I ritratti di Rossana Rossanda

30 Luglio 2023

Non mi accorgo, mentre leggo, che mio figlio piccolo si è svegliato tra le mie braccia, la primissima luce filtra appena dalle tende e lui segna col dito la pagina: "Mamma, cosa vuol dire: golpe?". Bisogna cominciare così a parlare dell'intenso ultimo Volti di un secolo. Il Novecento in cinquantadue ritratti che raccoglie più della metà degli articoli di Rossana Rossanda (Einaudi, 2023, p.242) per la cura di Franco Moretti che ne firma anche l'introduzione: da Mao ad Allende, da Lelio Basso a Giorgio Amendola a Pasolini e Giorgio Strehler, questi ritratti tracciano con rigore e intimità la storia politica del paese: "Un convergere di vite: aveva un senso, far parte di quel partito, non per la sua massiccia presenza in Parlamento (che pure c'era), non per il carisma dei suoi capi (che pure c'era), e meno che mai per i lugubri partiti fratelli (che c'erano purtroppo anche loro), ma per i rapporti orizzontali che sapeva creare. (...) È un'immagine veritiera – interroga Moretti –, questa, del Partito comunista italiano?".

Solo pochi mesi fa, per la cura di Francesco De Cristofaro, Nottetempo ha pubblicato le Aperte lettere della fondatrice del "manifesto", i suoi saggi critici e giornalistici, primi frutti del lavoro di Doriana Ricci al fondo Rossanda dopo la sua scomparsa, meno di tre anni fa. Vividi, "giustamente severi", dal timbro "libero e riservato", i ritratti di Rossanda, ci mostrano una comunità di uomini e donne che non si fanno sconti, men che meno al momento della morte, un momento che, per lei, chiama sempre in causa la storia, prima di tutto la propria: scrivere di chi muore significa ripercorrere le scelte, i bivi intimi, politici, accidentali che hanno ora unito ora diviso. Una galleria di ritratti aspri, irrimediabili, rissosi che, come intuisce Moretti, è anche una serie di variazioni di autoritratto, in cui emergono gli scarti, le schegge e quasi si tace pudicamente la contiguità, lasciando emergere un sé giansenista, scolpito in negativo, instancabilmente "problematizzato".

In negativo, come il necrologio borioso di Aragon, pieno di sé, circondato da una sgradevole, lussuosa casa perfetta, quello di Solzenicyn – "È visionario il nazionalismo di Solzenicyn, che arriva a sfiorare temerariamente fin gli umori antisemiti e che lo indurrà nel 2000, lui così solitario e restio, a incontrare Putin e ad avvallarne la seconda guerra in Cecenia con gli infedeli. Come se il passaggio nel gulag gli avesse fatto toccare un limite che lo metteva per sempre fuori dalla storia" – o quello, molto diverso, di Berlinguer: "C'è chi pensa che non sono semi, ma grani morti, residui d'una speranza, il comunismo, che non va custodito per altri tempi, ma sempre è stato utopia, che non va rivisitata, ma maledetta. (..) Da troppi anni non sappiamo di lui abbastanza per dire: è morto durante un cammino, del quale non è stato capace di evitare le buche e le nebbie e le trappole e le deviazioni, ma sicuro in se stesso che un cammino esiste, da qualche parte, vicino, nel profondo di tutti i non rassegnati".

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Ritratti rocciosi come Giacometti, che acquisiscono dimensione sempre a partire da nozioni negative come quella di suicidio che sterminò non pochi compagni, o quella di povertà come nel teatro di Paolo Grassi ("le scene accatastate sotto i portici di via Rovello, sempre nella speranza che non piovesse di sbieco") o quella di solitudine, come nella "democrazia savonaroliana" di Amendola. Lo stile di Rossanda è essenziale, scolpito per differenza, quasi del tutto privo di nessi metaforici (un'eccezione per Costantini: "… come quando a Venezia il suo braccio mi afferrava facendomi volare su un vaporetto già staccato dall'attracco, come un vecchio gatto esitante tirato su di peso da un ragazzo ridente" –), pure capace di instaurare prospettive radicalmente audaci, come nel ritratto di Allende: le fotografie del cadavere suicida vengono accostate ai ricordi caldi del presidente vivo, a colloquio con Rossanda, nella stessa stanza. O nel ritratto di Primo Levi, che Rossanda immagina vedere il cadavere di se stesso, nella tromba delle scale, con le ossa spezzate "certo deve essergli apparso di straordinaria indiscrezione"; o ancora nel ritratto di Julca Schucht, il contrario della vedova di Gramsci che vorrebbe il partito, "una donna sola che non poté salvarsi dalla propria prigionia".

I ritratti di Rossanda non sono mai conciliatori, mai pacificanti, spesso maledizioni: "Mai la mafia è stata così forte e mai la sfera politica le ha lasciato più spazio che negli anni '70 e '80, facendosi ammazzare anche i suoi funzionari più onesti. Non se ne può più di sentir dire che "lo stato non abbasserà la guardia" (..) È limpida questa sua morte come la sua vita. Siamo pieni di collera. Non diremo povero Rostagno.", o ancora (1980): "Sulla strada di Amendola senza la passione di Amendola nelle povere forme dell'attuale gruppo dirigente, il Pci procederà sempre più simile non alle virtù attive che il vecchio amava, ma al piccolo cabottaggio dell'Italia prefascista, che aveva tanto odiato". Ritratti che si incuneano nel dibattito contemporaneo stagliandosi contro articoli di altri: così per Giulia Schucht, così per Giulio Einaudi: "Non si può definire più scioccamente Giulio Einaudi di come ha fatto lunedì sera il Tg1: è stato prima di tutto un imprenditore del libro. Prima di tutto, a metà degli anni Trenta, Einaudi non si proponeva di fabbricare e vendere libri, ma di modificare la cultura italiana, e il bello è che ci riuscì".

Ordinati cronologicamente, seguiti da un indice completo degli scritti in "morte e commemorazione", questi quarant’anni di articoli restituiscono un contesto nazionale e internazionale di crescente incomprensione, solitudine, volgarità, colpi bassi, "coglioneria del postmoderno", una crescente prossimità verso chi non c'è: "Ricorderemo (Nora Fumagalli) in molti come una parte di noi che è andata perduta" (2003); "Lisetta ( Liebman Salis) non è una salma. Un cadavere. Lisetta è un segmento di noi e non sarà morta che con noi" (2004). Emerge, nella restituzione della lotta di questi uomini e donne con la morte, il peso patetico della vita intima, delle relazioni compromesse che la vita annoda attorno al nostro tempo, una realtà comica che non ha spazio altrove nella scrittura di Rossanda che tuttavia le cede, segnando la pagina come qualcosa che resta: così racconta Costantini: "Mi mostrava che poteva contare e vivere i suoi giorni senza fuggire urlando, senza coprirsi gli occhi, senza fingere il non vero." o Fortebraccio: "Quando lo conobbi aveva perduto la voce a causa di un cancro alla gola, e, peggio, l'aveva sostituita con quel doloroso falsetto che si impara per esprimersi."

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