Quello che ho capito su DFW

7 Novembre 2011

Quello che ho capito su DFW attraverso la lettura dei suoi libri e altre cose più o meno divertenti che non saprò mai più.

 

0. La Storia delle Storie. Succede questo: che la prima volta che consegno un mio manoscritto a un editore – in realtà, si tratta di un dattiloscritto; o, meglio: di una stampata; ma le parole hanno anche questo, di bello, la capacità di garantirsi talvolta una vita minerale sottotraccia – succede, insomma, che proprio quel giorno, con un tempismo da ultime bozze, sono arrivate le copie di un libro appena stampato. Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace. E l’editore – buon augurio? Pietra di paragone a futura memoria? – me ne regala una. Descrivendomi la figura e l’opera (ancora fortunatamente in fieri) di questo trentaquattrenne di Ithaca. E succede che, di ritornoa casa, l’ansia consapevole di una prima consegna messa colpevolmente in secondo piano, io legga la storia di David & della Crociera. E capisco, già alla seconda nota di pagina nove, che David Foster Wallace è diventato, all’improvviso, una mia fonte letteraria: già nel libro che ho finito e appena consegnato, prima ancora che lo leggessi. Mi rendo conto – quelle folgorazioni che hanno a che fare con il transito epocale delle costellazioni e con gli avvicinamenti repentini e imprevisti delle fascinazioni unilaterali – che tutto quello che Wallace ha scritto, scrive, scriverà, dovrò sempre maneggiarlo con la cura che si deve alla nitroglicerina di cui si è innamorati.

 

1. La Ragione deve capirsi sùbito. Come certi grandissimi della storia recente e passata cui devo il meglio della mia vita di lettore (Wallace a parte e in ordine sparso: Rushdie, Vonnegut, Joyce, Céline, Gadda, Rabelais, Bruno – ma anche Pasolini, Hemingway, Angela Carter e Gertrude Stein; o Roman Polanski, David Lynch e Terry Gilliam), David Foster Wallace non può – e non deve – grammaticalizzare né grammaticalizzarsi. Mi spiego (ed è una ragione che mi sta a cuore): lo stile di David Foster Wallace è, come quelli, distinti, degli autori parentetici, un enorme, abbacinante, vicolo cieco della Letteratura. Ha a che fare con il suo gesto espressivo individuale: e ogni tentativo di raccoglierne il testimone e scolarizzarlo porterebbe, senza sconti, al fastidio azzerante dell’epigonìa. E però nelgesto, nella capacità (e nella volontà) di forzare i limiti della scrittura fino all’estremo confine cartografato e ancora oltre, giusto per affacciarsi di là dalla soglia dell’abisso e guardarlo negli occhi nel sonno: ecco, in questo esempio di perseguire oltre ogni ragionevole certezza il proprio universo linguistico e letterario – nel coraggio talentuoso di avvicinare il proprio genio e superarlo in corsa c’è tutto il brillio dell’opera di Wallace per i lettori (e per gli scrittori) a venire. David Foster Wallace è in grado di mostrarti l’infinita potenzialità delle cose in movimento durante la scrittura: ma ti chiede in cambio – senza neppure sapere di formulare la domanda, solo d’istinto – altrettanto impegno infinito cambiato di segno. Senza esplicitarlo – la “pazienza studiosa” che Joyce chiedeva ai proprî lettori – si prevede una rielaborazione creativa aggiunta. Wallace non ti chiede di ricavare la sua tradizione dal testo; ti costringe a creartene una tua, magari digressiva rispetto alle sue stesse premesse.

 

2. Vi occorre l’impegno dell’intelligenza senza corpo.Per un attimo, per un momento solo, bisogna lasciare sospeso l’assunto della “mente migliore” della sua generazione; e accostarci da qui alla brillantezza razionale con cui Wallace intarsia le parole sulla pagina. Il miracolo letterario – la tenuta della sintassi che si può solo indicare, in realtà – sta nel fatto che tutto l’enciclopedismo commentato, le citazioni sottintese e le rielaborazioni esposte; il suo maniacale, digressivo perdersi lungo dighe di racconti da lui stesso esagerati per puntellare l’ossessione circolare di ognisingolastoria sviluppata: tutto questo concorre alla creazione di una sindrome da accumulo emotivo: che è poi il modo con cui i grandi musicisti assestano tra loro le note per darci le Variazioni Goldberg o l’Aria di Cherubino. E, qualsiasi cosa si dicapoi, è come le parole s’incastrano tra loro – come le persone si combinano attraverso l’amore – a infliggerci quel colpo imprevisto che ci fa barcollare. La marea troppo lontana che arriva dopo un cosmo riordinato di “circa milletrecento pagine”. Più le note.

