Una lingua, tante lingue

23 Luglio 2023

Cosa può unire due avvincenti saggi di teoria (e critica) letteraria come Storie d'amore per lo studio. Primi passi per capire i testi che leggiamo di Paolo Pellegrini (Einaudi) e Il Romanzo di Babele. La svolta multilingue della letteratura di Alessandro Raveggi (Marsilio)? Direi una attitudine all'ascolto – paziente, amorevole – dell'altro, sia pure diversamente declinato. In particolare: l'idea preziosa che dobbiamo abituarci (rassegnarci?) a non comprendere tutto in quell'ascolto, e che anzi può esserci comunicazione e scambio anche se qualcosa resta per noi incomprensibile, inappropriabile. Si tratta in fondo dell'insegnamento del linguaggio poetico: quante poesie abbiamo amato senza capirle interamente (ma forse potremmo aggiungere: quante persone…). Da un lato accettare che i classici non siano del tutto assimilabili alle categorie del presente: il passato è l'unica cosa davvero non omologabile! Dall'altro considerare la pluralità babelica degli idiomi non un limite ma un fattore di arricchimento che sfida anguste costruzioni identitarie nazionali.

Il saggio di Raveggi, partendo dal "manifesto" di una scrittrice filippino-americana, Elaine Castillo ("Non esiste una sola lingua d'America"), è una documentatissima apologia della cosiddetta letteratura multilingue, quei romanzi e metaromanzi che contengono due o più lingue al loro interno, opere in parte intraducibili e fuori dal mercato. Un approccio antipurista che già nel 1928 aveva puntualizzato Leo Spitzer in un intervento sull'odio per le parole straniere e contro la purga di parole inglesi e francesi da parte dell'Accademia della lingua tedesca. Raveggi commenta una serie di testi letterari e narrativi che in parte sfuggono a una rigida definizione di genere romanzesco, un multilinguismo che nel '900 ha caratterizzato gli scrittori translingui apolidi ed esiliati, e poi le avanguardie, i Beckett, Nabokov, Canetti ma anche gli Arguedas, Semprun, Goytisolo, Cortazar (la polifonia jazz di Rayuela, del 1963), e ancora gli Henry Roth, la nigeriana Ngozi Adichie, Kaputt di Malaparte… Ma a ben vedere la storia del multilinguismo, della poliglossia, viene da lontano e passa attraverso satira menippea, ibridismo dell'Asino d'oro, latino maccheronico dei poeti rinascimentali, Rabelais, Sterne.

Una storia intrecciata con quella del romanzo ma non con essa coincidente. L'autore, con qualche (giustificata) temerarietà, prende le distanze perfino da Bachtin, che continua a immaginare il romanzo come totalità immanente, benché polifonica, chiusa dentro il proprio monolinguismo. Viene inoltre criticato l'anglocentrismo di Franco Moretti, che – più in generale – nei suoi studi pur innovativi sembra un po' inchinarsi alla logica del fatto compiuto, di ciò che si impone (le spettacolari, pervasive opere mondo), come se invece la letteratura non fosse composta da rami secondari, opere marginali, grandi "minori", apparenti fallimenti (intorno al "mondo" ci dice molte più cose Rayuela di un 'opera mondo come Cent'anni di solitudine di Garcia Marquez). Già Sklovskij ci aveva ricordato che per Aristotele il linguaggio poetico "dovrebbe apparire strano e sorprendente", quasi una lingua straniera. Pensando a questo, stupisce un po' la esclusione di Amelia Rosselli dal puntuale "collaudo" della teoria qui eseguito, e che riguarda la lingua mescolata ed "esilica" di tre autori: Savinio (Hermaphrodito), Coccioli (L'erede di Montezuma, influenzato dalla sonorità della lingua preispanica nahuatl) e Wilcock (una narrativa translingue e antiromanzesca).

Per limitarci alle patrie lettere sarebbe stato decisivo poi un carotaggio nello spiazzante "fenglese" del Partigiano Johnny, che speriamo Raveggi ci offra prossimamente. Bisogna immaginare il multilinguismo legato al mito di Babele come un fatto positivo (si veda Toni Morrison). Qui occorre citare Dante, che nel De vulgari eloquentia assume la Torre di Babele come peccato di hybris, ma nella Commedia supera il pregiudizio teologico: le lingue si divisero assai prima di Babele poiché l’essere umano tende naturalmente alla mutevolezza, e anzi ha il piacere di variare e rinnovare: “Opera naturale è ch’uom favella / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi, secondo che v’abbella” (Par, XXVI). Infine un utile capitolo sull'influenza di Joyce in America Latina, a partire da Borges e dal messicano Elizondo, e il suggerimento che ogni autore debba possedere più patrie. 

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Nel libro di Pellegrini la filologia diventa un genere prossimo alla detective story: ogni capitolo è dedicato a un caso di interpretazione curioso e intricato, di cui si offre una soluzione sempre sorprendente. Primo fra tutti la parabola del Vangelo di Matteo con la morale finale: "È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…". Ora, la parola càmelon è simile alla parola càlon, che significa gomena, fune di canapa. Dal punto di vista logico Gesù avrebbe dovuto dire "gomena" ma tra due soluzioni, entrambe accettate, il filologo è tenuto a seguire quella meno probabile, meno comune (lectio difficilior), per la ragione che se qualche copista potrebbe aver sostituito "cammello" con "gomena" è impossibile immaginare il contrario! La controprova consiste poi nella verifica sull'usus scribendi di Gesù, il quale adopera la parola "cammello" in un'altra occasione, quando rimprovera i farisei che filtrano il moscerino ma ingoiano il cammello.

Gesù predilige l'immagine iperbolica, e proprio l'animale con due gobbe viene associato a un passaggio strettissimo (la bocca, la cruna di un ago). La verità come negazione del luogo comune: un’indicazione di cui fare tesoro! Pellegrini si sofferma su molti altri casi, spesso divertenti. La punteggiatura in Manzoni (che usa la virgola in senso ritmico e non sintattico), gli "scartafacci" di "A Silvia", un refuso in un racconto di Buzzati che sfuggì pure all'autore, La Semiramide dantesca, che tra le sue molte perversioni potrebbe avere anche quella di "allattare" il marito, un apparente errore geografico di Boccaccio (dovuto anch'esso a un frettoloso copista), etc. Ma soprattutto, nell’introduzione, Pellegrini polemizza con la New Philology che antepone il ruolo del lettore a quello dell'autore: "non conta ciò che tu vuoi dire ma conta ciò che quelle parole dicono a me". Certo, abbiamo il dovere di far parlare i classici, ma non di farli parlare con la nostra voce!

Insomma il "nemico", la destra è, come sempre, l'ossessione identitaria, la febbre monolinguistica e monoculturale, o anche la pretesa autoreferenziale di restare solo noi sulla scena, con la nostra unica voce, di tacitare con prepotenza la voce dell'autore, e qualsiasi alterità. Due libri – densissimi e apparentemente destinati agli studiosi – di teoria letteraria diventano due saggi "politici", che ci invitano ad accogliere l’eccitante Babele della varietà: "Non l'Uomoma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra"(Hannah Arendt).

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