Contro il colonialismo digitale / Roberto Casati e il progetto della lettura

18 Giugno 2013

La discussione attorno al libro di Roberto Casati, Contro la colonialismo digitale, prosegue dopo gli interventi di Roberta Locatelli ed Enrico Manera

 


 

Di recente Roberto Calasso, direttore editoriale di Adelphi, ha espresso senza mezzi termini la sua avversità alla “Rete”, giudicata un modo della conoscenza antitetico a quello del libro, in quanto il lettore – privato della propria individualità – è assimilato da un «immane, operoso termitaio invisibile, che infaticabilmente interviene, corregge, connette, etichetta». Per Calasso la digitalizzazione è dunque nemica di quell'attività riservata, profonda e ponderata che è la Lettura.

 

A un primo sguardo si potrebbe pensare che “Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere” di Roberto Casati corrobori il rifiuto senza condizioni del digitale inteso come organismo autonomo, capace di imporre le proprie logiche sull'apprendimento, sulla cultura e persino sull'intelligenza. Ma se i neoluddisti non si limiteranno a giudicare il libro dalla copertina, riceveranno una spiacevole sorpresa: quella di Casati è in verità un'analisi agile, lucida e tutt'altro che reazionaria. L'autore non demonizza né santifica, al contrario esamina la tecnologia digitale attraverso la lente del progetto: essa non risulta dunque una minacciosa entità fuori controllo, bensì l'esito di scelte effettuate in base a scopi che non sempre contemplano la crescita intellettuale dell'individuo.

 

Ma cosa si intende per colonialismo digitale e a quale modalità di lettura si fa riferimento? Casati si inserisce nell'acceso dibattito sulle sorti degli e-book e dei relativi dispositivi di lettura, pronosticando la fine prossima degli e-reader a inchiostro elettronico, quale ad esempio il Kindle Paperwhite. La lettura, intesa qui come mera funzionalità, sarà inghiottita dai tablet, il cui modello simbolo è l'iPad. Ammesso che il tablet, un dispositivo che permette anche di leggere, si diffonda a macchia d'olio, chi sarebbe disposto ad acquistarne un altro la cui funzione specifica è la lettura? Rovesciando la prospettiva: nel momento in cui le attuali limitazioni tecniche degli e-reader (bianco e nero, lentezza nel refresh, ecc.) saranno superate, cosa impedirà ai colossi informatici di inserire ulteriori funzioni che equivalgono a potenziali territori per pubblicità mirata e raccolta di dati? Lo scenario prospettato è convincente: salvo imprevisti di sorta, due tipologie di device con origini distinte si fonderanno in un unico apparecchio.

 

A questo punto non servono doti divinatorie per dedurre il resto. Chiunque abbia un tablet sa quanto è difficile resistere alla tentazione di app sociali, news e giochi vari. Il design delle interfacce non potrà far altro che favorire il consumo di contenuti piuttosto che la produzione attiva o quanto meno la fruizione impegnata, in una logica di annullamento di qualsiasi confine percepibile tra gioco, comunicazione su social media e, solo infine, forse, lettura. Il fatto che attualmente l'iPad permetta l'utilizzo di una sola app per volta non nega quanto detto: si pensi alle notifiche costanti e all'onnipresenza delle funzionalità social. Perciò si badi bene: gli aspetti a cui l'autore fa riferimento non sono affatto intrinseci al digitale; si tratta, al contrario, di un modello commerciale in forma di user experience.

 

Non tutte le attività risultano necessariamente penalizzate da questo continuo reindirizzamento dell'attenzione. Purtroppo, però, ciò non vale per la modalità di lettura di cui parla Casati, simile a quella di Calasso ma meno idealizzata: una lettura attiva, che richiede memoria e concentrazione, persino ostica se vogliamo, essenziale per affrontare forme letterarie complesse come quella del saggio. L'autore riporta le caratteristiche fisiche del libro cartaceo e gli accorgimenti visivi che esso impiega al fine di favorire la memorizzazione e l'orientamento nel testo, al cui confronto gli attuali dispositivi digitali impallidiscono.