 

3. Tà-tattatà-Tump-Tump. E diventa addirittura riduttivo – parziale – parlare di ritmo. E per questo in qualche modo ci spaventa la premessa alla fatica, vera, del suo editor Michael Pietsch impegnato a rileggere il caos “incompiuto” di The Pale King. “Io ho operato qualche taglio per il senso o il ritmo, o per trovare un punto dove chiudere un capitolo che si trascinava senza concludersi”. Tutto preciso, naturalmente: e anche molto sentito. Ma chi scrive è pur sempre il folle che da più di dieci anni è convinto che Eyes Wide Shut di Kubrick non sia la versione finale del regista; e afferma di essere in grado di dimostrarlo (ma questa è una digressione di troppo, almeno qui).

 

4. Un cerchio da chiudere non finisce mica prima. Il senso ritmico-tattile della frase di Wallace sta nella sua struttura anulare, nella circolarità eternamente variata con cui concorre alla creazione del tutto provvisorio che la contiene – un romanzo fiume, un racconto “da quarta di copertina” – e quindi prevede un fulcro mobile che è poi un fuoco cangiante di infinite ellissi. A voler guardare bene, di là dalle mascherature, ellissi sempre a forma di di, effe e doppiavù.

 

5. Io-Je. Perché è in questa fuga obliqua tra dimensioni nascoste che rincorriamo sempre la ‘MobyDick’, ‘il Bartleby’ o ‘il Santiago’ scrivente che si nasconde tra i personaggi. Quel David che s’impiglia nel gioco al massacro contro di sé, una volta tesa la rete a sé stesso – nei reportage sempre più fuori luogo e spaesato di chiunquegli stia intorno; nei romanzi sempre votato all’edificazione marginale delle figure più indifese, e segrete. Con quel disagio compulsivo che parte dal Norman Bombardini della Scopa del sistema: pronto, come risposta al rischio della solitudine, a mangiare tutto. Per svilupparsi “all’infinito e raggiungere dimensioni incommensurabili”. E che arriva fino allo sconforto finale del Re pallido. “Sotto sotto Sylvanshine si considerava un povero fesso apprensivo dotato tutt’al più di un talento marginale che con lui aveva un legame a sua volta marginale”. Il dolore (la paura) di essere proprietari unici e irripetibili di un talento pesantissimo e comunque inadatto a vivere. Il groppo nello stomaco – eccola, l’emozione sospesa che riaccelera – che ogni volta ci stordisce nel leggere le pagine di Da una parte e dall’altra; con un genio alle prese con una vecchia cucina elettrica di prima dei Kennedy. E una zia fiduciosa che ripassa a voce alta i verbi francesi in –ir/-iss. “Je partissais, tu partissais, il partissait, elle partissait”. “Non sono mai stato bocciato a un esame, neanche una volta. Mai. E a quanto pare ho rotto questa povera stronzissima cucina”.

 

6. Controlliamo l’afasìa.Incredibilmente, è dal mutismo di Hal Incandenza nel primo capitolo di Infinite Jest che dobbiamo passare, dal suo ritratto di adolescente prodigio smascherato nei suo limiti (che è poi uno dei terrori nucleari della scrittura wallaciana). Per due motivi. Uno ha a che fare con la questione del gesto irripetibile. Perché c’è Mozart anche perché al massimo di doti naturali s’accompagna un Leopold in grado di assecondarle con la tecnica. E così un David quasi quarantenne a David Lipsky: “Ricordo che i miei si leggevano l’Ulisse ad alta voce, l’uno con l’altra, a letto: con un atteggiamento fichissimo, tenendosi per mano, tutti e due animati da quest’amore davvero feroce per qualcosa”. Dall’altro lato. La fatica del confronto con il proprio genio sconsiderato e con le tracce verso qualcosa che quello stesso genio si dà. Il dramma allarovesciadi Francis Scott Fitzgerald (disperato, all’editore, sul Gatsby, “potrebbe ristamparlo… Non mi sembrava tanto male…”, più o meno – almeno nellavulgata); l’idea di non essere mai alla pari con il ritratto di sé, soprattutto se non si trascendono le qualità ricevute. Sempre l’estremo Sylvanshine: “Quasi tutto quello che gli altri stimavano o apprezzavano in lui era involontario, un dono del cielo, come l’altezza o la simmetria facciale”.

