Ferite e cicatrici / Philippe Forest, Piena
La mancanza non è uno stato d’essere esauribile. Nessun lutto è superabile. Quello che inizia a mancare non smetterà mai di mancarti. Si possono trovare dei modi per elaborare un lutto, questo sì, si può girare in lungo e in largo attorno a un pensiero, instaurare un tipo di non premeditata gradualità perché il dolore possa nel tempo affievolirsi, perdere vigore, ma creare dei rondò attorno al dolore non snellisce il traffico di nessuna sofferenza, sarebbe come indossare dei parastinchi e pensare di salvarsi in uno schianto a 340 chilometri orari contro un muro. L’intonaco si scalfisce appena, e i parastinchi sono forse il combustibile più veloce nella palla di fuoco.
Poi esiste una strana specie, quella degli scrittori, che sul dolore ricama fulgide trame e che sulla perdita merletta magnificamente, notte e giorno, pagina dopo pagina, fino a ornare le pareti interne dell’io con un pizzo così ben tessuto, da non raccontare nemmeno lontanamente cosa significa sentire la mancanza di qualcuno, cosa significa avere occupato ogni infimo spazio dell’ippocampo da un solo pensiero per tutta la vita; in quei casi la penna non è gestita da un abile sarto, ma da un pessimo chirurgo, e la scrittura diviene un intervento di chirurgia plastica votato al fallimento: per gonfiare lo zigomo, il naso è andato perduto.
Le cose cambiano soltanto se ogni libro sul dolore diventa anche un libro d’amore, le cose cambiano se la mancanza è tenuta sotto scacco dalla comprensione della mancanza. Per far questo, non c’è storia, bisogna saper scrivere, bisogna sapere cavare il sangue dalla rapa che siamo diventati. Philippe Forest, e qui volevamo arrivare, è uno di quelli che sa come fare.
Forest scrive il primo romanzo quando ha 35 anni, s’intitola L’enfant éternel e in Italia viene tradotto con Tutti i bambini tranne uno (Fandango, 2018). Qui racconta la vicenda del cancro che riguarda Pauline, la sua bambina, morta all’età di quattro anni. Da allora, la perdita, intesa come stato d’essere consustanziale alla vita di tutti, diviene il centro di ogni suo romanzo, e quello che prima era un normale professore di letteratura all’Università di Nantes si trasforma anche in uno dei più noti scrittori europei.
Oggi Forest di anni ne ha 57 e in Italia è stato da poco pubblicato Piena (Fandango, pp. 252, 18.50 €), il suo settimo romanzo, vincitore nel 2016 del Premio Langue Française e del Premio Franz Hessel. La traduzione è stata affidata nuovamente e giustamente a chi da anni lotta e dialoga con le parole dello scrittore francese, Gabriella Bosco.
Piena è la storia di un uomo senza nome che ritorna a vivere nella periferia di una grande città a ridosso di un fiume. Chi narra è qualcuno con un forte senso del reale. La città, fin dall’inizio, sembra una città di fantasmi, stretta in un piano regolatore che fa di tutto per essere uno spettro fatiscente di un antico progetto: «s’innalzarono così verso il cielo torri che presto dominarono tutto il paesaggio e che formavano all’orizzonte un panorama piuttosto anarchico di palazzi nuovi fiammanti dai profili dinoccolati simili a giganti deformi e grotteschi tutti addossati gli uni sugli altri». Tutto ha inizio quando un gatto che si vede spesso in quella zona scompare senza lasciare tracce, senza mai più tornare.
Una scomparsa può significare tutte le altre scomparse? Esiste una relazione tra questa e tutte le altre che avverranno di lì a poco? La morte della figlia e della madre, precedenti alla scomparsa del gatto, tessono un filo rosso che arriva fino alla successiva perdita della vicina di casa, con cui era appena iniziata una relazione, e con un misterioso vicino che poco tempo prima della disparition teorizzava un lento e graduale eclissarsi del mondo.
