Walter Benjamin: i Passages illustrati

10 Maggio 2023

“Ecco una novità: per le mie ricerche prendo appunti su un importante materiale iconografico dimenticato”: così Walter Benjamin nel settembre 1935 a Gretel Adorno. Molti sanno che Walter Benjamin tentò tre volte, negli anni Venti, di entrare in contatto con Aby Warburg e che il lavoro dello storico dell'arte amburghese erano alla base della sua ricerca sul Dramma barocco tedesco. Tentativi vani, anche se una copia del Dramma (ed. 1928) è stata acquistata da Warburg pochi mesi prima della sua morte. Erano però pochi a sapere che il poderoso incartamento benjaminiano sui Passages parigini venne concepito come libro illustrato, un testo in cui l’immagine, come nell’Atlante mnemosyne warburghiano, giocava un ruolo chiave. L'imponente ricerca iconografica del filosofo tedesco è stata ricostruita da un ricercatore del centro Warburg, Stefen Haug, e da poco tradotta in Francia (Une collecte d’images. Walter Benjamin à la Bibliothèque nationale, Maison des sciences de l’homme, 2022, p. 544). Il volume ricostruisce le fasi (1927-30 e 1934-40) di elaborazione del manoscritto e i suoi riferimenti iconografici, l’editore spiega in apertura la sua discutibile scelta: “quest’opera riunisce due tipi di immagini: quelle che Steffen Haug ha identificato come facenti parte della ‘documentazione visuale’ che Walter Benjamin pensava di allegare al Libro dei passaggi e che sono menzionate nelle “note e materiali” accumulate per questo progetto; e quelle che Steffen Haug ha scelto, a titolo comparativo o discorsivo, per arricchire la sua posizione e la sua analisi del corpo iconografico recuperato. Abbiamo optato per una numerazione continua, senza distinguere le une dalle altre.”

Ma insomma quali immagini accompagnarono la redazione del Passagenwerk? La fonte è soprattutto la Bibliothèque Nationale, due fondi in particolare: il Cabinet d'Estampes e il mitico “Enfer”, un fondo quasi inaccessibile, l'inferno, dedicato alle immagini licenziose o pornografiche. Per accedervi Benjamin dovette ricorrere al sostegno dell’amico Georges Bataille che, addetto al Cabinet des Médailles in BN, nei primi anni Trenta frequentava quegli stessi cataloghi per comporre la più warburghiana delle riviste parigine, Documents, ideata con Carl Einstein e Michel Leiris, in cui si affiancava la fotografia realista di Elie Lotar a immagini etnografiche, alle stampe del XVI secolo e agli ultimi Picasso e Giacometti. 

Dalle sue lettere Benjamin sembra attribuire molta importanza alla risposta della direzione della biblioteca alla sua richiesta di accesso, un grande entusiasmo emerge alla notizia dell’assenso: a metà degli anni Trenta è piuttosto raro che una ricerca storica, soprattutto di carattere sociale, venga condotta a partire da materiale iconografico, soprattutto quando si tratta di immagini non orientate alla documentazione. Benjamin si orienta verso immagini riprodotte su larga scala: incisioni e litografie popolari, acqueforti, emblemi e allegorie, giochi, rebus, pubblicità, manifesti, immaginette di Epinal, caricature, vignette provocatorie o sconce, spesso tratte dalla stampa, mappe, volantini di propaganda politica, più raramente fotografie o dipinti. In una lettera del gennaio 1936 a Gretel Adorno: “Questa storia dell’arte, che si accorda perfettamente a tutti i miei interessi, si armonizza particolarmente bene con i miei studi di questi ultimi giorni che ho passato, dopo una lunga assenza, al Cabinet des estampes. Guidato da un passaggio di Baudelaire ho scoperto un incisore le cui acqueforti su Parigi mi hanno tolto il fiato. È un contemporaneo di Baudelaire – non si può immaginare che meraviglia sarebbe stata un’edizione delle sue incisioni con un testo del poeta. Ma questo progetto è stato rovinato dal carattere imprevedibile dell’incisore. Si chiama Meryon. Le acqueforti parigine sono i suoi capolavori e non ce ne sono più di venti. Ma che pezzi! Li vedrai quando verrai. Meryon è morto demente, dopo aver toccato la quarantina” (p. 87).

