Rete, apprendimento e “pensiero lineare”
La neuroscienza della lettura è una disciplina recente: a suo modo esoterica, ci conduce in universi di “pilastri viventi” e “foreste di simboli” che avrebbero acceso la più tenebrosa immaginazione romantica. La mente avvicina dapprima la pagina come un enigmatico paesaggio in bianco e nero, privo di riposanti tonalità intermedie: un intrico di architravi, semiarchi e colonne, di ombre dense e contrasti violenti che occorrerà ammansire e organizzare in combinazioni dotate di senso, appunto le “parole”. Il modo in cui ci adattiamo gradualmente alle difficoltà della lettura, nel corso dei primi anni di vita, è un affascinante episodio di riconversione neurale (o “riciclaggio”, suggerisce lo psicolgo cognitivo Stanislas Dehaene). Non esistono regioni predisposte. Ma alcune famiglie di neuroni “visivi” si attivano per la decifrazione delle parole. Sagome, contorni, “figure” a forma di “t”, “x” o “y” sono ricorrenti in natura se osserviamo gli oggetti a partire dai loro profili: compongono l’alfabeto primordiale attraverso cui è scritto il Mondo, sono le “corrispondenze” della poesia di Baudelaire. Gli elementi lineari basici di tutti gli alfabeti fonetici, di geroglifici e ideogrammi rimandano a queste “figure” universali. La nostra mente si è evoluta docilmente, stabilendo mimetismi.
La domanda è: cosa accade, sotto il profilo neurale, se la pagina è visualizzata in ambiente multitasking? La lettura è una manifestazione tra le tante del pensiero lineare. Cosa ci dice la scienza degli effetti reali che l’uso di Internet produce sulla nostra mente? Non è rilevante che il supporto muti, divenga cioè digitale e non cartaceo. È decisivo invece l’eccesso di informazioni in entrata o in uscita. Smartphone e tablet sollecitano attività simultanee e concorrenziali che sovraccaricano la memoria di lavoro precludendo elaborazioni successive. L’uso inesperto dei gadget può inibire o disperdere l’attenzione “selettiva”, la stessa che si associa a una lettura raccolta e prolungata. Stiamo entrando in un’epoca di pensiero non lineare. È un mutamento da temere, che prelude alla scomparsa della società del Libro e dell’Interpretazione? È presto per affermarlo. Anche la diffusione del libro a stampa, racconta Adrian Johns, fu accolta in origine da timori e oscure profezie, poi dissipatisi in seguito. Già i nostri antenati secenteschi, come provano gli studi di Robert Darnton e altri, leggevano spinti da necessità di ordine pratico, in modo “segmentale” e non “sequenziale”, un po’ come noi quando ci muoviamo rapidi e compulsivi tra i diversi link segnalati dai motori di ricerca. Vale però la pena adottare prospettive complesse, che non nascondano le ambivalenze. Le euforie di inizio millennio (sul “Web 2.0” etc.) sono ormai lontane.
Esiste oggi un formidabile consenso sulla necessità di rivedere l’attribuzione delle competenze: l’interazione Mente-Digitale è troppo importante perché le sue modalità possano essere decise da programmatori e ingegneri elettronici. Internet non è l’utopia neoilluminista che credevamo: i propositi dei paladini del “free Web” si scontrano con enormi interessi commerciali. Un’ampia letteratura si occupa di discutere criticamente Rete e Digitale, cataloga distorsioni, vaticina patologie. C’è chi (come Sherry Turkle, docente del MIT e responsabile di Initiative on Technology and Self) indaga l’isolamento cui ci avviano le professioni digitali. Saremo condannati a abitare universi rabbiosi e celibatari? Altri, come Nicholas Carr o Eli Pariser, denunciano che la plasticità della Mente, una risorsa adattiva tra le più preziose, è fuorviata se la Macchina impone lo standard (ci è possibile interpretare, aggiunge Yves Citton, sul presupposto di un’oscura precognizione: niente che possa essere tradotto in algoritmi). Con persuasiva veemenza, e non da posizioni nostalgiche, Jaron Lanier e Geert Lovink invitano a contrastare derive monopolistiche o mistiche totalitarie. La “teoria critica delle Rete” è appena agli inizi: ma già adesso promette di diventare un ambito di ricerca tra i più innovativi del decennio. Le discipline storiche e sociali hanno l’opportunità di trarsi fuori dal logoro recinto dei saperi antiquari e gli studenti di Humanities di imparare a programmare. Joel Bakan introduce un punto di vista solo in apparenza laterale. Nel suo ultimo libro, Assalto all’infanzia, considera l’aggressività del marketing dei prodotti rivolti ai bambini. È probabile che il dibattito sulla Rete, pro et contra, debba in futuro ricollocarsi almeno in parte sotto la voce: “tutela dell’infanzia”.
Pensiero complesso, capacità sintattica e immaginazione si sviluppano in contesti relazionali incoraggianti e attraverso giochi di ruolo. La memoria ha un funzionamento assai diverso da quello dell’attenzione: anch’essa è tuttavia un elemento determinante del processo di acquisizione di nuove conoscenze. Inizia a costituirsi già nel periodo fetale ed è strettamente associata alle esperienze di cura e accoglimento (o di incuria e rifiuto) che segnano i primi anni di vita. Apprendiamo dal rapporto con adulti empatici, in altre parole, in modi che non sono per niente assimilabili a una trasmissione di “informazioni”. Imitiamo chi ci vuole bene e gioca con noi, dunque non desta in noi timore: questa la prospettiva del bambino, irriducibile a modelli cibernetici. Qualcosa come un Principio-Narrazione corrobora l’apprendimento: qualcosa che un ambiente multitasking, frammentario e disparato, disperde. Abbiamo necessità che le informazioni siano esposte o ordinate organicamente all’interno di un racconto. Studi recenti sulle aree del cervello attivate dalla lettura di romanzi spingono a credere che una precoce consuetudine con questo genere letterario accresce competenze psicologiche, sociali e memoria. Riusciamo a orientarci nel mondo solo se sostenuti dalle affabulazioni di avveduti caregiver.