Tutta questa storia è raccontata da un uomo che avverte la necessità di raccontare e che mistifica l’urgenza di farlo. La credibilità di quello che accade è nelle mani del lettore, poiché chi scrive sembra quasi che non voglia farsi ascoltare: «Non so bene cosa dire di me. “Ho vissuto” dovrebbe bastare. Ci sono cose che ho imparato, nelle quali ho creduto e di cui poco alla volta ho capito che non erano così attendibili come mi avevano insegnato quando ero bambino […]. Aggiungo che ho amato e che sono stato amato. Il che, nonostante tutto, mi ha reso felice. Fornisco queste precisazioni –nient’altro che precisazioni – perché non si attribuisca ciò che ho da dire a una qualche forma di miseria sociale o sentimentale che avrebbe potuto offuscarmi la mente e provocare il mio presunto delirio».
Una eco letteraria ben precisa c’è. L’«Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas» di Camus bussa con nocche di pietra dietro la porta di Forest, e Meursault, protagonista di Lo straniero forse è un cugino neanche troppo lontano del narratore di Piena.
La caratteristica di Philippe Forest è quella di mettersi accanto al dolore durante la narrazione. Se giriamo indietro all’impazzata il nastro del registratore vediamo che la stessa cosa accade anche in Tutti i bambini tranne uno o in Per tutta la notte (Alet, 2006). Non c’è valenza salvifica della scrittura, non c’è il potere terapeutico, non c’è autolatria, non c’è compiacimento o autocompiacimento, non è richiesta nessuna pacca sulla spalla. Pauline, bambina protagonista in Tutti i bambini tranne uno non indosserà più lo zaino per andare a scuola, perché quello zaino non appartiene più a nessuno dopo la sua morte. Le macchie di polline sul pigiama della bambina restano inermi e vanno descritte, sono il significante di nessun significato. La bambina non c’è più, è un dato di fatto che va oltre il pietismo. Nell’ultima parte di Per tutta la notte, sequel, se vogliamo, de L’enfant éternel, vi è un momento in cui viene sfogliato l’album fotografico di famiglia. Tra le ultime foto nelle quali la bambina compare, si vede il suo corpicino devastato (in ogni particolare c’è la deflagrazione: nel cranio smunto e consunto, nell’impressionante cicatrice di un braccio che va incancrenendosi, nel catetere che sembra dar vita a un nuovo ombelico). Questo significa mettersi accanto al dolore: realizzarlo, comprenderlo, fare uno sforzo caparbio per restare lucidi davanti ad esso.
Quello che accade in Piena, più che in tutti gli altri romanzi forse, è la voglia di capire se attraverso il filtro della scrittura si può giungere a una seconda verità, se si può finalmente rivoltare il dolore fino a comprenderlo. Lo diciamo subito: non si può. L’andamento lento e cavilloso e caparbio, l’avvitamento su e fuori da se stessi, la direzione che prende la scrittura all’esterno della perdita è una delle strategie più efficaci per restare al centro delle cose. E questa è l’unica cosa da fare.
Non è un caso che in un’intervista di qualche anno fa, quando a Philippe Forest viene chiesto quale sia la linea guida dei suoi romanzi, lui faccia riferimento al finale di Palme selvagge di Faulkner, nel quale lo scrittore americano scrive: 'between grief and nothing I will take grief.', ‘fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore’.
L’amore nuovo (Alet, 2009) e Sarinagara (Alet, 2008), in questo senso, erano già romanzi di exofiction, genere letterario che fatica ancora un po’ in Italia, dove si è più affezionati all’autofiction. È beninteso che stiamo parlando di gente che scrive guardandosi l’ombelico, solo che se il primo lo fa dall’esterno (valuta se il bellicolo è a mandorla, a cappuccio o a filo), il secondo lo fa dall’interno (contando i pallini di lana che trova). Philippe Forest in Piena dà un ordine alle “bolle di puro passato”, quelle che riemergono e scoppiano nel presente quando meno te lo aspetti, e quando scoppiano «fanno allargare in cerchi concentrici le increspature di fiori fantastici» fino a che il disegno progressivamente, dopo attimi di grande splendore, svanisce, si assenta, ma non scompare. L’oubli (Gallimard, 2018), ultimo romanzo di Forest non ancora tradotto in italiano, racconta la vicenda di un uomo che al mattino si sveglia ed è convinto di non ricordare più una parola in particolare. Un idioma è scomparso e lui non sa qual è. E ciò che farà per riportare alla mente questa parola assomiglia a una delle più grandi e architettate indagini poliziesche mai messe in atto. Qualcosa che va dal Perec di La scomparsa a Il nome sulla punta della lingua di Quignard. A dimostrazione, ancora una volta, che i libri continueranno a esistere fino a quando ci sarà la voglia di testimoniare l’indicibile, di dare forma all’ineffabile, ogni volta peggio, ogni volta meglio.
