono. Poi Neumann ci ha regalato una involontaria, straordinaria metafora: sulla superficie del violino sono presenti due fessure allungate che ricordano una "effe", si chiamano buchi armonici. Bene, il liutaio ha parlato in proposito di una "debolezza controllata", e dunque pianificata e quindi funzionale, strutturale. Insomma il violino per giungere alla perfezione deve un po' indebolirsi.

I ragazzini salveranno il mondo?

Ogni pomeriggio c'era un incontro dei bambini con uno strumento musicale, intorno a cui si raccolgono in circolo, a contemplare un oggetto magico, e ad ascoltare colui che lo racconta. Mi evocano una immagine di Cristina Campo, quando osserva che "il bambino che ascolta un vecchio rievocare batte le ciglia con ipnotica lentezza". A un certo punto un bambino particolarmente piccolo prova ad appoggiare la mano sulla "pancia" del violoncello mentre viene suonato, avverte un lieve tremito, un brivido che somiglia a un solletico, e così gli viene da sorridere, con un po' di imbarazzo. Mentre un altro preme le chiavi del clarinetto cosicché da questo escono melodie incantatorie che avrebbero potuto trascinare tutti i bambini nel laghetto della Reggia, come accadde con il pifferaio magico

Le conversazioni di Enzo Restagno

Il musicologo Enzo Restagno era invece il pifferaio magico degli adulti. Ogni sera ci intratteneva su temi e autori musicali ogni volta inseriti in un ambito più ampio, di storia delle idee e della cultura, con associazioni imprevedibili e gusto della messinscena. Il pubblico era trasportato in mondi storici lontani nel tempo, un poco fiabeschi, tra intuizioni critiche spiazzanti e uso sapiente del gossip. Ad esempio mettere in relazione Bach e Pascal, di poco antecedente, illumina l'opera dell'uno e dell'altro: la loro comune "fede" in un possibile ordine del cosmo, in un Dio buono e amorevole, era per entrambi un azzardo e nasceva dal senso di una immensa solitudine dell'uomo davanti al mistero della natura.

Una elettronica quasi pop

La musica contemporanea, come l'arte contemporanea, e – per esempio – al contrario del romanzo, si è così allontanata dal senso comune da rischiare di non avere più pubblico. Proprio la musica elettronica, accanto certo ad altri filoni di ricerca, potrebbe però riportare il pubblico alla musica contemporanea. Vittorio Montalti, compositore di musica elettronica pluripremiato, pur partendo da presupposti di estremo rigore ospita nella sua opera una grande varietà e anzi "pluralità" (parola cara a Luciano Berio) di suoni e rumori (sostiene tra l'altro che tra gli uni e gli altri c'è una sostanziale continuità fatta di infinite sfumature), aprendo alle percussioni e rinunciando ad aggredire gli ascoltatori. La elegante fluidità della sua produzione – in particolare l'opera composta ad hoc per il festival, "Dialoghi con la materia", e ispirata alle parole scolpite nel marmo da Penone – nasce da un mix di leggerezza e ironia. Non tanto ha musicato un testo quanto ha lavorato sulle parole per trasformarle in figure musicali (Manganelli chioserebbe: fino a non fargli significare niente!). In un incontro con il pubblico ha spiegato di voler sostituire la parola "bellezza" con la parola "autenticità": restare fedeli a se stessi, dentro la sperimentazione, significa per lui non spezzare il patto con il pubblico, ma anzi risvegliare nel pubblico – quasi per contagio – lo stesso bisogno di autenticità. Montalti intende entrare dentro il suono per svelarne il nucleo più nascosto e renderlo comunicabile, dunque pop.

La sottrazione della fotografia

L'intero festival è stato introdotto e commentato dalle fotografie di Valentina Vannicola, un'artista che lavora spesso con le opere letterarie (ad esempio un suo racconto per immagini dell'Inferno dantesco). La sua scelta è stata radicale: eliminare l'umano dal paesaggio, dunque lavorare solo sugli spazi e gli elementi architettonici. Il logo del festival è una sua fotografia (ma ne ha fatte tante altre con la stessa ispirazione): un violino aereo, come sospeso dentro una sala neoclassica della Reggia, dove svolazzano innumerevoli spartiti presi da un vortice d'aria. O anche fotografando le sale senza stucchi e senza affreschi, inseguendo una leggerezza quasi calviniana fatta di sottrazione. Anche qui: l’idea di una musica che continua a esistere anche se il mondo finisse. Poi però sta preparando anche una serie di ritratti dei musicisti (dei quali continuiamo ad avere bisogno).

Lo stile dell'anatra dei virtuosi

Lo "stile dell'anatra"(coniato da Raffaele La Capria) nasconde la fatica, proprio come un'anatra che sembra scivolare placidamente sulla superficie dell'acqua mentre le zampette, nascoste, si agitano vorticosamente. Un altro nome per quella che nel '500 venne chiamata da Baldassarre Castiglione la "sprezzatura": studiata disinvoltura, noncuranza nel fare cose anche difficili, grazia mai affettata. Nei concerti del festival sono sfilati autentici virtuosi nei loro strumenti, dai violisti Ilya Grubert e Irvine Arditti alla giovane violoncellista Annie Jacobs-Perkins, dal pianista Michaël Lévinas al clarinettista Enrico Maria Baroni, e poi al Chaos String Quartet viennese e al soprano Marion Grange. Virtuosi inarrivabili ma capaci di un sublime stile dell'anatra che appunto nasconde lo sforzo, come Maradona che palleggiava con tale naturalezza da convincere che fosse un esercizio alla portata di tutti.

Il sogno di una cosa

"Comprendevo il silenzio dell'etere / le parole degli uomini non le ho capite mai" (Friederich Hölderlin)

Seguendo l’iniziale suggestione vorrei ora rispondere all'interrogativo di fondo: ascoltando i concerti della Reggia Venaria, abbandonandomi all'incanto dei suoni mi sono infine liberato – da letterato invischiato nel gioco incomprensibile delle parole umane – dalla insostenibile pesantezza del significato? Ho attinto per qualche istante all'inviolabile iperuranio evocato dagli strumenti? Non ne sono sicuro, però ho imparato una cosa. Nell'alchimia delle tre giornate ho scavato dentro quella che Manganelli definisce "invidia per la musica", fino a trovarne la radice ultima, che è poi, come succede anche al fondo dell'odio, una forma nascosta di amore. Amore per qualcosa che sembra sottrarsi a ogni possesso, alla prosa della nostra comunicazione quotidiana e dei nostri scambi verbali, ma che pure è parte dell'esistenza, anche soltanto come "sogno di una cosa".

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