 

Benché in alcuni passaggi il paragone possa apparire perentorio e incontrovertibile («Da questa prospettiva il libro cartaceo ha un formato cognitivo perfetto», corsivo dell'autore), esso è un efficace argomento in opposizione all'acritica rincorsa al nuovo tecnologico che il mondo dell'istruzione persegue senza sosta e senza successo. In particolare Casati contesta i recenti decreti ministeriali relativi ai libri di testo, i quali non si limitano a promuovere l'integrazione del cartaceo con i tablet, ma auspicano la definitiva rinuncia al primo in favore dei secondi. Non è dunque il “digitale” che irrimediabilmente invade i luoghi della cultura, sono al contrario questi ultimi ad accogliere la tecnologia nella sua incarnazione al tempo stesso più accattivante e ambigua.

 

 

Tale processo è favorito dalla diffusione di concetti fumosi come quello di “nativo digitale”: un individuo dotato di un'intelligenza specifica che consentirebbe un utilizzo più profondo dei nuovi media. Di contro Casati pone l'accento sul fatto che l'attuale contesto, caratterizzato dalla frammentazione e dispersione dell'informazione, è subìto più che voluto e non porta a benefici intellettuali dimostrati. Sembra piuttosto che i nativi digitali siano riprogrammati dai nuovi media. Si pensi al multi-tasking: una modalità operativa propria degli attuali computer che si ripercuote sugli utenti, i quali, in assenza di alternative, si ritrovano a funzionare secondo tale logica.

 

Se un modello tecnologico equivoco si fonde con una visione dogmatica del digitale, appare evidente, per Casati, la necessità di erigere spazi protetti per la lettura, innanzitutto all'interno di istituzioni basilari quali la scuola e la biblioteca. A conferma dell'urgenza di questa tesi sono sufficienti le dichiarazioni di Nelson Wolff, uno dei principali promotori della Bibliotech, la prima biblioteca pubblica digitale (ovvero priva di libri cartacei) al mondo, il quale cita Steve Jobs come principale fonte di ispirazione e definisce la biblioteca in questione «una specie di Apple Store».

 

Tornando alla scuola, bisogna tagliare qualsiasi ponte con la tecnologia? Tutt'altro. L'autore propone una forma di “riciclaggio”, ovvero la riconversione di tecnologie (non necessariamente touch o social) per progetti didattici specifici. Lo stesso Casati fa uso del blog come luogo di partecipazione attiva degli studenti e cita persino una tecnologia simile al tanto vituperato SMS, adoperata in un progetto di tutoraggio per agevolare lo svolgimento dei compiti a casa. La tecnologia c'è, ma non invade lo spazio della lettura in classe e non si sovrappone ai momenti di discussione collettiva.

 

L'ambito scolastico può inoltre relazionarsi alle nuove tecnologie adottando un punto di vista analitico rivolto alle dinamiche economiche, sociali e culturali dalle quali scaturiscono gli artefatti digitali di cui facciamo uso quotidiano. Tale attitudine ricorda la proposta, ben più radicale, formulata dal teorico dei media Douglas Rushkoff: insegnare la programmazione nelle scuole, «programmare per non essere programmati». Certamente inserire la comprensione teorica delle tecnologie a scuola è un nobile obbiettivo, ma si scontra con la realtà dei fatti: quanti insegnanti sarebbero in grado di spiegare, anche in parole semplici, come funziona una ricerca su Google?

 

Resta fuori discussione il fatto che nessun tablet né dispositivo elettronico di sorta può sostituire l'insegnante in carne e ossa, poiché ogni contesto richiede interventi specifici e strategie operative differenti che non si possono (e non si devono) determinare algoritmicamente. Secondo Casati il ruolo del professore dev'essere quello di designer della situazione di apprendimento. È necessario dunque estendere lo sguardo progettuale all'insieme di mediazioni che intervengono su di essa: dall'“interfaccia” del libro di testo, ai luoghi e i tempi della lettura, passando per le molteplici modalità di interazione tra studenti e insegnanti. Questa visione estesa del design, una delle idee più forti presenti nel libro, rappresenta lo strumento principale per affermare che «la novità non è un destino». Con la speranza che non sia già troppo tardi.

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