Per un chicco di caffè a Parigi
“Le café est un torréfiant intérieur”, così Honoré du Balzac nel Traité des excitants modernes (1839). Povero Balzac.
Ogni italiano che vive a Parigi deve presto affrontare una verità assai amara alla quale non era preparato: il caffè fa schifo – “jus de chaussette”, succo di calzini, come dicono da queste parti. Lo spettro gustativo oscilla dal terroso all’asprigno, da un non so che di copertone al truciolato. Un drink acquoso o legnoso che lascia la “camicia” sulle pareti interne della tazzina e soprattutto la bocca impastata per ore. Il tutto per due euro e cinquanta circa.
Latte Art
Nei momenti di sconforto confesso di esser passato alla cicoria. Poi mi sono adattato al male minore, il “noisette”. Trattasi, con grande approssimazione, di un caffè macchiato, chiamato così per via del colore, in realtà assai limaccioso. Il gusto del latte a lunga conservazione e il cioccolatino fuso al posto dello zucchero stempera un poco l’acidità del caffè. A dir il vero, da queste parti, per distinguere un espresso e un noisette si deve spaccare il capello in quattro visto che l’espresso – anche quando “TRES serré!” come gli italici ribadiscono disperati col gesto della mano tra pollice e indice – è comunque allungato come se ci avesse piovuto dentro. Non a caso alcuni servono il noisette come un espresso accompagnato da un bricco di latte freddo: un macchiato fai-da-te. Una piccola accortezza da non sottovalutare, perché qui ignorano la cioccolata in polvere, lo zucchero di canna, il latte di soia, il miele, per non parlare della cosiddetta Latte Art, coi disegni vegetali e animali sulla superficie del cappuccino. Ornamento è delitto. Il cliente è lasciato solo, sull’orlo abissale della tazzina tracimante il beverone nero.
Caffè pozzanghera
Ora, al mondo c’è solo una cosa – “the thing”, nel senso del film di Carpenter – peggiore dell’espresso francese, e questa cosa è il cappuccino francese. Qui tocchiamo vertici di perversità sconosciuti ad altri paesi dotati di tradizioni culturali. Una mattinata uggiosa che avevo la scimmia del cappuccino entrai nel bistrot del quartiere, dove faceva bella mostra una macchina fiammeggiante di recente fattura. Che bello, mi dico picchiettando il giornale piegato in quattro sul bancone, pensando alla superficie tigrata fatta di caffè e schiuma sotto la quale giace il prezioso petrolio. Come in un assolo di batteria, il barista di spalle non smette di trafficare, truc truc truc, finché si alza una nuvolona di vapore che non sprigiona alcuna fragranza e s’imbroglia col fumo della sua sigaretta. Pazienza. Un vecchio malconcio che beve vino al banco non batte ciglio, preso a nascondere la testa dietro le bottiglie poggiate sul davanzale davanti allo specchio, così che i suoi capelli irsuti sembrano spuntare dal collo delle bottiglie.
I tempi di erogazione vanno per le lunghe, mi siedo e mi vedo prender posto al tavolo libero nell’Absinthe di Degas. Il giornale comincia a spiegarsi lentamente, posseduto da chissà quale diavolo.
Edgar Degas, In a Café
La pozione è finalmente servita. La tazza è strapiena e sul poggia tazzina si crea una pozzanghera nera, ennesimo cupo presagio dell’esperienza imminente. Non un dito di schiuma all’orizzonte, se escludo qualche bollicina che si aggruma e implode a contatto col cucchiaino. Per essere un caffè è un caffè, dai su. Dopo averci soffiato sopra come si fa solo colla broda della nonna, comincio a sorseggiare l’intruglio. Il volto passa dall’abituale rosa scialbo allo scarlatto; la lingua, ustionata, perde ogni sensibilità, rivitalizzata solo dall’assunzione pomeridiana di una Perrier. Si tratta di una sorta di caffellatte bruciato e rovente, un caffellatte scalognato, lasciato stagionare e passato infine al microonde. Per non bruciarmi le labbra, lo bevo col cucchiaino a mo’ di antibiotico. Il barista mi fissa colle braccia tese sulla cassa e lo straccio sulla spalla: “Alors, mon chef?”. 4 euro. Mi trascino fuori intontito come se scendessi dal ring; never more, never more, ripeto a mente. Siamo di gran lunga al di là di quel cappuccino servito in un boccale di birra a Little Italy (Manhattan) da presunti connazionali, in un bar che porta il nome della mia città d’origine.
Café gourmet
Come capacitarsi del fatto che una società con una gastronomia così raffinata ha ceduto proprio sul caffè? Eppure i miei tentativi di far prender loro coscienza dell’evidenza falliscono puntualmente. Passo per l’italiano fanatico, di quelli che all’estero vogliono insegnare agli altri i rudimenti della buona cucina. E, certo, aver vissuto a Napoli non aiuta (per inciso, la leggenda metropolitana dell’acqua di Napoli come ingrediente segreto del caffè non fa una piega). Così mi ritrovo a condividere il mio dolore con connazionali ma anche con gli americani (“Why Is Coffee In Paris So Bad?” si chiedeva un giornalista del “New York Times”). Insinuare che negli Stati Uniti si beve un caffè decisamente migliore che a Parigi è come dire a un italiano che la pasta migliore si mangia in Cina.