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Allo stesso Cabinet d’estampes Benjamin conosce Edward Fuchs, appassionato di incisioni francesi dell’Ottocento e il cui lavoro sulla caricatura riportò l’attenzione degli storici sulle fonti iconografiche. Anche l’amicizia stretta in biblioteca con la fotografa Gisèle Freund andava nello stesso senso. Sappiamo quali settori tematici del cabinet hanno attirato maggiormente l’attenzione del filosofo (topografia, storia, arti accademiche, letteratura e finzione) e come sono stati consultati: ad esempio, per quanto riguarda la topografia di Parigi, Benjamin si concentra sul X e sul II arrondissement raccogliendo una poetica pubblicità del cioccolato Marquis apparsa nel passage Vivienne, un’insegna di pasticceria, un acquerello di Georg Emmanuel Opitz dello stesso passage, immagini eterogenee ma capaci di restituire una sorta di caleidoscopio visivo del luogo. 

Anche nel settore dedicato alle arti la ricerca di Benjamin si concentra su temi centrali quali il diritto d’autore e la falsificazione, su cui tornano alcune litografie in cui pittori e scrittori si appropriano, mediante la loro autorevole firma, di lavori svolti da artigiani o ‘negri’. 

Come avrebbe assemblato immagini e testi, con le loro eterogenee forme grafiche, nel suo libro? Un esempio, ben noto a Benjamin, era il Paysan de Paris di Aragon, anche se per Benjamin era fondamentale che la retorica pubblicitaria emergesse in modo straniato, sarà anzi questo l’elemento che segna il suo distacco da Aragon: “Aragon persiste a restare nell’ambito del sogno: importa qui (Paris capitale du XIXe siècle, Cerf, 1989 p. 474) trovare una costellazione del risveglio. Un elemento impressionista – la ‘mitologia’ – permane in Aragon (...) si tratta qui di disaggregare la ‘mitologia’ dallo spazio della storia. Il che non può esser fatto, è vero, se non attraverso il risveglio di un sapere ancora inconscio del passato.”

Un po’ come il cinema di Charlie Chaplin, le immagini avrebbero quindi fatto emergere l’inconscio del XIX secolo e Benjamin le analizzava, secondo Haug, per orientare la propria scrittura, l’immagine precederebbe insomma la riflessione tematica scritta: “le immagini vanno quasi sempre al di là dei temi a cui Benjamin aveva pensato; aggiungono aspetti nuovi, ancora da approfondire (...) Le immagini raccolte – chiosa Haug – possiedono sempre una dimensione cognitiva propria” (p.20). 

Come Warburg, Benjamin intende le immagini come documenti storici, le raggruppa in cartelle in senso tematico: talora sono i dettagli a guidare la sua classificazione.  

Va detto che la ricerca sul ruolo che le immagini ebbero per Benjamin non è nuova: già Timo Skrandies nel 2006 lo definiva "un atlante di immagini". Come nelle ultime tavole di Aby Warburg, costruite nel 1929 con ritagli di giornali e riproduzioni di dipinti sul tema del sacrificio (sacrificio per sé, sacrificio per la comunità, sacrificio ebraico), anche in Benjamin le immagini hanno un valore testimoniale, quasi operassero una psicanalisi sociale, fanno emergere i "fantasmi" consumistici (p. 76) della Parigi del Secondo impero. Da Fourier a Daguerre a Grandville, da Wiertz a Courbet, le immagini classificate da Benjamin appaiono ironicamente emancipate dal loro tempo, capaci di rivelarne la grottesca deriva alienante.

È, questa, una ricerca importante che riconfigura il rapporto tra iconologia e storia sociale, tra Francia e Germania all’alba del secondo conflitto mondiale, che ci dice molto sulla diffusione delle immagini di massa e sul loro ruolo per l’ascesa di un’economia di mercato. 

Viene da chiedersi cosa rivelerebbero le immagini del nostro presente se Benjamin e Warburg le disponessero ad arte per rivelarci l’autentico volto dei nostri fantasmi. 

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