La mia pubblicità / René Magritte ha fatto spot

4 Settembre 2016

È in uscita presso l’editore FrancoAngeli il volume di Emanuele Pirella La mia pubblicità, prima raccolta degli articoli scritti dal più importante pubblicitario italiano. Anticipiamo dal volume, curato da Vanni Codeluppi, un articolo su René Magritte.

 

 

 

Aggirarsi per le sale di una galleria o di un museo, tra le tavole di René Magritte, dà la sensazione di trovarsi altrove. Non tra i quadri di un’esposizione, sembra di essere, ma in una grande libreria. L’intera tavolozza dei colori di Magritte, quei malva, quei verdi acidi, quelle inarrivabili combinazioni di lilla sembrano la collezione autunno-inverno delle ultime sfilate di novità presentate dalle edizioni Adelphi. Ma, ancora più curiosamente, a guardare i dipinti, vengono subito alla mente più i nomi di tanti scrittori che non quello del pittore belga. Cosa ci fanno qui le copertine dell’Arte della fuga e dell’Isola volante di Giuseppe Pontiggia? E perché quelle illustrazioni si fanno chiamare La battaglia delle Argonne e Il vaso di Pandora? Girando lo sguardo, si percorre la storia della letteratura del Novecento. L’ultimo Calvino assorbe, annulla totalmente Il castello dei Pirenei. E così Elias Canetti, e Julio Cortazar e Fabrizia Remondino, e Manuel Puig e centinaia di romanzi e di racconti non si capisce perché siano attaccati alle pareti. La roccia scabra, gassosa, immobile nel cielo più promettente, sospesa su un mare di cui non fidarsi è il pack dell’arte combinatoria del Calvino francese, è la carrozzeria elegante di un motore altrui.

 

La produzione intera di Magritte è stata usata per incartare libri e farne un bel pacchetto da regalo. I grafici di tutto il mondo si sono sentiti autorizzati ad appropriarsi di quei quadri e farne carta da imballaggio. Addirittura un olio così bello da vedersi e che Magritte giudicava così inquietante, Il falso specchio, è stato riveduto, corretto e adottato come marchio da un network televisivo americano: la Cbs. Oggi è trasmesso e ritrasmesso senza nessuna coscienza del furto. Rubare a Magritte non fa peccato. La sua produzione è così piacevolmente ornamentale da essere un’istigazione al reato. Si ruba dove è facile rubare, e si ruba tra simili. Un ladruncolo da strada ruba nei bar; un artista del furto sottrae dove è difficile mettere le mani. C’è un’affinità, cioè, fra ladro e derubato. Appartengono allo stesso ambiente, frequentano gli stessi luoghi della fantasia. E se grafici, art director e pubblicitari hanno così spesso depredato René Magritte è perché René Magritte si avvaleva degli stessi strumenti espressivi ai quali fanno ricorso i grafici, gli art director, i pubblicitari. Provassero a mettere le mani addosso a Francis Bacon!

 

Guai, naturalmente, parlare di pubblicità a Magritte. «Qual è la cosa che odia di più?», gli chiesero in un’intervista, nel 1946 «Le arti decorative, il folklore, la voce degli speaker, l’aerodinamismo, l’odore della nafta… e la pubblicità!». Pure a Magritte capitò, per vivere, di dover immaginare campagne pubblicitarie. Per una casa di mode, per un pellicciaio, per un grande magazzino, per dei prodotti di bellezza, addirittura per l’Alfa Romeo. Finì, nel 1930, a Bruxelles, insieme al fratello, per aprire un’agenzia con il nome di Studio Dongo. E la sua produzione pubblicitaria, pubblicata o no, fu talmente copiosa da permettere, nel 1983, a Parigi, di presentare una mostra dei suoi annunci, dal titolo, cattivello e spiritoso, di Ceci n’est pas un Magritte. Ricalcato, ovviamente, da uno dei suoi più famosi e significativi lavori: Ceci n’est pas une pipe.

 

Si poneva questioni professionalmente decisive: «La tavola perfetta non ammette la contemplazione, sentimento banale e senza interesse. Deve produrre un effetto intenso in un tempo fulmineo». Colpire, attrarre l’attenzione con un’immagine spiazzante, incongrua, inattesa: è la pubblicità, sarà la sua pittura sempre. Così i bozzetti rifiutati potevano diventare quadri e i quadri diventeranno, per mano lesta di altri, bozzetti pubblicitari. Un albero apre la sua corteccia per rivelare all’interno, come dentro cofanetti, gli “exciting perfumes by Mem”. Proposta bocciata? Ecco La voce del sangue, un olio su tela di due anni più tardi, più cupo, più risentito, dove, nei cofanetti all’interno del tronco, appaiono una casetta illuminata e una palla bianca.

 

Non dipingeva quadri, ma elaborava messaggi. Studiava congegni narrativi che tenessero conto del destinatario. Magritte, dalla superficie del suo quadro, gioca con il dirimpettaio. Sembra dipingere una cosa, ma dipinge il suo contrario. Sciorina tutto il repertorio da illusionista, ricorrendo al doppio senso, al gioco di parole, alle sostituzioni, al c’è e non c’è, all’incongruità, allo scandalo visivo, allo shock della collisione dei segni. È la cassetta degli attrezzi del comunicatore, anch’egli attento a utilizzare gli strumenti della retorica. Aristotele li ha messi in bella fila nella scansia del suo Trattato. Umberto Eco ci ha fatto vedere come funzionavano in Opera aperta, nella Struttura assente, in Lector in fabula. Ecco l’amplificatio: un’enorme mela riempie una stanza intera. Ecco l’ossimoro, l’accostamento di immagini di senso opposto: una villa illuminata a notte sotto il cielo del mattino. Ecco la metonimia, lo scambio tra causa ed effetto: un enorme uovo dentro una voliera per uccelli.

 

Ecco la perifrasi: la sostituzione della punta di un paio di scarpe con quella della punta dei piedi, con tanto di dita. E l’iterazione: un grappolo di omini tutti uguali, che cadono a dirotto su una città. E la pioggia cade sulle nubi e una foglia ingrandita prende il posto di un albero. E, in dubitatio, la confessione della difficoltà nella quale si trova l’autore a trattare l’argomento: sono le tante tavole in cui interviene la parola («ciel» o «corps humain») a sostituire l’immagine o in cui significante e significato o immagine e reale divergono: Ceci n’est pas une pipe.

 

L’interlocutore dei quadri di Magritte è un uomo felice, emotivamente remunerato, preda soddisfatta della trappola comunicativa. Magritte ce l’ha fatta. Ci ha convinto che il mondo è un inganno. Certo, le ambizioni erano ben maggiori. Magritte mirava a dipingere dei quadri che potessero «rivelarci il mistero del presente e farci partecipare alla vita dello spirito». Ma più che il mistero della vita, ha illustrato i rebus del mondo, i suoi indovinelli. 

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