 

7. (Bisogna interrompere con una spiegazione. È chiaro che quello che si sta facendo è provare a raccontare il proprio David Foster Wallace privato attraverso una qualche forma di rispetto narrativo concluso. Ma è più che impossibile: è difficile; e allora diventa necessario, e bello, rivelare come uno degli assoluti del proprio universo citazionistico – in ogni circostanza “a futuro incerto”: condivisa con gli affetti più cari o con perfetti sconosciuti – sia il brano in cui Orin Incandenza se ne sta da solo, al sole, nella Jacuzzi accanto alla piscina e, con un “prosaico plop. Dal nulla. Dal grande cielo vuoto”, cade un uccello morto nell’acqua: proprio accanto alla sua gamba. “Non c’era verso di prendere la cosa come un buon auspicio”.)

 

8. (O. Anche. Se si vuole essere davvero esaustivi, si dà il caso che non sia stata ancora detta una cosa davvero illuminante sul modo di valutarsi di David Foster Wallace scrittore. Ma ci aiuta di nuovo Lipsky, quando dice che si “mostra molto più sicuro nel parlare delle sue discrete doti di tennista che della straordinaria bellezza della sua prosa”. E infatti David – è incredibile la mancanza di rispetto di uno scrittore, quando si arroga diritti di famigliarità che non gli sono stati mai formalmente concessi: altra lezione di metodo ragionevole – gli ha appena detto “… mi piacerebbe essere il più bravo a tennis fra tutti gli scrittori. Sono molto difficile da battere, se non altro perché ho partecipato a un sacco di tornei. Non sono molto elegante, però sono quasi impossibile da battere. Lo so che suona arrogante”. In questo allineandosi con la tradizione autocritico-sportiva trasposta dei grandi Americani. Come Hemingway, che affermava di poter battere mr Tolstoj, “sulle sei riprese”.)

 

8.(In realtà sarebbe anche bellissimo, semplicemente, raccogliere una serie di frasi di David Foster Wallace in cui ognuno trovi la grandezza personale che individualmente gli ascrive. Seguendo uno dei consigli accettabili di metodo di Wallace, per quanto mi riguarda ho cominciato – al paragrafo precedente. E continuo, allora. “A Quentin Tarantino interessa guardare uno a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l’orecchio”. Fine delle divagazioni ultime).

 

9. Qual è l’arrivo?In sostanza non c’è, come nelle migliori partite: quando semplicemente le forze in campo si trasformano in narrazione: avvantaggiandosi dei gesti singoli in funzione di un piano più largo che però si definisce – e si realizza – solo giocando. E questo, l’uomo che ha scritto di Michael Joyce (che arroganza, mettere un corsivo a Wallace) – promettente tennista che “vuole essere il migliore” e che ha ossessionato al meglio le fatiche dei suoi troppo pochi anni – lo sa. “Per Joyce, a 22 anni, è già troppo tardi per qualunque altra cosa: ci ha investito troppo, c’è dentro fino al collo. Penso che sia tanto fortunato quanto sfortunato. Lui vi dirà che è felice, e dice sul serio. Augurategli buona fortuna”.

 

10. PS.Tutto, e di più. Ecco. In questa corsa a punti per diventare sé stessi alla fine, quello che posso aggiungere è solo una sfilacciatura, una nota di troppo. Se fossi pazzo – e abbastanza coraggioso – potrei dire, sempre giocando, che David Foster Wallace è il fratello perduto di cui sono il figlio unico. O commuovermi, davvero, con l’azzardo acronimo di un RIP. Che è poi l’anagramma fortuito e transitorio delle iniziali di Il Re Pallido. E allora, molto più facilmente, basta una buonanotte. Sweet Prince.

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