Che in Francia c’è del marcio lo indicano in modo palese due eventi. Il primo, il successo strepitoso di Starbucks: come è possibile che funzionano così bene in una città dove l’offerta di caffè è così alta? Non v’è angolo della città senza: una farmacia, una boulangerie, una patisserie, un bistrot e almeno un paio di café. Allo Starbucks ci vanno gli stranieri, gli adolescenti o gli adulti per incontri di lavoro o appuntamenti al buio, dicono i francesi. Sarà. Il secondo, la proliferazione di boutiques di macchine Nespresso, al ritmo dei rivenditori di sigarette elettroniche, per citare un altro “excitant moderne”. Che le capsule sempre siano lodate, beninteso. Da pochi anni sono spariti i distributori automatici di caffè che proponevano, oltre che caffeina, anche un potage, ergo dallo stesso buco uscivano fuori caffè in polvere e verdure liofilizzate. Tutto fa brodo!
Per sopravvivere, italiani e stranieri avveduti si passano segretamente gli indirizzi delle migliori brûlerie quasi fossero luoghi di spaccio. Purtroppo il fascino del locale sopravanza spesso il gusto della materia prima. Ma negli ultimi anni qualcosa si muove, a partire dall’apertura di una vera e propria Caféothèque, gestito da una donna del Guatemala, con tanto di corsi di caffeologia. Da un estremo all’altro: non un espresso ma un “café gourmet”, non un bar fetente come ce ne sono tanti da noi ma l’Accademia nazionale del caffè. La clientela, c’era da giurarselo, è soprattutto internazionale, con alcuni francesi avventurosi e italiani alla frutta come il sottoscritto. Qui non bazzicano ordinari cittadini che reclamano la loro dose di caffeina quotidiana come una volta si lamentava il pane, quanto spocchiosi sommelier del caffè che discettano di sconosciute miscele indiane, di tecniche differenti di torrefazione, dell’importanza della ceramica delle tazzine, del retrogusto di foglie di tabacco o di cuoio. Una scienza esatta.
Caffè interstellare
Non c’è unanimità su quante M siano necessarie per un buon caffè: macchina, miscela, macinatura, mano, manutenzione. L’unica M che sembra propria al caffè francese è l’interiezione con cui si apre l’Ubu Roi di Alfred Jarry, ovvero “merdre”.
In sintesi, svolta qualche ricerca, ho capito che in Francia: la miscela è fatta con chicchi vecchi e troppo tostati, macinati in gran quantità e in largo anticipo. La miscela più diffusa è la robusta e non l’arabica, una scelta che risale ai tempi del colonialismo in Africa, ciecamente perpetrata dai pochi distributori che hanno il monopolio. Sospettavo che, gratta gratta, si finiva in politica. L’arabica ha il doppio di cromosomi della robusta, più oli essenziali, più zuccheri e meno caffeina, per questo produce un caffè aromatico e meno amaro. Difficile bere un caffè francese senza lo zucchero, privo del gusto cioccolatoso proprio dell’arabica. Riguardo alla mano, il caffè è troppo pressato e i baristi lasciano filtrare troppa acqua. Le macchine infine sono vecchie, maltenute e luride come se uscissero da un robivecchi.
Quest’analisi non mi soddisfa appieno, non diversamente da chi spiega la forza catastrofica dell’amore come una catena di reazioni chimiche.
Finché rivedo per caso Deux ou trois choses que je sais d’elle di Jean-Luc Godard. Nella scena al café, uomini e donne fumano, sfogliano riviste e leggono libri, s’ignorano e ammiccano. Poi l’occhio della telecamera si avvicina alla tazzina e più il primo piano avanza, più la superficie di caffè si fa smisurata e somiglia alle galassie dell’universo. La voce inconfondibile di Godard sussurra un monologo contro la società dello spettacolo, accennando all’alienazione del soggetto, alla difficoltà del vivere collettivo, all’arbitrarietà del linguaggio, alla crisi del capitalismo e al futuro dell’universo.
Durante questi cinque minuti c’è una sola cosa che non viene mai mostrata: qualcuno che beve caffè. Preso nei suoi pensieri il grande regista trascura un dettaglio: che un caffè è fatto essenzialmente per essere gustato. Ma questa è una lettura italiana piccolo borghese. Perché a Parigi bere un caffè non è altro che un costume sociale, costituito da chi si siede al tavolo e da quelli che camminano fuori, dai glandeurs (il nostro dolce far niente) e dai flâneurs. Glandeurs e flâneurs sono gli ingredienti base, altro che le cinque M.
Nel 1930 (Cafè Crème) Walter Benjamin scriveva che il petit déjeuner è uno specchio concavo in cui si riflette un’immagine della città. Mi sembra un po’ esagerato ma, se il paragone tiene, il caffè corrisponde non ai corpi celesti ma ai più infimi cunicoli sotterranei.