L’ordine che Forest tenta di dare a tutta questa marmaglia di dolore e di smarrimento inespresso è un dono ricevuto in eredità dalle sue letture. Samuel Beckett (che in un tempo solo distrugge i pilastri portanti e crea dei sostegni potenti mentre per poi arrotolarsi nella pagina che segue), Claude Simon (che Nonostante Edizioni sta per fortuna riportando in Italia) e, come già detto, Albert Camus. Di più: tirando la camicia (o meglio, la gonna) di una scrittrice statunitense contemporanea si può anche affermare che Philippe Forest abbia qualcosa a che spartire con l’arguzia di Jennifer Egan. Entrambi affezionati al fatto che per essere scrittori bisogna saper ricordare; entrambi convinti che alla base della scrittura ci sia la necessità di trascendere: scrivere per guardarsi dentro, avanti, da sopra e alle spalle. Poi se lo fai partendo dalla tua esperienza, o se tutto parte dalla fantasia, poco conta. È il desiderio di mettere insieme i frantumi, ed è un’idea che parte dal modernismo. Non a caso le voci di Peter Pan contrappuntano l’io narrante di Tutti i bambini tranne uno, o i dialoghi incidentali tra un ‘lui’ e una ‘lei’ aprono varchi in Per tutta la notte.
Piena è un romanzo sulla cicatrizzazione delle ferite. Il ‘diluvio’ che investe la città nella seconda parte dell’opera è un evento universale, di catarsi. Tutto viene sommerso dall’acqua, i quartieri delle città piombano nell’oscurità, l’inondazione porta a galla quello che abbiamo sempre saputo: che si è soli come uno sputo e che si vive nel ricordo. Il cataclisma vero è non saperlo, non riconoscere questo stato delle cose, montare la panna sopra il dolore, e leccare. Un gatto che non conoscevi, a cui non hai dato un nome, ma a cui eri ugualmente affezionato va via, si infila nell’interstizio del Nulla, tra due palizzate, e tu sei solo nel diluvio, anzi tu sei la piena in persona. Il narratore, impossibilitato a scendere dallo stabile nel quale risiede, perché completamente allagato, sale sul terrazzo e quello che vede da lì (un mondo-spugna completamente affogato in se stesso) sembra quasi una versione rasserenante dell’esistenza.
Forest a un tratto scrive: «la diserzione di un’unica creatura metteva il mondo in pericolo come se tutto il castello di carte delle apparenze dovesse crollare non appena una di loro fosse venuta a mancare da qualche parte, in cima o alla base, al centro o su un lato. Chiunque deve affrontare la prova di vedere scomparire ciò che ama, questo è certo. È la regola e non ammette eccezioni a lungo termine». Ecco la cicatrizzazione, la riparazione spontanea di un tessuto a seguito di una lesione. Enzimi e proteine che con l’istamina migrano nelle zone interessate e fanno in modo che le cellule si moltiplichino. Funziona più o meno allo stesso modo quando ti manca qualcuno. Quando ti chiedono cosa porteresti via dall’abitazione in caso d’incendio, scrive a un certo punto lo scrittore francese in Piena, rispondi pure che porteresti via il fuoco. È una risposta da poeti, ma è l’unica risposta che serve.
Philippe Forest, Piena, Fandango, pp. 252, 18.50 €.